venerdì 19 aprile 2024

Fuori speciale: tutto è iniziato tanto tempo fa con la guerra del fuoco

“Fuori speciale” è una serie di articoli che vengono scritti di getto nel periodo di pubblicazione dello speciale “La grande abbuffata”. Pur non essendone parte integrante, ciò che viene qui trattato ruota intorno all’argomento principale senza spezzarne il filo logico. Si tratta, in estrema sintesi, di piccoli approfondimenti che non hanno trovato posto nella struttura principale. “Fuori speciale”, in uscita tutti i venerdì, non è una lettura necessaria alla comprensione degli articoli de “La grande abbuffata” (che uscirà invece il lunedì), è viceversa una lettura che può essere ignorata o rimandata, a vostro piacimento. 

***

Il pezzo di oggi è da considerarsi una piccola digressione su quanto scritto en passant nell’articolo pubblicato lunedì scorso. Accennando al lavoro dell’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, scrissi che l’atto di cuocere il cibo, di provenienza animale o vegetale che fosse, aveva affrancato l’uomo dalla natura e che la cottura aveva creato il solco tra la società primitiva a quella moderna
Occorre però sottolineare che l’uomo moderno è andato ben oltre il semplice affrancamento dalle rigide leggi della natura: oggi è in grado di poter disporre a piacimento sia del cibo necessario al suo sostentamento sia di quello in grado di soddisfare un piacere decisamente effimero come quello della gola. Tutto ciò grazie a un sistema che di naturale ha evidentemente ben poco. 
Nel corso dei millenni l’uomo ha compreso come selezionare le sementi e le specie animali destinate all’allevamento, ha imparato a sfruttare il territorio per l’agricoltura e a irrigarlo artificialmente, ha imparato a conservare gli alimenti (rendendoli adatti a un consumo fuori stagione) e ha scoperto il modo di procurarseli col commercio, attingendo da territori ben al di fuori della sua portata. Se di tutto ciò noi amiamo ricordare l’aspetto positivo (come sarebbe oggi la tanto magnificata cucina italiana senza alimenti chiave come patate e pomodori?), non va sottovalutato l’aspetto negativo, ovvero quello di un continuo e inarrestabile peggioramento della qualità dei nostri piatti, esposti alla logica degli allevamenti intensivi a base di antibiotici e affogati in conservanti resi legali da un’etichettatura che li definisce sani sulla base di parametri spesso discutibili. 
È chiaro che qualcosa a un certo punto della storia ci è sfuggito di mano. Nonostante la deriva a cui stiamo oggi assistendo, che in certi termini potremmo definire “glorificazione del cibo”, è fuori questione che Claude Lévi-Strauss abbia simbolicamente (e, per molti, ragionevolmente) individuato la nascita della civiltà nell’attimo esatto della scoperta del fuoco, e quindi della cottura. 

Tutto ciò mi riporta alla mente un vecchio film che vidi negli anni della mia adolescenza. Sono quasi certo fosse il 1982 o al massimo l’anno successivo. Erano i primi anni delle superiori e una volta al mese, o suppergiù, l’insegnante di italiano dell’epoca ci radunava tutti nell’auditorium della scuola per costringerci alla visione di film che avremmo in seguito dovuto commentare in classe. In quella rassegna ricordo mattoni assurdi come “Missing” di Costa-Gravas, sul fenomeno dei desaparecidos sotto il regime di Pinochet, o “Reds” di Warren Beatty, sulla Rivoluzione d’ottobre (film da me in seguito parzialmente rivalutati). Tra quei numerosi tentativi di instillare in noi attraverso il cinema un minimo di coscienza geopolitica, ricordo invece un titolo che si discostava nettamente dalla norma: “La guerra del fuoco” (La Guerre du feu, 1981) diretto da Jean-Jacques Annaud, regista francese che in seguito (io ancora non lo sapevo, ma nemmeno lui) avrebbe firmato opere immortali come “Il nome della rosa” (1986) e “Sette anni in Tibet” (1997). Leggendo rapidamente la scheda del film, prima che si spegnessero le luci, mi sorpresi a pensare “Ehi, ma questa è crudeltà pura!” Cosa avrei potuto aspettarmi da un film, quasi certamente interminabile, i cui unici dialoghi sarebbero stati dei suoni gutturali? 
Mi ritrovai invece a guardare un film potente e profondamente commovente, incentrato sul trionfo dello spirito umano e sulla lotta per la vita. Queste ovviamente sono parole che uso oggi. Non ricordo esattamente in quali termini commentai in classe il film ai tempi di quella mia prima visione scolastica. È molto probabile che scelsi parole meno sofisticate, anche perché era un’età, quella, in cui gli argomenti di discussione erano principalmente calcio e figa, senza contare che la mia cultura cinematografica era circoscritta a pessimi horror di ispirazione fulciana. 

Come preannunciato da quella scheda ciclostilata, la caratteristica principale del film era stata la mancanza assoluta di dialoghi degni di questo nome: un centinaio di minuti nel corso dei quali creature primitive comunicavano tra loro attraverso suoni per noi privi di qualsiasi significato. Ciononostante, la storia era stata molto facile da seguire e consisteva fondamentalmente nelle avventurose vicende di alcuni membri di una tribù primitiva e pacifica, quasi certamente uomini di Neanderthal che in seguito a un feroce attacco da parte di una tribù ancora più primitiva perdevano il loro prezioso fuoco, essenziale per la sopravvivenza. Incapaci di riaccenderlo, decisero di inviare alcuni membri della piccola comunità alla ricerca del fuoco, recuperandolo dalla natura o sottraendolo ad altre tribù lungo il loro cammino, per poi riportarlo alla loro gente prima che il freddo dell’inverno potesse raggiungerli. 
Il fuoco, in quell’epoca (stiamo parlando di circa 80.000 anni fa), era per l’uomo l’unica chiave per la sopravvivenza: offriva calore, rendeva il cibo commestibile e non ultimo teneva lontani i predatori. Il fuoco era potere e speranza e, se avessero fallito, sarebbe certamente stata la fine per loro e per tutta la tribù. 

Sullo sfondo di un'Europa paleolitica meravigliosamente realistica, i tre avevano affrontato numerose avversità, oltrepassato steppe gelide e ventose, attraversato paludi e scalato montagne, schivato giganteschi mammuth, fatto i conti con le terribili tigri dai denti a sciabola e finiti anche in bocca, metaforicamente parlando, a una tribù di cannibali. “La guerra del fuoco” fu innegabilmente un film capace di descrivere, senza mezzi termini, la brutalità e la violenza della vita all'età della pietra, e lo fece con la totale assenza di CGI (si vede benissimo che il mammuth altro non è che un elefante con del pelo appiccicato addosso): prima di lui, a memoria, soltanto “2001: Odissea nello spazio” (2001: A Space Odyssey) diretto da Stanley Kubrick nel 1968 ci era riuscito senza quel ricorso massiccio alla computer grafica che rende sempre le atmosfere posticce e meno godibili (penso ad esempio a “10.000 AC” (10,000 BC) di Roland Emmerich, del 2008). 
Oggi, quarant’anni più tardi, ho dovuto guardarmi il film di Annaud di nuovo per farne riaffiorare dalla mia memoria i più piccoli particolari, e sorprendentemente ho trovato “La guerra del fuoco” invecchiato benissimo. Salta ancora all’occhio la sua autenticità, costruita attraverso un accurato lavoro di ricerca da parte del regista che, si dice, aveva addirittura trascorso anni a filmare tribù africane per poter meglio rappresentare il suo uomo primitivo. Inoltre, tutte le riprese furono effettuate in esterni nelle aree più remote e inospitali di Canada, Scozia e Kenya, il che significa che tutto il cast dovette sopportare condizioni meteorologiche talmente dure che la sofferenza tutt’altro che simulata degli attori è ancora palpabile. 

Basato sul romanzo omonimo di J.H. Rosny (pseudonimo del lavoro collaborativo di due fratelli), facente parte di una serie di romanzi e racconti di ambientazione preistorica, “La guerra del fuoco” ha il suo apice emotivo quando i tre Neanderthal cominciano a rendersi conto di essere culturalmente e tecnologicamente inferiori a tribù a essi coeve (identificabili nei cosiddetti uomini di Cro-Magnon), già perfettamente in grado di padroneggiare la tecnica per accendere il fuoco. 
Gli storici ritengono che l’uomo di Neanderthal facesse parte di un ramo destinato all’estinzione proprio a causa della mancanza di una tecnica che avrebbe loro consentito un certo livello di controllo sull’ambiente. Non so dire, personalmente, se ciò sia vero o se si tratti di semplici illazioni, ma quel che è certo è che, come risulta in maniera piuttosto evidente alla fine del film, quando la tribù si riunisce felicemente attorno alla brace scoppiettante, i suoi membri prendono a raccontarsi storie attraverso gesti e grugniti. Detto in altri termini, l'evoluzione delle forme linguistiche complesse potrebbe avuto origine proprio in quei momenti di pace, quando il freddo, la fame e i predatori erano lontani e una nuova forma di pensiero poteva prendere piede: in questa visione, opposta a quella che è oggi la credenza comune, è la necessità di comunicare a permettere lo sviluppo e l’evoluzione di un linguaggio comune, e non il contrario. Sembra infine quasi di guardare noi stessi, oggi, indaffarati nelle pratiche conviviali dei nostri dopo cena.



2 commenti:

  1. A scuola mia non ci facevano vedere film, però ricordo che la professoressa di Storia e Italiano ce ne parlò proprio per sottolineare il passaggio dallo stato ancora "selvaggio" a uno stato più "civilizzato" dell'uomo. Ci invitò a vederlo se ne avessimo avuto l'occasione, ma ammetto che io ignorai l'invito (anche tutti gli altri studenti, eh!)

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    1. Al di là che certe cose da noi erano quasi d'obbligo, non mi ritengo sfortunato. Avevamo un bell'auditorium che poteva contenere tutti gli studenti delle quattro scuole del complesso scolastico (elettronici, ragionieri e un paio di licei) e, oltre alla varie assemblee, ci stavano benissimo queste proiezioni che talvolta erano anche stimolanti. Se non altro, perché ti consentivano di uscire dalla solita routine.

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