Non avevo mai ben capito cosa volesse significare il termine “kafkiano” che spesso sentivo usare dai miei conoscenti riferendosi a situazioni bizzarre. Una vaga idea più o meno l’avevo, avendo letto alcune opere dell’autore in questione, ma sull’utilizzo dell’aggettivo mantenevo ancora qualche riserva.
Oggi credo di averne un’idea un po’ più chiara a causa della storia che andrò tra poco a raccontarvi. Consideratela come volete: una storia vera, un sogno ad occhi aperti o magari proprio un sogno, ma di quelli che si fanno a occhi chiusi. Vera o falsa, che importa? In fondo è solo una storia.
Tutto iniziò una mattina di novembre. Avevo finalmente deciso di mollare il lavoro, quello che da anni ormai mi imprigionava a una scrivania e mi costringeva a fissare per ore il monitor di un computer. Non faceva più per me quella vita. Avevo voglia di cominciare daccapo, di assaporare nuovamente quelle emozioni che solo una novità è in grado di offrire. Avrei rinunciato a molte cose, ne ero consapevole, ma nulla alla fine poté trattenermi dal prendere la mia drastica decisione. Fui fortunato a trovare quasi immediatamente una nuova occupazione. Non sapevo nulla del nuovo lavoro. Nessuno mi aveva detto cosa avrei dovuto fare, né tantomeno lo avevo chiesto al mio interlocutore nel corso del colloquio telefonico. Avrei dovuto cominciare il lunedì mattina successivo, per cui avevo ancora un weekend di assoluta libertà in cui crogiolarmi. Decisi comunque di fare un sopralluogo all’indirizzo che mi era stato dato.
Non so bene perché lo feci, ma ricordo che quando ero un ragazzo alla ricerca della prima occupazione ero solito recarmi, la vigilia di ogni colloquio, a gironzolare nelle strade circostanti l’edificio dei miei appuntamenti. Mi piaceva, e mi dava un senso di onnipotenza. Immaginavo il mio futuro semplicemente camminando per strade dove questo avrebbe effettivamente potuto realizzarsi. Quel giorno il mio sopralluogo lo feci forse per motivi un po’ più pratici: capire dove parcheggiare, per esempio.
Giunsi sul posto la mattina del sabato, sul presto. Avrei forse potuto scegliere un giorno feriale, se non altro per poter calcolare i tempi di percorrenza nel traffico, ma preferii optare per un giorno più tranquillo, forse l’ultimo da lì in avanti e per un bel po’ di tempo. L’indirizzo corrispondeva a una larga piazza nella periferia della città. Non c’ero mai stato prima e non me ne sorprendevo, visto l’aspetto degradato del quartiere. Il suolo non era asfaltato e più che una piazza sembrava un vasto campo abbandonato, circondato da edifici piuttosto fatiscenti. Parcheggiai in un angolo e scesi dalla macchina, augurandomi che il numero civico che mi interessava non fosse ubicato nell’angolo opposto. Ovviamente non fui fortunato, ma in quel modo potei dare un’occhiata agli esercizi commerciali affacciati sulla piazza. Una lavanderia a gettoni, un ortolano, un’edicola, un piccolo supermercato e un bar dove, già lo immaginavo, avrei potuto recarmi in pausa pranzo con i miei nuovi colleghi.
Il numero civico che mi era stato comunicato corrispondeva a un enorme capannone che occupava da solo uno dei due lati corti della piazza. Non c’era nulla che potesse aiutarmi a capire qualcosa di più circa l’attività che sarebbe presto diventata la mia quotidiana routine ma, almeno per il momento, diciamo che la cosa non mi interessava troppo. Nell’attimo in cui il mio piede si infilò in una melmosa pozzanghera, larga quanto lo Stige, trattenni a stento un’imprecazione e decisi che era il momento di rientrare.
Feci il mio ingresso trionfale, se così si può dire, il lunedì mattina alle otto in punto. Il capannone era enorme, un’interminabile distesa di scaffali alti fino al soffitto, i cui ultimi ripiani a malapena si riuscivano a distinguere. Dappertutto erano sparse risme di carta, vecchi giornali, documenti, raccoglitori pieni fino all’orlo di chissà che cosa. Sugli scaffali altri raccoglitori, con i dorsini dipinti delle tonalità più spente del blu, del rosso e del verde.
Doveva essere una specie di archivio comunale, uno di quei posti dove vengono accumulate le cose inutili. C’era un sacco di gente che camminava avanti e indietro con l’aria piuttosto assente. Nessuno di loro pareva avermi notato. Meglio così. Anzi, meglio mica tanto, perché non potevo mica rimanere lì così come un baccalà tutto il giorno! Mi avvicinai allo scaffale più vicino, ai piedi del quale alcune persone stavano trafficando. – Ciao, sono Charon – mi sorprese una voce alle mie spalle – Tu sei quello nuovo, no? Ricordai tutto ad un tratto che era proprio di un certo Charon che avrei dovuto chiedere una volta arrivato. Me ne ero ovviamente dimenticato, ma per fortuna quella mia distrazione fu ininfluente. – Ciao, piacere – risposi tendendo la mano, e trattenendo a stento una battuta idiota su Charon Stone.
Oggi credo di averne un’idea un po’ più chiara a causa della storia che andrò tra poco a raccontarvi. Consideratela come volete: una storia vera, un sogno ad occhi aperti o magari proprio un sogno, ma di quelli che si fanno a occhi chiusi. Vera o falsa, che importa? In fondo è solo una storia.
Tutto iniziò una mattina di novembre. Avevo finalmente deciso di mollare il lavoro, quello che da anni ormai mi imprigionava a una scrivania e mi costringeva a fissare per ore il monitor di un computer. Non faceva più per me quella vita. Avevo voglia di cominciare daccapo, di assaporare nuovamente quelle emozioni che solo una novità è in grado di offrire. Avrei rinunciato a molte cose, ne ero consapevole, ma nulla alla fine poté trattenermi dal prendere la mia drastica decisione. Fui fortunato a trovare quasi immediatamente una nuova occupazione. Non sapevo nulla del nuovo lavoro. Nessuno mi aveva detto cosa avrei dovuto fare, né tantomeno lo avevo chiesto al mio interlocutore nel corso del colloquio telefonico. Avrei dovuto cominciare il lunedì mattina successivo, per cui avevo ancora un weekend di assoluta libertà in cui crogiolarmi. Decisi comunque di fare un sopralluogo all’indirizzo che mi era stato dato.
Non so bene perché lo feci, ma ricordo che quando ero un ragazzo alla ricerca della prima occupazione ero solito recarmi, la vigilia di ogni colloquio, a gironzolare nelle strade circostanti l’edificio dei miei appuntamenti. Mi piaceva, e mi dava un senso di onnipotenza. Immaginavo il mio futuro semplicemente camminando per strade dove questo avrebbe effettivamente potuto realizzarsi. Quel giorno il mio sopralluogo lo feci forse per motivi un po’ più pratici: capire dove parcheggiare, per esempio.
Giunsi sul posto la mattina del sabato, sul presto. Avrei forse potuto scegliere un giorno feriale, se non altro per poter calcolare i tempi di percorrenza nel traffico, ma preferii optare per un giorno più tranquillo, forse l’ultimo da lì in avanti e per un bel po’ di tempo. L’indirizzo corrispondeva a una larga piazza nella periferia della città. Non c’ero mai stato prima e non me ne sorprendevo, visto l’aspetto degradato del quartiere. Il suolo non era asfaltato e più che una piazza sembrava un vasto campo abbandonato, circondato da edifici piuttosto fatiscenti. Parcheggiai in un angolo e scesi dalla macchina, augurandomi che il numero civico che mi interessava non fosse ubicato nell’angolo opposto. Ovviamente non fui fortunato, ma in quel modo potei dare un’occhiata agli esercizi commerciali affacciati sulla piazza. Una lavanderia a gettoni, un ortolano, un’edicola, un piccolo supermercato e un bar dove, già lo immaginavo, avrei potuto recarmi in pausa pranzo con i miei nuovi colleghi.
Il numero civico che mi era stato comunicato corrispondeva a un enorme capannone che occupava da solo uno dei due lati corti della piazza. Non c’era nulla che potesse aiutarmi a capire qualcosa di più circa l’attività che sarebbe presto diventata la mia quotidiana routine ma, almeno per il momento, diciamo che la cosa non mi interessava troppo. Nell’attimo in cui il mio piede si infilò in una melmosa pozzanghera, larga quanto lo Stige, trattenni a stento un’imprecazione e decisi che era il momento di rientrare.
Feci il mio ingresso trionfale, se così si può dire, il lunedì mattina alle otto in punto. Il capannone era enorme, un’interminabile distesa di scaffali alti fino al soffitto, i cui ultimi ripiani a malapena si riuscivano a distinguere. Dappertutto erano sparse risme di carta, vecchi giornali, documenti, raccoglitori pieni fino all’orlo di chissà che cosa. Sugli scaffali altri raccoglitori, con i dorsini dipinti delle tonalità più spente del blu, del rosso e del verde.
Doveva essere una specie di archivio comunale, uno di quei posti dove vengono accumulate le cose inutili. C’era un sacco di gente che camminava avanti e indietro con l’aria piuttosto assente. Nessuno di loro pareva avermi notato. Meglio così. Anzi, meglio mica tanto, perché non potevo mica rimanere lì così come un baccalà tutto il giorno! Mi avvicinai allo scaffale più vicino, ai piedi del quale alcune persone stavano trafficando. – Ciao, sono Charon – mi sorprese una voce alle mie spalle – Tu sei quello nuovo, no? Ricordai tutto ad un tratto che era proprio di un certo Charon che avrei dovuto chiedere una volta arrivato. Me ne ero ovviamente dimenticato, ma per fortuna quella mia distrazione fu ininfluente. – Ciao, piacere – risposi tendendo la mano, e trattenendo a stento una battuta idiota su Charon Stone.
CONTINUA
Immagine dal film "Il processo" (Le Procès, 1962), di Orson Welles, dal romanzo omonimo di Franz Kafka. |
Ovviamente attendo di sapere cosa succederà...
RispondiEliminaNon ci sarà da aspettare molto. Ho già programmato le parti successive affinché escano a raffica nei prossimi giorni.
EliminaBello... sarebbe un ottimo inizio per un romanzo inquietante.
RispondiEliminaNon ho mai pensato seriamente ad un romanzo, anche se nel caso di questo breve racconto ammetto che ci sarebbe spazio per una sua trasformazione. Che possa poi venire inquietante è un altro paio di maniche.
EliminaOh, finalmente il sogno vivido prende la sua forma narrativa! E adesso non farci aspettare troppo per le puntate successive, eh!
RispondiEliminaIl sogno vivido è passato sotto un'infinità di revisioni ma alla fine una sua forma l'ha trovata. Non sono ancora convinto di certi passaggi ma pazienza... è solo un gioco.
EliminaAttendo kafkianamente il seguito....anche perché Charon a parte finora assomiglia dannatamente ad un colloquio di lavoro che ho realmente sostenuto una volta in passato....
RispondiEliminaColloqui di lavoro surreali credo ne abbiamo fatti un po' tutti, specialmente da giovani. A volte mi chiedo se in quei casi stessi solo sognando o se mi stavano accadendo veramente.
EliminaUhh, curiosità a mille.
RispondiEliminaSecondo me è un archivio di qualcosa di infernale :)
Moz-
Vedo che hai colto un paio di indizi seminati nel testo. Occhio che potrebbero però essere falsi indizi... eheheh
EliminaLe avventure kafkiane mi intrigano un sacco, è proprio l'aggettivo kafkiano che mi attrae. Leggerò con molta curiosità. :)
RispondiEliminaSpero solo di aver centrato l'obiettivo!
EliminaNooooo, come "Continua"??? Prima stuzzichi e poi ti fermi? Sei crudele :-P
RispondiEliminaBeh.. nel titolo c'è scritto "Parte 1"... un po' dovevi aspettartelo.
EliminaQuesta volta un racconto vero e proprio, non più un viaggio tra i racconti...
RispondiEliminaUna volta tanto...
EliminaConcordo sul fatto che l'idea potrebbe essere sviluppata in un racconto lungo o romanzo... e procedo!
RispondiEliminaLa storia che avevo in mente avrebbe forse perso di efficacia in un romanzo, ma sviluppandola in un altro modo... chissà.
Elimina