Sì, avete letto bene. Lo so. Lo so che è il 2013. Volevo proprio scrivere “Giugno ‘73”. Il fatto è che da qualche giorno, così casualmente, suona ininterrottamente nella mia testa (e nel mio lettore CD) quella vecchia canzone di Fabrizio De André. Ho improvvisamente realizzato che sono passati esattamente 40 anni da quel lontano mese di giugno cantato da Faber, e allora mi sono sentito salire dentro l’idea di questo post, di questo ultimo post di giugno (me ne andrò infatti qualche giorno in vacanza sperando di ritrovarvi tutti a luglio)
Fabrizio De André scrisse questa canzone qualche anno dopo, esattamente nel 1975, e la inserì nel suo album “Volume VIII”. Io a quei tempi ero piccolino: ci avrei messo molti anni ancora per innamorarmi delle canzoni del Grande Genovese e questa “Giugno ‘73”, in particolare, è una di quelle che ho sempre preferito. Il fatto è che è impossibile non lasciarsi trasportare da quella voce così malinconica, da quelle note di una semplicità quasi imbarazzante e da quelle parole così intense e ricche di significato. Ecco, appunto, l’interpretazione di “Giugno ‘73” è praticamente lo scopo del post di oggi. Non sarà per nulla facile: molte parole sembrano buttate lì a caso, senza uno scopo apparente. Ci sono solo alcuni passaggi abbastanza chiari che lasciano poco spazio al dubbio, ma la maggior parte del testo è davvero criptica. Ho letto in rete diverse opinioni circa il significato di questo testo, che riporterò laddove necessario, ma qui cercherò di fare qualche passo in più. Perlomeno questo è il mio proposito: non è nemmeno detto che ci riesca.
Partiamo innanzitutto dal contesto storico: ci troviamo in pieno negli anni Settanta del secolo scorso. In Italia e nel mondo stanno avvenendo cambiamenti significativi: ci eravamo appena lasciati alle spalle un decennio difficile: il movimento studentesco del Sessantotto, il cosiddetto “autunno caldo” del Sessantanove furono gli ultimi bagliori di un periodo in cui sognare era ancora possibile. Un sogno che terminò improvvisamente la mattina del 12 dicembre, abbattuto dalle bombe di piazza Fontana. Fabrizio De André, in assoluta controtendenza rispetto ai quei tempi, mandò alle stampe “La buona novella”: un “concept album” tratto dalla lettura di alcuni Vangeli apocrifi, ritenuto da lui stesso il lavoro più riuscito della sua carriera, ma considerato da compagni, amici e coetanei come anacronistico. “Non avevano capito che la Buona Novella era un’allegoria. Paragonavo le istanze migliori e più ragionevoli del Movimento Sessantottino, cui io stesso ho partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968 anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere, i soprusi dell’autorità, si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali” (dal concerto al Teatro Brancaccio, 14 febbraio 1998).
Il nuovo decennio iniziò poi con un avvenimento memorabile: nel dicembre 1970 fu approvata, nonostante l'opposizione della Democrazia Cristiana, la famosa legge 898 "Fortuna-Baslini", più comunemente nota come “Legge sul divorzio”. Fabrizio De André era alle prese con un altro concept album ispirato ad alcune poesie tratte dall’Antologia di Spoon River, come la celebre storia, ispirata alla figura di Selah Lively, di “un giudice finalmente arbitro in terra del bene e del male” o come la storia del suonatore Jones, “colui che offrì la faccia la vento, la gola al vino e mai un pensiero, non al denaro, non all’amore né al cielo”. Sarebbe da lì a poco iniziato un periodo di forte crisi per De André, soprattutto dal punto di vista personale: il matrimonio con Enrica Rignon, detta "Puny", dalla quale ebbe alla fine del 1962 il figlio Cristiano, volgeva al termine. Il divorzio, sebbene ormai divenuto una realtà, era tuttavia ancora guardato con sospetto, quasi come se una firma su un pezzo di carta non fosse abbastanza per trasformare una persona sposata in una persona nuovamente libera, come è peraltro ben trasmesso dalla prima strofa di “Giugno ‘73”
Tua madre ce l’ha con me perché sono sposato, canta De André. Egli tecnicamente è infatti ancora solo separato e ciò di fatto lo rende nulla di più di un fedifrago agli occhi della madre citata in [1]. Ma la madre di chi? Questo ce lo spiega lo stesso cantautore in una famosa intervista: “Questa canzone l'ho scritta per una ragazza di nome Roberta, con la quale ho vissuto due anni, fra la mia prima moglie e la Dori. Tutti credono che sia stata scritta per Dori, invece no.” (Doriano Fasoli, Fabrizio De André: passaggi di tempo, p. 60). La famiglia di lei, in particolare la madre per quel che ne sappiamo, è quindi contraria a questa relazione. Roberta, si dice, sarebbe figlia di borghesi benestanti, Fabrizio è un cantante, con un matrimonio e un figlio alle spalle. La musica oggi è in grado di aprire molte porte, ma negli anni Settanta essere un cantante equivaleva a ricevere l’etichetta di “capellone drogato fancazzista” anche se, come era appunto il caso di De André in quegli anni, si potevano già vantare diversi album di successo a curriculum. E tale curriculum giustifica perfettamente l’apparente albagia che deriva dalla scelta delle parole “però canto bene”. Sarà altrettanto brava quella signora a vergognarsi di lui? Quanto potrà andare avanti ad ostacolare quell’amore?
Il nome di questo uccello, evidentemente a causa del suo comportamento, è spesso usato come sinonimo di chiacchierona e di ladra. Ma ci sono alcune diverse interpretazioni che potrebbero calzare a pennello con il tema di Giugno ’73: secondo una leggenda greca le Pieridi, nove ragazze della Tracia, vollero sostenere una gara di canto con le Muse e, sconfitte, furono trasformate in gazze. Si potrebbe riconoscere, nelle gazze di questa leggenda narrata da Ovidio, il simbolo dell’invidia e della presunzione. Fabrizio si reca a comprare dei fiori per Roberta e, non trovandoli, ripiega su una gazza parlante. Perché mai un dono così singolare? Forse la gazza celava qualche messaggio particolare? In Cina, per esempio, la gazza ha a che fare con l’infedeltà coniugale: lo specchio donato dal marito si trasforma in gazza e riferisce se la moglie lo ha ingannato in sua assenza. Alquanto singolare la questione vista da questa prospettiva, no? Il vero motivo ci viene comunque spiegato nella strofa successiva.
Fabrizio regala la gazza alla famiglia. Anche i fiori citati in [7], ma non trovati, erano probabilmente un regalo alla famiglia, un modo come un altro per farsi accettare. La gazza è quindi un tramite. Anzi, no, è un surrogato. Insegnando alla gazza a pronunciare "Ciao come stai", Fabrizio avrebbe avuto l’impressione che almeno qualcuno in quella casa potesse aver piacere delle sue visite. Se la madre non lo degnava nemmeno di un saluto, ci sarebbe stato qualcun altro a dargli il benvenuto con quelle parole. E chissà se forse, un giorno, anche la famiglia di lei avrebbe imparato ad accettarlo come stava imparando a fare, seppur inconsciamente, il nero pennuto? Non era amore quello che Fabrizio cercava, ma solo accettazione. E questo è evidente dalla scelta delle parole “insomma non proprio a cantare” [10]. La morte della gazza potrebbe infine essere un modo per farci sapere che il suo tentativo è fallito, che tutto alla fine è fallito e a lui non restano che le lacrime di una bambina, la sorellina di lei, l’unica creatura davvero innocente in tutta questa storia.
Improvvisamente infatti ci rendiamo conto che la famiglia di lei non è l’unico ostacolo da affrontare. Come purtroppo accade spesso, quando la passione dei primi giorni viene a scemare, tutto crolla come un castello di carte se una coppia non ha molto altro in comune. In questo caso non c’è davvero nulla in comune tra i due. Lei frequenta l’alta borghesia: quindi balli, ricevimenti e abiti firmati. Un mondo probabilmente falso che si regge sull’effimero, ma è il suo mondo. Lui appartiene ad un mondo decisamente diverso e la cosa è resa evidente in primo luogo dal suo abbigliamento, certamente dozzinale e sicuramente non cucitogli addosso su misura da un sarto. Ci sono diverse opinioni su quale sia effettivamente il significato della parola “amici” citata in [12]. Potrebbero essere letteralmente degli amici di Fabrizio. Egli avrebbe tentato di inserire Roberta nel suo mondo, nella sua compagnia di amici un po’ bohemiens, ma lei non si sarebbe sentita a suo agio. “Non hai amici migliori?”, gli chiede, come se essere migliori dipendesse più dall’apparenza (l’abito) che dall’essere persone a proprio modo oneste e gentili (educate). Su un forum ho letto una diversa interpretazione: gli “amici” sarebbero in realtà le sue abitudini di vita, per lei incomprensibili (strane), essendo abituata a comportamenti (vestiti) più nobili, “cuciti su misura” da un sarto e non “comprati” ai grandi magazzini. Credo che il tizio del forum ci sia andato parecchio vicino, visto che poco più avanti il termine “amici” viene utilizzato di nuovo in una maniera alquanto singolare.
Questo è uno dei passi più criptici di “Giugno ‘73”, ed anche uno dei più discussi. Si dice in un altro forum che la mimosa altro non sarebbe che l’eroina: una mimosa gialla come il succo di limone con il quale i tossici del tempo usavano sciogliere, appunto, in un cucchiaio la loro dose. Questa teoria spiegherebbe il successivo [17] imbuto di un polsino slacciato (la siringa nel braccio), spiegherebbe l’accendino citato in [21], comunemente usato per scaldare la dose, spiegherebbe il “mi fermavano il sangue” citato in [23], come un richiamo all’utilizzo del laccio emostatico, e spiegherebbe infine le richieste di aiuto citate in [26]. Roberta era quindi un’eroinomane? Potrebbe aver senso, ma non credo questa chiave di lettura sia quella corretta o, perlomeno, mi piace pensare che non lo sia. Quello che è certo è che la storia tra i due è a questo punto giunta al termine. “I miei amici ti hanno dato la mano” potrebbe significare che “io e le mie abitudini, il mio modo d’essere quello che sono, ti lasciano, se ne vanno. E se ne vanno elegantemente con una stretta di mano.” Il polsino è ora slacciato, liberando il polso della ragazza dalla stratta morsa di una relazione senza futuro. Lei sembra essere sollevata dalla decisione di lui di voler troncare il rapporto (ride). Per Fabrizio è giunto il momento di andarsene, di raccogliere le sue cose, le sue abitudini (li accompagno) e di intraprendere un “viaggio che porta più lontano”, quindi di liberarsi dalle catene di una storia d’amore conclusa e di procedere oltre con la propria vita. E la mimosa? Nella simbologia dei fiori la mimosa è l’emblema della sicurezza e, in senso più ampio, della certezza che la morte sia una metamorfosi dell’essere, non una distruzione totale. Fu per questo che un rametto di mimosa (di acacia, in verità) fu deposto nella tomba di Hiram (ma questa è un’altra storia). Quindi la mimosa rappresenterebbe la resurrezione, l’inizio di una nuova vita o, in questo caso, la possibilità di nuovi amori che possano nascere dalle ceneri di quello appena concluso. L’inizio della strofa successiva sembrerebbe confermare la mia ipotesi.
Il significato di quei “due peli d’elefante” mi ha tormentato per anni. Non avrei mai potuto capirlo da solo se non fossi incappato in un forum (un altro ancora) dove un tizio, evidentemente di qualche anno più vecchio di me, spiegava: "Negli anni 70 si usavano i pantaloni a zampa d'elefante” - e questo lo sanno anche i sassi – “ma anche dei braccialetti con dei peli d'elefante". Drammaticamente semplice come spiegazione, no? Fabrizio non fa altro che gettare nella spazzatura (anche se dice eufemisticamente “li ho dati a un passante”), un accendino e un braccialetto, triste ricordo di una persona che desidera dimenticare. Il “fermavano il sangue” non avrebbe quindi nulla a che fare con la tossicodipendenza, il laccio emostatico ventilato da quel tizio di prima: semplicemente sono oggetti che stringono, che legano Fabrizio al passato.
Quando una storia d’amore finisce non c’è bisogno di fare nulla né di pensare a nulla. Tutto il resto viene semplicemente da sé, come Fabrizio dice a Roberta in questi ultimi versi. Il tempo rimarginerà le ferite e un giorno, forse nemmeno troppo lontano, qualcun altro entrerà nella tua vita, accorrendo al tuo richiami (ai tuoi “Aiuto”), ed è quasi inevitabile che ciò accada, perché l’amore, non neghiamolo, è nella natura umana.
Quei due versi conclusivi sono di una tristezza infinita. “È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati” canta De André, rivelandoci una verità che quasi ci sorprende: lui la ama ancora. Non c’è alcun dubbio. La ama la punto che è disposto a lasciarla andare via. Un amore che, ancora per molto tempo, gli farà sanguinare il cuore, visto che questa canzone, lo ricordo, è stata scritta due anni dopo. Nei suoi concerti Fabrizio De André usava introdurre “Giugno ‘73” con queste parole: “È una piccola storia di un grande amore, di un amore felicissimo che finché è durato è stato meraviglioso. Quando poi si è incrinato ed è diventato, come diceva Flaubert, soprattutto una comunione di cattivi umori il giorno e di cattivi odori la notte, si è altrettanto felicemente concluso. Quindi un amore felice in tutti i sensi.”
Fabrizio De André scrisse questa canzone qualche anno dopo, esattamente nel 1975, e la inserì nel suo album “Volume VIII”. Io a quei tempi ero piccolino: ci avrei messo molti anni ancora per innamorarmi delle canzoni del Grande Genovese e questa “Giugno ‘73”, in particolare, è una di quelle che ho sempre preferito. Il fatto è che è impossibile non lasciarsi trasportare da quella voce così malinconica, da quelle note di una semplicità quasi imbarazzante e da quelle parole così intense e ricche di significato. Ecco, appunto, l’interpretazione di “Giugno ‘73” è praticamente lo scopo del post di oggi. Non sarà per nulla facile: molte parole sembrano buttate lì a caso, senza uno scopo apparente. Ci sono solo alcuni passaggi abbastanza chiari che lasciano poco spazio al dubbio, ma la maggior parte del testo è davvero criptica. Ho letto in rete diverse opinioni circa il significato di questo testo, che riporterò laddove necessario, ma qui cercherò di fare qualche passo in più. Perlomeno questo è il mio proposito: non è nemmeno detto che ci riesca.
Partiamo innanzitutto dal contesto storico: ci troviamo in pieno negli anni Settanta del secolo scorso. In Italia e nel mondo stanno avvenendo cambiamenti significativi: ci eravamo appena lasciati alle spalle un decennio difficile: il movimento studentesco del Sessantotto, il cosiddetto “autunno caldo” del Sessantanove furono gli ultimi bagliori di un periodo in cui sognare era ancora possibile. Un sogno che terminò improvvisamente la mattina del 12 dicembre, abbattuto dalle bombe di piazza Fontana. Fabrizio De André, in assoluta controtendenza rispetto ai quei tempi, mandò alle stampe “La buona novella”: un “concept album” tratto dalla lettura di alcuni Vangeli apocrifi, ritenuto da lui stesso il lavoro più riuscito della sua carriera, ma considerato da compagni, amici e coetanei come anacronistico. “Non avevano capito che la Buona Novella era un’allegoria. Paragonavo le istanze migliori e più ragionevoli del Movimento Sessantottino, cui io stesso ho partecipato, con quelle, molto più vaste spiritualmente, di un uomo di 1968 anni prima, che proprio per contrastare gli abusi del potere, i soprusi dell’autorità, si era fatto inchiodare su una croce, in nome di una fratellanza e di un egualitarismo universali” (dal concerto al Teatro Brancaccio, 14 febbraio 1998).
Il nuovo decennio iniziò poi con un avvenimento memorabile: nel dicembre 1970 fu approvata, nonostante l'opposizione della Democrazia Cristiana, la famosa legge 898 "Fortuna-Baslini", più comunemente nota come “Legge sul divorzio”. Fabrizio De André era alle prese con un altro concept album ispirato ad alcune poesie tratte dall’Antologia di Spoon River, come la celebre storia, ispirata alla figura di Selah Lively, di “un giudice finalmente arbitro in terra del bene e del male” o come la storia del suonatore Jones, “colui che offrì la faccia la vento, la gola al vino e mai un pensiero, non al denaro, non all’amore né al cielo”. Sarebbe da lì a poco iniziato un periodo di forte crisi per De André, soprattutto dal punto di vista personale: il matrimonio con Enrica Rignon, detta "Puny", dalla quale ebbe alla fine del 1962 il figlio Cristiano, volgeva al termine. Il divorzio, sebbene ormai divenuto una realtà, era tuttavia ancora guardato con sospetto, quasi come se una firma su un pezzo di carta non fosse abbastanza per trasformare una persona sposata in una persona nuovamente libera, come è peraltro ben trasmesso dalla prima strofa di “Giugno ‘73”
Tua madre ce l'ha molto con me [1]
perché sono sposato e in più canto [2]
però canto bene e non so se tua madre [3]
sia altrettanto capace a vergognarsi di me [4]
Tua madre ce l’ha con me perché sono sposato, canta De André. Egli tecnicamente è infatti ancora solo separato e ciò di fatto lo rende nulla di più di un fedifrago agli occhi della madre citata in [1]. Ma la madre di chi? Questo ce lo spiega lo stesso cantautore in una famosa intervista: “Questa canzone l'ho scritta per una ragazza di nome Roberta, con la quale ho vissuto due anni, fra la mia prima moglie e la Dori. Tutti credono che sia stata scritta per Dori, invece no.” (Doriano Fasoli, Fabrizio De André: passaggi di tempo, p. 60). La famiglia di lei, in particolare la madre per quel che ne sappiamo, è quindi contraria a questa relazione. Roberta, si dice, sarebbe figlia di borghesi benestanti, Fabrizio è un cantante, con un matrimonio e un figlio alle spalle. La musica oggi è in grado di aprire molte porte, ma negli anni Settanta essere un cantante equivaleva a ricevere l’etichetta di “capellone drogato fancazzista” anche se, come era appunto il caso di De André in quegli anni, si potevano già vantare diversi album di successo a curriculum. E tale curriculum giustifica perfettamente l’apparente albagia che deriva dalla scelta delle parole “però canto bene”. Sarà altrettanto brava quella signora a vergognarsi di lui? Quanto potrà andare avanti ad ostacolare quell’amore?
La gazza che ti ho regalato [5]
è morta, tua sorella ne ha pianto, [6]
quel giorno non avevano fiori, peccato, [7]
quel giorno vendevano gazze parlanti. [8]
Il nome di questo uccello, evidentemente a causa del suo comportamento, è spesso usato come sinonimo di chiacchierona e di ladra. Ma ci sono alcune diverse interpretazioni che potrebbero calzare a pennello con il tema di Giugno ’73: secondo una leggenda greca le Pieridi, nove ragazze della Tracia, vollero sostenere una gara di canto con le Muse e, sconfitte, furono trasformate in gazze. Si potrebbe riconoscere, nelle gazze di questa leggenda narrata da Ovidio, il simbolo dell’invidia e della presunzione. Fabrizio si reca a comprare dei fiori per Roberta e, non trovandoli, ripiega su una gazza parlante. Perché mai un dono così singolare? Forse la gazza celava qualche messaggio particolare? In Cina, per esempio, la gazza ha a che fare con l’infedeltà coniugale: lo specchio donato dal marito si trasforma in gazza e riferisce se la moglie lo ha ingannato in sua assenza. Alquanto singolare la questione vista da questa prospettiva, no? Il vero motivo ci viene comunque spiegato nella strofa successiva.
E speravo che avrebbe insegnato a tua madre [9]
A dirmi "Ciao come stai ", insomma non proprio a cantare [10]
per quello ci sono già io come sai. [11]
Fabrizio regala la gazza alla famiglia. Anche i fiori citati in [7], ma non trovati, erano probabilmente un regalo alla famiglia, un modo come un altro per farsi accettare. La gazza è quindi un tramite. Anzi, no, è un surrogato. Insegnando alla gazza a pronunciare "Ciao come stai", Fabrizio avrebbe avuto l’impressione che almeno qualcuno in quella casa potesse aver piacere delle sue visite. Se la madre non lo degnava nemmeno di un saluto, ci sarebbe stato qualcun altro a dargli il benvenuto con quelle parole. E chissà se forse, un giorno, anche la famiglia di lei avrebbe imparato ad accettarlo come stava imparando a fare, seppur inconsciamente, il nero pennuto? Non era amore quello che Fabrizio cercava, ma solo accettazione. E questo è evidente dalla scelta delle parole “insomma non proprio a cantare” [10]. La morte della gazza potrebbe infine essere un modo per farci sapere che il suo tentativo è fallito, che tutto alla fine è fallito e a lui non restano che le lacrime di una bambina, la sorellina di lei, l’unica creatura davvero innocente in tutta questa storia.
I miei amici sono tutti educati con te [12]
però vestono in modo un po' strano [13]
mi consigli di mandarli da un sarto e mi chiedi [14]
"Sono loro stasera i migliori che abbiamo ". [15]
Improvvisamente infatti ci rendiamo conto che la famiglia di lei non è l’unico ostacolo da affrontare. Come purtroppo accade spesso, quando la passione dei primi giorni viene a scemare, tutto crolla come un castello di carte se una coppia non ha molto altro in comune. In questo caso non c’è davvero nulla in comune tra i due. Lei frequenta l’alta borghesia: quindi balli, ricevimenti e abiti firmati. Un mondo probabilmente falso che si regge sull’effimero, ma è il suo mondo. Lui appartiene ad un mondo decisamente diverso e la cosa è resa evidente in primo luogo dal suo abbigliamento, certamente dozzinale e sicuramente non cucitogli addosso su misura da un sarto. Ci sono diverse opinioni su quale sia effettivamente il significato della parola “amici” citata in [12]. Potrebbero essere letteralmente degli amici di Fabrizio. Egli avrebbe tentato di inserire Roberta nel suo mondo, nella sua compagnia di amici un po’ bohemiens, ma lei non si sarebbe sentita a suo agio. “Non hai amici migliori?”, gli chiede, come se essere migliori dipendesse più dall’apparenza (l’abito) che dall’essere persone a proprio modo oneste e gentili (educate). Su un forum ho letto una diversa interpretazione: gli “amici” sarebbero in realtà le sue abitudini di vita, per lei incomprensibili (strane), essendo abituata a comportamenti (vestiti) più nobili, “cuciti su misura” da un sarto e non “comprati” ai grandi magazzini. Credo che il tizio del forum ci sia andato parecchio vicino, visto che poco più avanti il termine “amici” viene utilizzato di nuovo in una maniera alquanto singolare.
E adesso ridi e ti versi un cucchiaio di mimosa [16]
Nell'imbuto di un polsino slacciato. [17]
I miei amici ti hanno dato la mano, [18]
li accompagno, il loro viaggio porta un po' più lontano. [19]
Questo è uno dei passi più criptici di “Giugno ‘73”, ed anche uno dei più discussi. Si dice in un altro forum che la mimosa altro non sarebbe che l’eroina: una mimosa gialla come il succo di limone con il quale i tossici del tempo usavano sciogliere, appunto, in un cucchiaio la loro dose. Questa teoria spiegherebbe il successivo [17] imbuto di un polsino slacciato (la siringa nel braccio), spiegherebbe l’accendino citato in [21], comunemente usato per scaldare la dose, spiegherebbe il “mi fermavano il sangue” citato in [23], come un richiamo all’utilizzo del laccio emostatico, e spiegherebbe infine le richieste di aiuto citate in [26]. Roberta era quindi un’eroinomane? Potrebbe aver senso, ma non credo questa chiave di lettura sia quella corretta o, perlomeno, mi piace pensare che non lo sia. Quello che è certo è che la storia tra i due è a questo punto giunta al termine. “I miei amici ti hanno dato la mano” potrebbe significare che “io e le mie abitudini, il mio modo d’essere quello che sono, ti lasciano, se ne vanno. E se ne vanno elegantemente con una stretta di mano.” Il polsino è ora slacciato, liberando il polso della ragazza dalla stratta morsa di una relazione senza futuro. Lei sembra essere sollevata dalla decisione di lui di voler troncare il rapporto (ride). Per Fabrizio è giunto il momento di andarsene, di raccogliere le sue cose, le sue abitudini (li accompagno) e di intraprendere un “viaggio che porta più lontano”, quindi di liberarsi dalle catene di una storia d’amore conclusa e di procedere oltre con la propria vita. E la mimosa? Nella simbologia dei fiori la mimosa è l’emblema della sicurezza e, in senso più ampio, della certezza che la morte sia una metamorfosi dell’essere, non una distruzione totale. Fu per questo che un rametto di mimosa (di acacia, in verità) fu deposto nella tomba di Hiram (ma questa è un’altra storia). Quindi la mimosa rappresenterebbe la resurrezione, l’inizio di una nuova vita o, in questo caso, la possibilità di nuovi amori che possano nascere dalle ceneri di quello appena concluso. L’inizio della strofa successiva sembrerebbe confermare la mia ipotesi.
E tu aspetta un amore più fidato [20]
il tuo accendino sai io l'ho già regalato [21]
e lo stesso quei due peli d'elefante [22]
mi fermavano il sangue [23]
li ho dati a un passante. [24]
Il significato di quei “due peli d’elefante” mi ha tormentato per anni. Non avrei mai potuto capirlo da solo se non fossi incappato in un forum (un altro ancora) dove un tizio, evidentemente di qualche anno più vecchio di me, spiegava: "Negli anni 70 si usavano i pantaloni a zampa d'elefante” - e questo lo sanno anche i sassi – “ma anche dei braccialetti con dei peli d'elefante". Drammaticamente semplice come spiegazione, no? Fabrizio non fa altro che gettare nella spazzatura (anche se dice eufemisticamente “li ho dati a un passante”), un accendino e un braccialetto, triste ricordo di una persona che desidera dimenticare. Il “fermavano il sangue” non avrebbe quindi nulla a che fare con la tossicodipendenza, il laccio emostatico ventilato da quel tizio di prima: semplicemente sono oggetti che stringono, che legano Fabrizio al passato.
Poi il resto viene sempre da sé [25]
i tuoi "Aiuto" saranno ancora salvati [26]
io mi dico è stato meglio lasciarci [27]
che non esserci mai incontrati. [28]
Quando una storia d’amore finisce non c’è bisogno di fare nulla né di pensare a nulla. Tutto il resto viene semplicemente da sé, come Fabrizio dice a Roberta in questi ultimi versi. Il tempo rimarginerà le ferite e un giorno, forse nemmeno troppo lontano, qualcun altro entrerà nella tua vita, accorrendo al tuo richiami (ai tuoi “Aiuto”), ed è quasi inevitabile che ciò accada, perché l’amore, non neghiamolo, è nella natura umana.
Quei due versi conclusivi sono di una tristezza infinita. “È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati” canta De André, rivelandoci una verità che quasi ci sorprende: lui la ama ancora. Non c’è alcun dubbio. La ama la punto che è disposto a lasciarla andare via. Un amore che, ancora per molto tempo, gli farà sanguinare il cuore, visto che questa canzone, lo ricordo, è stata scritta due anni dopo. Nei suoi concerti Fabrizio De André usava introdurre “Giugno ‘73” con queste parole: “È una piccola storia di un grande amore, di un amore felicissimo che finché è durato è stato meraviglioso. Quando poi si è incrinato ed è diventato, come diceva Flaubert, soprattutto una comunione di cattivi umori il giorno e di cattivi odori la notte, si è altrettanto felicemente concluso. Quindi un amore felice in tutti i sensi.”
Attirata da Faber come api e miele. De Andrè per me è così tante cose, tutte insieme, meravigliose e orribili; immagini passate, di un passato che mi ingombra più di quanto si possa immaginare, ed immagini future, di un futuro che ancora non è giunto e già inizia a sanguinare.
RispondiEliminaGrazie per averne parlato. E perdona il mio commento fin troppo personale, non potevo farne a meno.
E' difficile per sfociare nel personale quando si parla di Faber. Anzi, sono io che ti ringrazio per aver condiviso una piccola parte di te.
EliminaIl mio commento che fine ha fatto? Maledetta connessione altalenante...
RispondiEliminaCi riprovo!
Io adoro De Andrè (due anni fa ho visto un musical su "La buona novella") ma questa canzone la conoscevo. Complimenti per la bellissima analisi.
Ho di recente organizzato una manifestazione anni '70 basata sulla musica e sulla moda del tempo, quindi l'argomento mi è interessato particolarmente.
P.S. Grazie per aver partecipato all'iniziativa "Una parola al mese".
Un musical sulla buona novella? Sembra interessante... Grazie a te per essere passata!
EliminaSì, hanno fatto uno spettacolo nel mio paese, ma la compagnia mi pare fosse di Roma...
EliminaUna volta un prof. di italiano ci ha dato una sua poesia da analizzare (confrontandola con gli autori dello stilnovismo). Fu una strana esperienza, che mi piacque molto. Poi De André è un cantautore che amo molto, quindi ci tenevo a fare un buon lavoro!
RispondiEliminaSui due peli d'elefante, posso confermarti la teoria dei bracciali: io stessa ho un anello fatto con peli d'elefante, che portava mia mamma :)
Ti invidio tantissimo. Magari avessi avuto io un insegnante di italiano così in gamba. Grazie per la testimonianza sui peli d'elefante. Ho cercato in giro sul web qualcuno che mi confermasse l'esistenza di tale "accessorio" ma pare che se lo siano dimenticati tutti.
EliminaBel post, interessanti ricostruzioni!
RispondiEliminaUna cosa che non ho trovato (e che vorrei aggiungere) è che io ho sempre interpretato il "I miei amici ti hanno dato la mano" come "I miei amici [quindi persone concrete, non le ho mai intesi come le abitudini di De André, seppure è un'interpretazione affascinante] ti hanno sempre teso la mano in segno di amicizia, sono stati disposti a farti entrare nel loro mondo, non ti hanno esclusa" (come probabilmente sarà successo a Faber nell'ambiente di Roberta).
Quindi questa stretta di mano del verso 18 tu la intendi come un gesto di commiato mentre io l'ho sempre vista - in un'interpretazione sicuramente più banale ma tant'è - come un segno di apertura. E questo aprirsi, cercare il dialogo senza badare a differenze di ceto e condizione sociale è la strada che secondo De André "porta un po' più lontano"; per questo decide di seguirla, assieme ai suoi "amici" - ma a questo punto sarebbe più corretto dire: assieme ai suoi simili, a chi lui sente "vicino" nel modo di essere.
ciao :-)
[è un mondo difficile]
Un'interpretazione interessante e tutt'altro che banale. Io l'avevo vista come un commiato a causa dell'articolo che Fabrizio ha usato ("la" mano, anziché "una" mano) e anche perché mi sembrava legasse di più con la riga successiva, nella quale il nostro sembra riunirsi alle sue origini (quella delle amicizie precedenti) e con loro allontanarsi, in un simbolico viaggio che porta lontano.
EliminaGrazie per il prezioso contributo!
Grazie a te, ciao! :-)
Elimina[è un mondo difficile]
Sono giorni che la ascolto spesso, più del solito, ed oggi avevo voglia di leggere qualcosa di più. Lo faccio spesso quando mi soffermo a lungo su un pezzo e a maggior ragione quando a scriverlo è stata una mente eccelsa come quella di Faber e sono inciampata sulla tua bellissima analisi. Ti ringrazio. Lu
RispondiEliminaCiao Luciana e grazie per esserti fermata qui. Capisco benissimo l'effetto che può fare Faber e di come ci si possa incagliare ad ascoltare e riascoltare un singolo pezzo di continuo. Fabrizio sapeva toccare il cuore come pochi altri hanno saputo fare e "Giugno 73" è un perfetto esempio di come ci si possa perdere nelle sue parole.
EliminaGià..possiedo la sua discografia, ma nonostante gli anni passino e gli ascolti aumentino, mi rendo conto che ogni singolo pezzo contiene così tante cose da aprire un mondo di significati e significanti ogni volta che ci si sofferma.
RispondiEliminaLa sua musica è un parte della nostra storia personale. Anni che passano e ascolti che aumentano non fanno altro che sottolineare questa cosa.
EliminaHo letto molto su De Andre' , lo ascolto da quando avevo 12 anni, ora ne ho 48. Abitando in Sardegna, mi sono recato spesso in Gallura all'Agnata. Ho seguito i suoi concerti. L'ho incontrato in una pizzeria di amici e lui ha ordinato una pizza alla foglia di vite , ho ricevuto il suo saluto , cordiale, da persona semplice nei confronti di un illustre sconosciuto. Mi ha fatto piacere leggere il tuo post. Una riflessione ricca di riferimenti , uno spunto gradevole , adatto a colmare personali riflessioni approssimative , ora arricchite di intuizioni nuove , su tematiche fatte proprie e impropriamente "immaginate " grazie davvero .
RispondiEliminaUn ricordo molto bello quello che hai voluto condividere qui sul blog. Fabrizio era sicuramente una persona speciale e tu ce lo stai confermando. Grazie.
EliminaGrazie mille per l'analisi, dopo credo qualcosa come sei anni ho riascoltato oggi questa canzone e mi era venuta voglia di leggere qualche commento. E' stato bello leggere i tuoi pensieri, ma soprattutto la parte circa l'identificazione dell'eroina. Non mi è mai piaciuta, più che altro perchè mi pare fuori contesto da una canzone che è molto criptica nei dettagli ma ha una visione d'insieme altresì facilmente recepibile.
RispondiEliminaQuell'ipotesi sulla tossicodipendenza suona effettivamente stonata. Sono contento che ci sia qualcuno che la pensi come me.
EliminaConcordo, l'ipotesi della tossicodipendenza la vedo davvero fantasiosa. Perché elucubrare? Il Mimosa è un cocktail, fatto con prosecco e succo d'arancia. Un tipico cocktail da donne, che immagino potesse piacere alla "piccola femmina agghindata" Roberta ma certamente non a un bevitore incallito come De André..
EliminaNon è da escludere l'identificazione della mimosa con l'omonimo cocktail... tuttavia ciò non spiegherebbe il cucchiaio e l'imbuto del polsino. Preferisco, nel dubbio, l'ipotesi simbologica del fiore.
EliminaQuesta canzione è pura lírica. Grazie per l'analisi.
RispondiEliminaGrazie a te per essere passato a leggere...
EliminaIo mi dico è stato meglio lasciarci,
RispondiEliminache non esserci mai incontrati.
Deve passare ancora tanto tempo prima di poter vivere così.
Buen Camino.
Io credo che nOn arriverà mai quel tempo...
EliminaMa invece io istintivamente non so perché ho pensato alla mimosa come un'essenza. Lei vede gli amici di lui come appunto di ceto basso,quasi degli "appestati", Fabrizio ci dice che lei si mette del profumo sul polso e subito dopo ci spiega perché: i suoi amici le hanno stretto la mano. Come se lei si fosse schifata di ciò.
RispondiEliminaPotrebbe essere un ipotesi altrettanto valida. Io vedo comunque la scelta della mimosa fatta per richiamare principalmente il suo colore.
EliminaBellissima analisi di questa canzone (che ammetto: non è nella mia top dei brani di De Andrè).
RispondiElimina"Sono loro stasera i migliori che abbiamo" è però una della frasi cult. Di una potenza espressiva straordinaria.
Ci possono stare entrambe le interpretazioni sugli amici, perché no? In fondo i testi di De André hanno sempre avuto più piani di lettura.
Sono d'accordo con te che invece l'interpretazione sull'eroina sia abbastanza fantasiosa...
I peli di elefante ricordo bene che fu mia madre a spiegarmi il significato.
Mi faceva sorridere l'idea di De André che aveva messo per forza il braccialetto perché era un regalo della fidanzata e, una volta lasciata, lo buttava via perché brutto (così tanto da far fermare la circolazione del sangue).
A questo punto sarei anche curioso di vedere come diavolo erano fatti quei dannati braccialetti. Dovevano essere davvero orribili!
EliminaBenvenuto sul blog, by the way!
"E adesso ridi e ti versi un cucchiaio di mimosa
RispondiEliminaNell'imbuto di un polsino slacciato. "
Ho letto altrove che dovrebbe essere relativo ad un profumo che utilizzava Roberta, non c'entra la droga
Le ipotesi, come detto, sono infinite. Purtroppo una chiave di lettura definitiva non l'avremo mai.
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