lunedì 10 giugno 2024

La Grande Abbuffata: il lato oscuro della ristorazione (Pt.1)

I tempi moderni sembrano aver trasformato la passione per la buona tavola in mania, rendendo il cucinare un affare pubblico, come quasi ogni altra cosa, da svolgersi davanti a una platea di commensali o di spettatori paganti, includendo nella disamina programmi di cucina come quelli di Food Network, “I menù di Benedetta” o “La Prova del Cuoco”, sfide tv come “4 ristoranti” e talent show in stile “Hell’s Kitchen Italia” e “MasterChef”. Non essendo un appassionato di cucina, ed essendo anzi bravo a cuocere più che a cucinare, non comprendo l’attrattiva di questo tipo di programmi, a parte l’essere una vetrina per i partecipanti o i conduttori. De gustibus! 
So però che i reality show, come il menzionato “Hell’s Kitchen Italia”, sono fondati sulla cultura tossica dell’insulto, lo sprone più utilizzato dagli chef: il desiderio di emergere, lo stress di dover superare delle prove, la paura del giudizio (in certi casi anche del pubblico in studio o al televoto) e delle eventuali penalità o punizioni sottopongono i concorrenti a una fortissima pressione psicologica. So anche che da sempre cinema e tv sono lo specchio della società, quando non ne anticipano i moti, per cui non è sorprendente che anche i film e le serie tv ambientate nel mondo della ristorazione siano cresciuti in modo esponenziale, come non è casuale che uno di quelli che più spinge l’acceleratore nel mostrarne il lato oscuro, l’horror “The Menu” (Mark Mylod, 2022), sia ambientato in un locale in cui la cucina è aperta, e quindi i clienti possono non solo assistere in diretta alla preparazione dei piatti, ma perfino averne una dettagliata presentazione dallo stesso chef, Julian Slowik. 
La ristorazione è di certo un mondo affascinante, dove i professionisti si fanno strada mettendo in campo preparazione, talento e anche molta fatica. Proprio l’estrema competitività di questa realtà porta a doversi adeguare a ritmi forsennati, e a portare avanti una ricerca culinaria che crea piatti sempre più originali e innovativi; piatti talvolta più da ammirare che da gustare, per la verità, sempre più forma e meno sostanza, e sempre meno popolari nel senso più vero del termine, cioè lontani dai gusti della gente comune e destinati, quindi, a una minoranza di gourmet o presunti tali. Una tendenza della cucina in qualche modo elitaria, che rimarca (casomai ce ne fosse bisogno) l’abisso tra la parola ristorante e la decina di sinonimi di questo termine (ma probabilmente erro per difetto) presenti nella lingua italiana. 

In “The Menu” lo chef è specializzato in gastronomia molecolare, propone le portate in porzioni minuscole, di grande effetto, e (come il suo staff) è alla continua ricerca della perfezione. Slowik è infastidito dalle critiche dell’esperta Lillian Bloom, è stato offeso o deluso da diverse altre persone e medita, per contrappasso, una memorabile vendetta di sapore biblico, con tanto di fuoco purificatore. Durante la speciale serata organizzata nel suo ristorante esclusivo anche la psiche dello chef viene messa a nudo: l’uomo sembra genuinamente felice solo alla fine, nel preparare una pietanza semplice come un hamburger. 
Per qualcuno che ha elevato il suo lavoro ad arte, perdere la passione per la cucina rappresenta un punto di non ritorno, ma è anche una via d’uscita per Margot, una ragazza che si trova lì per caso pur non apprezzando affatto il tipo di cucina proposto durante la serata. D’altra parte, il suo arrivo al posto di un’altra ospite è una crepa nella perfetta macchina congegnata dallo chef e una sfida alla sua mania del controllo, e la sua uscita di scena consente a Slowik di tornare al progetto originale, la cena perfetta la cui riuscita, come avremo modo di vedere, dipende dalla collaborazione diretta dei commensali. 

Lo chef e il personale di “The Menu” versano, letteralmente, lacrime e sangue; tuttavia, motivo scatenante delle vicende del film non è la fatica e non sono neppure le condizioni di lavoro, ma piuttosto la sensazione di Slowik di non essere apprezzato e lodato come meriterebbe: la sua reazione è iperbolica, tutta la storia è evidentemente improbabile e non emerge una vera critica strutturale all’ambiente della ristorazione. 

Se vogliamo trovare un po’ di realismo, limitatamente a quanto ce ne può essere in un’opera di fantasia, dobbiamo uscire dai confini dell’horror e rivolgerci a film o serie tv che mostrano una quotidianità terribile e logorante, come per esempio il thailandese “Hunger” (Sitisiri Mongkolsiri), prodotto da Netflix nel 2023, su un ristorante di alta cucina gestito da Paul, un capo chef dal carattere dispotico. Nel team di lavoro vengono a galla la competizione spietata e la mancanza di etica, e la riflessione sul lato oscuro del patinato mondo dell’alta ristorazione fa sì che questo cominci man mano a perdere il suo fascino (mentre il tema del il cibo elevato a metro del divario sociale resta più sullo sfondo). 

La serie televisiva americana “The Bear”, giunta alla sua seconda stagione, insiste soprattutto sui ritmi di lavoro forsennati e sulle ripercussioni sulla salute, anche mentale, del personale. Se pensate che il ritratto del mondo della ristorazione offerto dalla tv e dai film sia in qualche modo amplificato ed esagerato, vi consiglio di dare un’occhiata all’intervista allo chef stellato Simon Rogan che la CCN ha pubblicato il 22 agosto 2023. Lo chef ricorda quello che, più che un apprendistato, fu un’iniziazione alla cucina, un ambiente ultra competitivo dove “cane mangia cane”. 
Nell’articolo si evidenzia come negli ultimi anni l’industria della ristorazione abbia dovuto affrontare uno tsunami di denunce che mettevano in luce presunti abusi e storie di sfruttamento nelle cucine di tutto il mondo, ma sottolinea che anche negli ambienti più sani le lunghe ore di lavoro in un ristorante sono estenuanti ed è difficilissimo per lo staff trovare un equilibrio tra lavoro e vita privata. 
Per sottrarsi a questo meccanismo deleterio, rendendosi conto che nel tempo aveva perso molte delle persone su cui faceva più affidamento, Rogan dovette prendere delle contromisure: una settimana lavorativa di tre giorni e mezzo o quattro, riposo regolare, cameratismo tra i dipendenti, team building. In un settore interamente incentrato sugli esseri umani, il segreto del successo è mantenere i dipendenti “freschi, motivati e determinati”. 
Sembra che oggi altri ristoratori siano seguendo il suo esempio, ma si tratta di realtà importanti: purtroppo, non tutte le realtà del settore, soprattutto le più piccole e “sommerse”, sono come quelle descritte nel pezzo della CNN, e sono anche proprio queste ultime quelle che più hanno risentito degli effetti dell’epidemia del 2020. A seguito delle restrizioni attuate dai governi, moltissimi ristoranti hanno dovuto chiudere, mentre altri per sopravvivere hanno dovuto organizzarsi per fornire i pasti al domicilio dei clienti, o per vendere i loro piatti online e nei negozi. Molti ristoranti, pur avendo riaperto, hanno ridotto il numero dei coperti, perché le persone si sono abituate a farsi consegnare il cibo del ristorante a casa o a servirsi del servizio da asporto e questa tendenza non accenna a scemare. Ma la consegna a domicilio ha un costo, che i ristoratori cercano di abbattere cercando i fornitori che garantiscano loro le tariffe più basse: e come fanno i fornitori ad abbassare i costi? Avete indovinato: riducono i salari o allungano l’orario di lavoro (o entrambe le cose). Il rider in moto in tangenziale o che arranca in bicicletta, magari al buio e sotto la pioggia, è ormai la quintessenza della nuova frontiera dello sfruttamento operaio. Una realtà che i film e le serie tv, oggi, sembrano saper mostrare molto bene, e che denunciano anche quando forse cercano di glorificarla.



4 commenti:

  1. Beh, il fatto che gli chef nelle cucine dei locali siano ormai sempre più spesso immigrati da paesi non ricchi (abbondano cingalesi, senegalesi, bengalesi e egiziani) denota che un certo livello di sfruttamento del lavoratore (e di stipendio non commisurato alle ore di lavoro) sta prendendo piede anche qui da noi...
    E comunque, per conoscenza diretta di un rider, ho saputo che certi locali pagano il ragazzo di turno che deve consegnare la cena a domicilio la bellezza di due euro a consegna... e trovano comunque gente disposta a farlo.

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    1. Due euro a consegna da cui bisogna detrarre tutti i costi visibili e invisibili che sono a carico del rider. Non mi stupisce però che ci sia gente disposta a farlo, se quello è l'unico modo per mettere insieme qualche centinaio di euro al mese per un pasto o poco più. Mi stupisce invece che quasi tutti chiudano gli occhi di fronte a questa nuova forma di schiavitù e continuino a ordinare cose superflue in questo modo per il solo gusto di vederselo recapitato.

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    2. Uno degli aspetti più deleteri del capitalismo consumistico è che anche i "poveri" nel loro piccolo giocano a fare i ricchi, magari semplicemente facendosi consegnare a domicilio venti euro di pizza...

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    3. Il controllo delle masse passa anche da questo: ciascuno ha qualcuno più in basso sul quale sfogare le proprie frustrazioni. Tutto purché non si faccia troppo caso a quelli più in alto.

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