lunedì 7 ottobre 2024

La Grande Abbuffata: scorpacciate da paura (Pt.3: altri cannibali)

In Italia il cannibalico ha segnato l’esigenza di rappresentare la morte in modo più evidente e realistico di pari passo a quanto avveniva nel paese ed echeggiava sui quotidiani e in tv, tramutandosi nella valvola di sfogo dalla realtà degli anni di piombo. 
In precedenza, il cinema ci aveva regalato, con il gotico, storie in cui la vita e la morte si intrecciavano, passioni e sofferenze sopravvivevano alla morte e qualche volta gli amanti restavano uniti anche nell’oltretomba, ma più spesso uomini ammaliati da seducenti e sensuali figure femminili, veicolo di orrori indicibili, finivano per preferirgli il più rassicurante richiamo del focolare domestico. Queste tendenze saranno sconfessate già dalla metà degli anni ‘60 dal giallo all’italiana e dallo spaghetti western, ma soprattutto dai nuovi filoni come il mondo-movie, cioè il documentario etnografico, e il cannibalico. 
Quello dei mondo-movie è un cinema manicheo che contrappone lo scontro ideologico fra civiltà e barbarie, cioè fra noi e “loro”, dimenticando, per citare Cioran, che “il «civilizzato» è un uomo finito quando si lascia affascinare dal barbaro”. Si delinea anche ben presto come cinema manipolatorio, che mescola il vero e il falso: animato dalla curiosità verso tutto ciò che è strano ed esotico, finisce per ricercare ciò che di peggio c’è al mondo, in particolar modo nel cosiddetto terzo mondo, e per ricorrere alla spettacolarizzazione del sesso e della morte (una tendenza che contagerà anche la televisione). 
Il cinema cannibalico, che del mondo-movie è la mutazione, raggiunge incredibili vette di efferatezza, promulga la rivoluzione sessantottina del modello sociale e religioso italiano, viola con vocazione terapeutica e liberatoria il più grande tabù dell’epoca: cibarsi di carne umana, non nella fiction distopica, ma in un contesto vero o spacciato come tale. Inoltre, è in fondo l’unico genere davvero democratico, che falcia indifferentemente animali e uomini, maschi e femmine, in un furore che cancella le barriere di specie e di genere. Il primo cannibalico italico fu “Il paese del sesso selvaggio” di Umberto Lenzi, del 1972, ma fu un inizio frugale: il film in effetti contiene una sola scena di cannibalismo. In seguito, nel 1980, Lenzi diresse “Mangiati vivi!”, che si allaccia al tema delle sette religiose, ma il film fu eclissato dal survival movie di Ruggero Deodato uscito lo stesso anno e destinato a divenire un riferimento culturale, non solo italiano. 

Cannibal holocaust” è il vero film manifesto del cannibalico italiano, che il suo regista gira dopo "Ultimo mondo cannibale", del '76. "Ultimo mondo cannibale" è un coacervo splatter di uccisioni e violenze umane e animali, consumo di carne umana, esposizione di genitali, stupri e sesso libero, resi nella maniera più realistica in modo da innescare un fenomeno scatologico negli spettatori. Il passato ritorna, la natura sfida l’uomo bianco a riappropriarsi delle proprie pulsioni più primordiali per sopravvivere nella giungla selvaggia, in cui a nulla valgono i progressi della civiltà. Ma sono solo le prove generali per il successivo “Cannibal holocaust”, forse il film più censurato della storia del cinema, e che costò a Deodato un processo. Qui la struttura si fa meno convenzionale e le crudeltà si moltiplicano (le violenze sugli animali sono reali, anche se per scopo alimentare o nell’ottica della legge di natura, e fatico parecchio a giustificare l’insistenza della mpd nel riprenderle). 
In una struttura a scatola cinese, tipica del “found footage” che sarà, c’è un “film nel film” che consiste nel girato di alcuni reporter scomparsi in Amazzonia, che li mostra, sempre più tentati dal sensazionalismo, macchiarsi di una serie di efferatezze, attribuite ai pacifici indigeni, che per reazione finiscono per brutalizzarli. Le riprese finali con la morte in diretta dei reporter sono il trionfo dello sciacallaggio mediatico, con l’operatore che continua a filmare pur sapendo che, dopo i suoi compagni, sarà il prossimo a essere ucciso. 
Il cannibalismo è qui mostrato in tutte le sue terribili forme, e se la società dell’immagine è fallata, il selvaggio è parimenti lontano dal prototipo idilliaco e illuminista: la riflessione che ne scaturisce è nichilista. Nel 1981 esce “Cannibal ferox”, ma tutto è già stato detto e al buon Lenzi non resta che raschiare il fondo del barile, cercando la quadra nell’amplificazione del trucido e nel sadismo, che qui raggiunge vette sublimi (i seni uncinati, il pene amputato, il cranio scoperchiato). 

A travalicare i limiti del genere (e del buon gusto) fu Joe D'Amato (pseudonimo di Aristide Massaccesi) con “Antropophagus” (1980), dove l’appetito diventa autofagico (l’uomo che divora le sue stesse viscere) e non risparmia neppure i feti. Da segnalare anche “La montagna del dio cannibale” di Sergio Martino (1978) e “Apocalypse Domani” di Antonio Margheriti (1980), qui accreditato come Anthony M. Dawson. Il film di Martino, con un soggetto parzialmente ispirato a “Le nevi del Kilimangiaro”, fu diretto dal regista senta troppa inventiva ma con molto mestiere; il film di Margheriti si distacca dai cannibalici nostrani per l’incipit e l’insolita ambientazione urbana, e narra di un gruppo di reduci americani del Vietnam trasformatisi in zombie a causa di un virus, che trasmettono con i loro morsi fino a diffonderlo in tutta la città. 

Quanto al cinema inglese, l’irruzione nel cannibalico alterna i toni seri a quelli più scanzonati; cito qui due esempi. In “Nero criminale – Le belve sono tra noi” (1974) il regista Pete Walker riesce a coniugare lo scabroso tema dell’antropofagia con le atmosfere da thriller e da gotico inglese in quello che è stato definito un horror sociologico, che prende di mira tanto la famiglia che la medicina psichiatrica (ma in maniera decisamente più scoperta e incisiva che nella saga di Hannibal Lecter). Marito e figliastra devono fare i conti con le immorali voglie della moglie/matrigna, che rischiano di riportarla nello stesso ospedale psichiatrico dove la donna ha già soggiornato per ben quindici anni; la vita della famiglia è ammantata di una patina di normalità e perbenismo forse ancora più raggelanti delle malformazioni (fisiche e mentali) descritte da Hooper e Craven. Se in questa visione la famiglia è la culla disfunzionale di orrori e follie e i suoi frutti sono marci (infatti la figlia più grande non riesce a coltivare delle relazioni aperte e sincere, mentre la più piccola sembra il clone rabbioso della madre), la psichiatria si rivela incapace di guarirla o metterle un freno (il fallimento di questa disciplina è infatti simboleggiato dalla morte di uno dei suoi alfieri). 

Terrore ad Amityville Park” (Prey, 1977) di Norman J. Warren (futuro autore di “Inseminoid” (1981), un piccolo film altrettanto bislacco, ma un po' più conosciuto) è un piccolo horror fantascientifico su un alieno mutaforma venuto in esplorazione sulla Terra (il titolo temo sia il solito tentativo maldestro di ricollegare il film a una saga famosa, in questo caso quella di Amityville, con la quale non ha invece nulla a che fare). L’alieno assume le sembianze di un giovane belloccio che si introduce in una villa in mezzo a un bosco dove abita una coppia lesbica: l’alieno porterà alla resa dei conti la coppia, già non molto affiatata fin dal principio. Con mia meraviglia, il film si è rivelato abbastanza casto nelle scene di sesso; purtroppo, si trascina anche per oltre ottanta minuti nella noia più totale prima di regalarci tre minuti finali notevoli, con del sesso interspecie e cannibalico, in grado di risvegliare lo spettatore dal torpore perlomeno sui titoli di coda. Qualche spunto interessante per la verità c'è, per esempio un ambiente femminile chiuso affatto materno e accogliente, anzi basato sulla sopraffazione e sulla violenza, anche solo psicologica, la superficiale antitesi fra le due donne, vegetariane (ma anche poco amanti degli animali), e l’alieno carnivoro, eccetera.

Anche la Francia degli anni ‘70 ha subito il fascino del cannibalico. “Il mangiaguardie” (“Themroc”) di Claude Faraldo, del ‘73, è una commedia nera in cui il grande Michel Piccoli, nella migliore tradizione sperimentale, dialoga con una serie di borbottii onomatopeici. Themroc è un operaio francese che si ribella al sistema, prende a vivere come un cavernicolo e inscena una protesta in sfida ai tabù più radicati e in opposizione all'autorità e ai suoi valori consumistici, fra incesto, omosessualità e antropofagia (il gendarme allo spiedo). Una protesta che dilaga in tutto il condominio, simboleggiando e satireggiando l’afflato libertario post-sessantottino. Ma i tempi sono cambiati e non è forse strano che oggi, nel ventunesimo secolo, il cannibalico francese abbia perso le sue connotazioni politiche e preferisca sondare le dinamiche interiori dell’individuo, ma anche all’occorrenza mostrarsi in maniera disturbante. Per esempio, la regista Claire Denis, con il suo approccio autoriale ma asettico, usa uno spunto (fanta)scientifico (una cura sperimentale per aumentare la libido) per scavare nei meandri del rapporto di coppia e dei meccanismi dell’eros. La cura di cui il protagonista di “Cannibal love – Mangiata viva” (2001) è alla ricerca ha uno spiacevole effetto collaterale, quello di scatenare l’istinto cannibalico durante il rapporto sessuale. Dal distacco alla voracità, l’appetito sessuale non sembra mai trovare un equilibrio e il rapporto tra i sessi pretende il cannibalismo come dono di sé, nella realizzazione di una possessione reciproca completa (di corpo e anima) che, letteralmente, consuma. 
Raw - Una cruda verità” (“Grave”, 2016) di Julia Ducournau, una coproduzione con il Belgio, è invece il racconto di formazione di una ragazza che scopre per la prima volta la sessualità e l’aggressività (tema che lo accomuna a “Licantropia Evolution” (“Ginger Snaps”) di John Fawcett, del 2000), che sfocia in tendenze cannibali – e affronta così apertamente il tabù del desiderio femminile. All’inizio del film la protagonista è vegetariana, ma la possibile critica insita in questo incipit viene sconfessata dal finale, in cui si scopre che il cannibalismo non è una sorta di reazione a quel regime alimentare bensì una tara di famiglia (la cruda verità cui si allude nel titolo).

Un’incursione nel cinema della trasgressione ci porterebbe in lidi ancora più estremi (“They Eat Scum” (1979) di Nick Zedd, solo per fare un esempio), ma non ne sento davvero il bisogno. 

Il cannibalismo metaforizza moltissimi aspetti della vita e della psiche umana perché la nostra è una società cannibale, che genera la morte e se ne nutre (si pensi a come l’umanità tratta la natura e gli animali, o alla spirale del globalismo). Se la realtà odierna eguaglia e perfino supera la fantasia, questo significa forse che il cannibalico è ormai superato? Che non ne abbiamo più bisogno? A ognuno di noi l’ardua sentenza, ma, prima di lasciarci, c’è ancora qualcosa da dire. Quasi tutti i film di questa piccola selezione hanno trattato il fenomeno cannibalico da diversi punti di vista, ma quasi tutti si sono focalizzati sul soggetto e non sull’oggetto della questione, ovvero il cibo in sé e per sé. Sono forse un paio, a memoria, quelli dove il tema è più preminente, ed è con essi che chiuderò l’articolo di oggi. Nel 1973 il regista Richard Fleischer ci ha mostrato, in “2022: I sopravvissuti” (“Soylent Green”), un pianeta malato e sovrappopolato la cui sopravvivenza è legata alla produzione di gallette di cibo sintetico ricavate in teoria da soia e plancton, ma in realtà dai corpi dei cadaveri, mentre i pochi ortaggi e tagli di carne disponibili sono appannaggio dei più ricchi. 

Se i personaggi del Macellaio (*) sono cannibali inconsapevoli, quelli di Cronenberg figlio sono invece fan così ossessionati dalle celebrità da volerle fagocitare (in “Antiviral” (2012) di Brandon Cronenberg, film che, tra le altre cose, sfoggia la totale mercificazione del corpo). Qualche anno fa, introducendo alcune riflessioni su questo film, parlai di un’azienda americana che si proponeva di portare il commercio della carne sintetica a dei nuovi livelli, producendo “salami di lusso” con i tessuti muscolari provenienti dalle celebrità preferite: la Bite Labs. Il sito aziendale che avevo linkato non funziona più: non ho trovato un altro indirizzo internet dell’azienda, quindi potrebbe non essercene uno attivo al momento, ma cercando sul web si trovano molti articoli che parlano della Bite Labs. Mi domando se questo sia solo un caso o se l’azienda sia stata costretta a oscurarlo in seguito alla reazione dell’opinione pubblica americana a una proposta così estrema e di cattivo gusto. Sinceramente me lo auguro, anzi mi auguro che l’azienda abbia proprio chiuso i battenti o perlomeno cambiato attività. 

Tuttavia, l’interesse per l’argomento non è affatto scemato. Arriviamo infatti al 24 luglio 2023, data in cui il canale inglese Channel 4 ha trasmesso un mockumentary, ovvero un finto documentario, di Gregg Wallace, giudice di Masterchef, sulla produzione e sul consumo di carne umana coltivata in laboratorio, presentandola come una possibile soluzione alla crisi economica (anche perché i donatori dei tessuti sarebbero persone in difficoltà economiche. Insomma, si tratterebbe di una pratica che sta alla ristorazione come l’utero in affitto sta alla fecondazione artificiale). 
Il documentario si chiama “The British Miracle Meat”. Si è trattato davvero di una satira o forse dell’ennesimo tentativo di sdoganare qualcosa fino a ieri davvero improponibile, cercando il salto dalla distopia alla realtà? Probabilmente, tutto ciò è un falso problema: la carne umana è già di fatto entrata nel ciclo alimentare da quando è diventata prassi non solo utilizzare i cadaveri umani come compost per gli alberi, ma anche per i campi di vegetali destinati al consumo animale e umano (una pratica che è già legale in diversi stati americani). L’aura romantica e green di questo metodo di sepoltura dimostra che la fascinazione per il cannibalismo è solo il segno più evidente di una civiltà che si sta lentamente trasformando in necrocultura. Non troppo sorprendente, giacché il primo veicolo del cannibalismo è proprio la religione (cos’è infatti l’eucarestia, durante la quale Gesù Cristo viene mangiato e bevuto dai fedeli sotto forma di ostia e di vino, se non un rito cannibalico?).     

(*) Ironia della sorte, fleischer è una delle traduzioni tedesche della parola“macellaio”.

2 commenti:

  1. Quella di Gregg Wallace mi pare solo una provocazione, probabilmente ispirata dalla "Modest proposal" di Johnathan Swift, vero precursore ante litteram della tematica cannibalesca (ai suoi tempi il cinema ovviamente ancora non esisteva).

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    1. Vero. Ma la domanda è "a cosa serve?" Serve forse a vendere libri? Non credo. Nessuno sano di mente spenderebbe venti euro per cartaccia del genere. Serve affinché se ne parli? Probabile, ma una volta che se ne è parlato? Davvero non capisco.

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