“Fuori speciale” è una serie di articoli che vengono scritti di getto nel periodo di pubblicazione dello
speciale “La grande abbuffata”. Pur non essendone parte integrante, ciò che viene qui trattato
ruota intorno all’argomento principale senza spezzarne il filo logico. Si tratta, in estrema sintesi, di
piccoli approfondimenti che non hanno trovato posto nella struttura principale. “Fuori speciale”, in
uscita tutti i venerdì, non è una lettura necessaria alla comprensione degli articoli de “La grande abbuffata” (che usciranno invece il lunedì), è viceversa una lettura che può essere ignorata o
rimandata, a vostro piacimento.
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In precedenza, all’interno di questa piccola serie di post “fuori speciale” mi è capitato di cercare l’ispirazione in film importanti, alcuni dei quali veramente mitici, e in film assolutamente discutibili che un pochino mi vergognavo perfino di conoscere. Il film da cui prendo spunto per il post di oggi appartiene alla prima categoria, e in questo preciso caso il termine mitico è forse addirittura riduttivo. Stiamo parlando di un film di Charlot, signore e signori, la più grande maschera comica dell’era del muto ideata e resa immortale da Charlie Chaplin, che con quella maschera, ancora oggi, viene spesso confuso. In verità in “La febbre dell’oro” (The Gold Rush, 1925) Charlot non è accreditato come tale, ma è innegabile che quel cappello, quel bastone e quelle le scarpe sproporzionate lo leghino strettamente al “piccolo vagabondo” più celebre della storia. Non so quanti di voi abbiano avuto l’occasione (o la fortuna) di assistere a “La febbre dell’oro” o a un qualsiasi altro film con Chaplin: spero sinceramente che lo abbiate fatto tutti, ma capisco che assistere a un film muto di questi tempi possa essere un’esperienza difficile, specie se mal si sopportano quelle antiquate musichette di sottofondo. Se non lo avete mai fatto, allora “La febbre dell’oro” potrebbe essere un buon punto di partenza, in quanto rappresenta la sintesi più completa dell’arte di Chaplin, una vera sinfonia in bianco e nero capace di far sorridere e commuovere spettatori di ogni nazionalità, classe e cultura; non solo quindi i diseredati, i deboli e i sofferenti, ai quali egli direttamente si rivolgeva, ma anche le classi più abbienti che sovente erano, ahimè, la causa stessa delle miserie della fetta più grande dell’umanità.
Mi verrebbe da dire che le violenze e le torture che la società impone all’individuo oggi, un secolo più tardi, sono rimaste le stesse, non sono cambiate, addirittura arrivano a essere ancora più ciniche e crudeli, ed è questo il motivo per cui il personaggio di Charlot funziona ancora così bene: chi assiste alle sue gesta non può far altro che sognare il giorno del riscatto, proprio come “il piccolo vagabondo” in quella indimenticabile cena di San Silvestro, durante la quale metteva in scena la famosa danza dei panini (commovente proprio perché soltanto sognata) per degli ospiti che nella realtà non sarebbero mai arrivati.
La realtà di Charlot è in verità un’altra, è la realtà in cui egli si cucina e mangia le scarpe, separando con cura meticolosa le suole e avvolgendo i lacci con la forchetta come fossero spaghetti. La risata qui esplode per il contrasto tra la realtà della fame e l’assurdità della situazione, ma è chiaro che ciò che rimane, anche dopo l’improbabile epilogo del film, è solo una sensazione di amarezza. Non fu certo un caso se Totò, uno che la fame l'aveva patita per davvero, di quell’amarezza ne avrebbe di lì a poco fatto il proprio cavallo di battaglia.
La scena della bollitura delle scarpe, per inciso, per quanto possa sembrare assurda pare derivi da un episodio reale avvenuto verso la fine dell’Ottocento ad alcuni cercatori d’oro che tentarono di valicare il nevoso Chilkoot Pass del Klondike: tormentati dalla malnutrizione, i viaggiatori fecero bollire un paio di stivali e ne bevvero quindi il brodo.
C’è però un altro motivo ne “La febbre dell’oro” che è passato un po’ in sordina ma che è altrettanto significativo, ed è la rievocazione degli aspetti meno noti della grande corsa all’oro, quelli che registrarono i primi episodi di cannibalismo dell’era moderna. La scena è molto semplice per come è presentata: un cercatore d’oro, attanagliato dalla fame e in preda ad allucinazioni, vede Charlot trasformarsi in un gigantesco pollo ruspante. La situazione è sostanzialmente comica, ma esplode nella sua drammaticità nel momento in cui si vanno a spulciare le cronache dell’epoca, ed è per questo motivo che ho deciso intitolare questo articolo “Il primo film cannibalico della storia”.
Due sono i casi che ho individuato e che ritengo essere i più famosi. Il primo è il caso di Alferd Packer (noto anche come Alfred o Al Packer), che all’inizio del 1875 tentò con altri cinque uomini di attraversare le montagne San Juan in Colorado. Nessuno seppe più nulla di loro fino a primavera, quando Packer riemerse da solo dai boschi e giunse a un piccolo insediamento, dove raccontò ai suoi soccorritori che il gruppo l’aveva lasciato indietro perché troppo lento, e che si era ritrovato a poter sopravvivere solo nutrendosi di bacche e radici. La storia destò da subito molti dubbi, in quanto Packer, che non appariva affatto malnutrito, aveva con sé alcuni oggetti che non gli appartenevano. Quando fu arrestato, l'uomo dichiarò che i suoi compagni, per via delle condizioni estreme, avevano cominciato a morire uno alla volta e che i sopravvissuti avevano deciso di cibarsi dei cadaveri per sopravvivere.
La verità venne alla luce solo mesi più tardi, quando i corpi furono infine ritrovati: fu facile stabilire che Packer aveva ucciso i cinque uomini simultaneamente, mentre erano immersi nel sonno, con l'evidente intenzione di derubarli dei loro averi. Packer in seguito non sarebbe stato in grado di fuggire dalle montagne, riducendosi quindi a mangiare i resti delle sue vittime per poter sopravvivere fino al disgelo. Esistono naturalmente numerose teorie che assolvono Packer dalle accuse a lui rivolte, ma non è certo questo il contesto per affrontarle.
Il secondo caso è probabilmente quello più famoso e, per inciso, lo stesso Chaplin ammise di averlo usato come ispirazione per “La febbre dell’oro” in un’intervista da lui rilasciata nel 1947. Si tratta del caso della “Spedizione Donner”, ovvero di un gruppo di pionieri che partì per la California con una fila di quei tipici carri coperti da film western, riempiti all’inverosimile di viveri, tessuti, attrezzi e cianfrusaglie da scambiare con i nativi. Il contesto non era quello della corsa all’oro, che sarebbe iniziata solo alcuni decenni più tardi, bensì quello della colonizzazione della costa del Pacifico, raggiungibile aprendo una strada attraverso le grandi pianure, il deserto e le montagne rocciose. Negli ultimi mesi del 1845, nella cittadina di Springfield, in Illinois, alcune famiglie, prime fra tutte i Donner, stavano riflettendo sulle opportunità offerte dall’Ovest e sulla possibilità di affrontare un viaggio di quella portata. Il piano era raggiungere Independence nel Missouri per unirsi alla Oregon Trail, proseguire con essa fino a Fort Hall e da lì dirigersi a San Francisco. Ma arrivò il deserto, con il caldo e la sete. Poi arrivarono le montagne, con il freddo e la fame. Gli animali erano stremati e non c’era più alcuna possibilità di tornare indietro, le provviste scarseggiavano e lo sconforto stava avendo la meglio. C’era chi già attendeva la morte, mentre altri decisero di rivolgere la propria attenzione agli animali caduti, e altri ancora iniziarono a dare la caccia ai topi. Poi iniziarono ad abbattere gli animali.
Era l'inverno tra il 1846 e il 1847 e la carovana era accampata sulla Sierra Nevada. Quattro mesi più tardi, a fine febbraio, quando i soccorsi arrivarono ciò che si presentò agli occhi dei testimoni fu agghiacciante: i morti giacevano senza sepoltura e i sopravvissuti erano ormai degli spettri deliranti, non più nemmeno in grado di essere salvati. La maggior parte di loro era dovuta ricorrere al cannibalismo per sopravvivere, nutrendosi dei compagni morti per fame o malattia. Delle 87 persone che si avventurarono sulla Sierra Nevada solo 48 sopravvissero. Sono davvero pochissime le proposte cinematografiche ispirate a casi come quelli appena citati, ma tra queste vale senz’altro la pena citare “L'insaziabile” (Ravenous), un western horror del 1999 diretto dalla londinese Antonia Bird e ispirato proprio al caso Packer, e il classicissimo “Alive – i sopravvissuti” (1993) di Frank Marshall, ispirato a un disastro aereo avvenuto sulle Ande nel 1972 (oltre alle rivisitazioni della stessa storia già citate, come questa, nello speciale). Qualche anno fa la 20th Century Fox aveva affidato a Luke Scott, figlio del più celebre Ridley, la regia di film incentrato sulla spedizione Donner (si sarebbe dovuto intitolare “The Hunger”), ma pare che qualcosa alla fine sia andato storto. Resta indiscutibile che, di questo genere,“La febbre dell’oro” è il capostipite.
Forse poiché appartengo a un'altra epoca, quando era normale che la Rai a volte trasmettesse vecchi spezzoni del cinema muto, quella scena famosa di Chaplin l'ho vista. Ignoravo però che si ispirasse a eventi tutt'altro che comici.
RispondiEliminaNon è chiaro se l'ispirazione fosse stata davvero tale o se fosse frutto di una bizzarra coincidenza, ma è un dato di fatto che le voci attorno a episodi di quel tipo non facevano troppa fatica a diffondersi. Credo che l'equazione "cercatori d'oro" uguale a "fame" e "cannibalismo" fosse piuttosto semplice da comporre.
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