lunedì 26 febbraio 2024

Rapporto sulla cecità (Pt.3)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Un ribaltamento della prospettiva pare averlo operato anche la letteratura moderna rispetto a quella classica, almeno a giudicare dagli esempi proposti qui sopra, anche se non ne so a sufficienza per poterlo dire con certezza; a ben vedere, comunque, a grandi linee parlano di cecità anche quei racconti distopici, come “1984” (“Nineteen Eighty-Four”, 1949) di George Orwell, che utilizzano il concetto dell’occhio invisibile per parlare della sorveglianza di massa, della repressione e della propaganda nei regimi totalitari, assurto poi a metafora di quanto esprime il potere nella società contemporanea, perché deputare una vista illimitata a un “Grande Fratello”, cioè all'élite come ingannevole surrogato della collettività, significa in fondo sottrarla al singolo, condannandolo a qualcosa di molto simile alla cecità. 
Del resto, Orwell prese ispirazione dal Panopticon, il carcere circolare ideato alla fine del ‘700 da Jeremy Bentham, e il nome Panopticon, letteralmente “l'occhio che tutto vede”, deve il suo nome ad Argo Panoptes (Ἄργος Πανόπτης”), una creatura della mitologia greca che aveva molti occhi sparsi sul corpo (secondo Ovidio, addirittura cento), grazie ai quali non doveva mai dormire... 

lunedì 19 febbraio 2024

Nebraska

Lo ammetto, ho approcciato questo film per un motivo decisamente infantile: il titolo. Un titolo che associo, per mia forma mentis, all’omonimo album di Bruce Springsteen, sottovalutato capolavoro folk registrato con il solo l’ausilio di armonica e chitarra acustica, e fondamentale, all’interno della sua discografia, per il suo fare da spartiacque tra il “working class hero” che era lo Springsteen delle origini e il rocker mainstream in cui egli si trasformò negli anni successivi. 
Anche la promessa del bianco e nero, con il quale è stato girato questo film, ha un collegamento con l’album, quell’emozionante bianco e nero che il boss scelse per copertina del disco come ideale sfondo per storie cupe, di dolore, morte e solitudine viste attraverso la lente delle piccole città rurali del Midwest americano. Ecco, si tratta di uno dei rari casi in cui si può dire, senza timore di essere smentiti, che un libro (un album, in questo caso, e, per estensione, un film) si può giudicare dalla sua copertina: storie che ci portano nelle grandi pianure, verso una terra promessa che è sì lontana, ma non pare così irraggiungibile. Sono storie di persone che hanno perso tutto, anche la propria anima, persone tradite dalla natura illusoria del "sogno americano”, con qua e là lampi di speranza che brillano come squarci tra le nuvole, per poi troppo spesso finire inghiottite da una pioggia battente. 

lunedì 12 febbraio 2024

Rapporto sulla cecità (Pt.2)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI 

Il paese dei ciechi” o “Nel paese dei ciechi” (“The country of the blind”) è un racconto che H. G. Wells pubblicò nel 1904. Il protagonista è Nuñez, che si ritrova catapultato, a seguito di un incidente di montagna, in una vallata isolata dal mondo, abitata da persone che a causa di un morbo sconosciuto hanno perso la vista da molte generazioni e che lì conducono una vita semplice, estranee dal resto dell’umanità e dal suo progresso. Siamo nelle Ande ecuadoregne, e l’arrivo di Nuñez riecheggia quello dei Conquistadores spagnoli che quattro secoli addietro erano approdati nel paese e avevano soggiogato gli Inca. Come gli Inca raffrontati agli spagnoli, anche gli abitanti del “paese dei ciechi” sono arretrati e illetterati se paragonati al loro visitatore, ma questi, che all’inizio si culla ripetendosi il mantra “Tra i ciechi l’orbo di un occhio è re”, si renderà ben presto conto che la mancanza della vista ha affinato i sensi dei ciechi e che nel mondo che hanno creato per sé lui non suscita alcun rispetto o timore per la sua condizione di vedente. I ciechi, anzi, hanno cancellato perfino il ricordo della vista e di ogni cosa attinente a questo senso, al punto da non riuscire neppure a comprendere le descrizioni di Nuñez dei monti, del cielo, o della città, e da considerarlo un pazzo o un ritardato, destinato al più a lavori di fatica.

lunedì 5 febbraio 2024

The Locker (Shibuya Kaidan)

Quando, un paio d’anni fa, vergai una specie di recensione per un improbabile B-movie intitolato “Non aprite quell’armadio”, conclusi dicendo, tra il serio e il faceto, che non mi sarebbe dispiaciuto un giorno scrivere uno speciale sugli armadi “maledetti” nel cinema (e se non proprio maledetti, perlomeno con uno sconfinamento nel fantastico). Ciò di cui parleremo oggi potrebbe a buon titolo rientrare in quello speciale, visto che parliamo di armadietti, gli stessi che usiamo nelle scuole e nelle palestre e che talvolta troviamo, per riporvi oggetti metallici, all’ingresso delle banche. 
In Giappone sono evidentemente molto più diffusi che dalle nostre parti ed ecco quindi la necessità di realizzare una trama orrorifica incentrata proprio su quegli sgraziati contenitori metallici. Se fossero stati distribuiti sul mercato italico, quei film (parleremo oggi anche del sequel) si sarebbero ritrovati appiccicati addosso titoli assurdi come “Non aprite quell’armadietto” o “L’armadietto che uccide”, ma per fortuna la cosa non è accaduta e oggi possiamo goderci, seppure con le difficoltà della lingua, titoli più incisivi come “The Locker” o evocativi come l’originale “Shibuya Kaidan”. Si tratta di due film di durata contenuta (entrambi 71 minuti) lanciati sul mercato contemporaneamente il 7 febbraio 2004 e proiettati nelle sale con la formula “double-bill” (due film al prezzo di uno). 
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