“Il sangue è la vita!” (Dracula, Francis Ford Coppola)
Abbiamo parlato di zombi e di cannibali, e va bene, ma perché inserire un capitolo anche sui vampiri? Cos’hanno a che fare tali creature con questo speciale a tema gastronomico? Purtroppo, nel lungo elenco dei disturbi alimentari tipici di quest’epoca non bisogna dimenticare quello forse più singolare. Sto parlando della cosiddetta Sindrome di Renfield (*), nota anche come ematolagnia o più comunemente come vampirismo clinico, ovvero una parafilia nella quale l'eccitazione sessuale è associata al bisogno compulsivo di ingerire sangue. Per chi ne soffre, l’ematolagnia è un’esperienza molto più profonda e intensa dell’atto sessuale, che termina nel momento dell’orgasmo. Ingerire il sangue del partner, al contrario, soddisfa il desiderio di entrare in comunione con il partner per un tempo virtualmente infinito. Il partner, attraverso il sangue, viene ingerito, posseduto, inglobato, per sigillare in questo modo un rapporto indissolubile, attraverso un meccanismo simile a quello per cui i guerrieri di un tempo ingerivano, possedevano e inglobavano i nemici vinti in battaglia per assorbirne le migliori qualità. Per estensione, bere sangue è un gesto che inconsciamente evoca l’esperienza infantile dell’allattamento, di quel piacere quasi sessuale di un liquido caldo che ci scivolava giù in gola e sanciva l’indissolubilità del rapporto madre-figlio. Senza contare che numerose espressioni popolari associano uno stato d’animo alla metafora del sangue, e tra queste “mi ribolle il sangue” o “mi fa sangue” sono esplicitamente correlabili al sesso. La pratica rientra oggi anche in una logica feticista (dove il sangue rappresenta il feticcio) associata al desiderio di infrangere un tabù, un’attività proibita o ritenuta sconveniente, che è poi il motivo per cui l’ematolagnia la si ritrova spesso nei moderni riti di iniziazione, tanto delle sette religiose quanto di certi club esclusivi, e in certe pratiche BDSM estreme (i cosiddetti “blood sports”), in cui il sangue è elemento di scambio tra i praticanti.
Se vi state chiedendo se bere sangue fa male, la risposta è no se parliamo di piccole quantità (e purché non sia infetto); quantità più importanti potrebbero però provocare in primo luogo vomito e nausea, a causa della difficoltà del nostro apparato digerente a scomporre il sangue, e in secondo luogo un eccesso di ferro, da cui un aumento della glicemia, dei trigliceridi e delle transaminasi del fegato, con il rischio di emocromatosi e quindi di malattie epatiche quali cirrosi, fibrosi e carcinomi. In estrema sintesi: lasciate perdere e considerate questa introduzione conclusa.
Parlare di sangue in chiave alimentare ci porta inevitabilmente ad affrontare un’altra delle figure più iconiche dell’horror, sulla quale sono già stati versati fiumi d'inchiostro. Oggi ne verseremo dell’altro, visto che la filmografia vampirica, in particolare, è un vero ginepraio, ma prima di avventurarci in una piccola cronistoria devo fare alcune piccole premesse, ovvie ma necessarie.
Leggende su creature succhia sangue che rimandano a un archetipo antichissimo si trovano ovunque nel mondo, ma la minaccia è arrivata fino a noi, geograficamente, dall’Europa dell’est e questo com’è noto lo si deve a Bram Stoker, che si ispirò alla figura storica di Vlad III di Valacchia, o Vlad Țepeș, per creare il mitologico protagonista del suo più famoso romanzo, il Conte Dracula. La seconda ragione è che l’Est Europa, per tradizione, è innegabilmente meno propenso dell’Ovest a dimenticare le proprie radici culturali.
Il vampiro è un non-morto, ossia una creatura che è allo stesso tempo viva e morta, che non ha bisogno di respirare o di espletare altre funzioni fisiologiche, ma ha comunque delle basi biologiche nel mondo reale. Esistono infatti in natura dei mammiferi chiamati pipistrelli vampiro che hanno perso o de-attivato alcuni geni, determinando delle modifiche nella fisiologia e nel metabolismo rispetto ai normali pipistrelli: la genetica li ha resi in grado di sopravvivere con il sangue, un cibo povero di nutrienti e inadatto alla vita per tutte le altre creature animali. Il sangue, come detto, ha anche un grandissimo valore simbolico, dato che viene identificato da sempre con la vita che scorre nel corpo, quindi come afflato vitale, dal potere magico, tanto che le religioni del passato spargevano il sangue come offerta alla divinità, mentre nel cristianesimo il sangue di Gesù è in grado di “lavare i peccati del mondo”, cioè di purificare dal peccato, e in altre religioni è così sacro che non può essere versato e neppure trasfuso: nel sangue c’è l’anima, quindi mischiando il proprio sangue con quello di un’altra persona si mischiano anche le loro vite. Ecco che il gesto di abbeverarsi di sangue diventa blasfemo, una sfida al divino: ed ecco perché il vampiro, che è privo di vita, deve nutrirsi della vita, ovvero del sangue altrui, per restare nel nostro piano di esistenza.
Come avevo già avuto modo di commentare in passato, sono grossomodo due gli immaginari cui è possibile ricollegare il vampiro: quello del fascinoso seduttore e quello della creatura repellente che al solo sguardo genera un istintivo terrore. Il primo è idealmente rappresentato da Bela Lugosi, Christopher Lee e Gary Oldman, oltre che dai vampiri emo di Twilight e delle altre saghe per “giovani adulti”, ma nella lista inserirei anche il Lestat di Tom Cruise, anche se i puristi non saranno d’accordo con me; la sua evoluzione sono vampiri “aristocratici”, magnetiche creature urbane della notte come i protagonisti di “Miriam si sveglia a mezzanotte” (“The Hunger”, 1983) di Tony Scott, o di “Solo gli amanti sopravvivono“ (“Only Lovers Left Alive”, 2013) di Jim Jarmusch.
Al secondo tipo appartengono il Nosferatu di Max Schreck e Klaus Kinski, eredi diretti della tradizione contadina che parlava di creature raccapriccianti riemerse dalla tomba per tormentare i vivi, capri espiatori ideali di tutte le morti inspiegabili e spauracchio per i bambini e per le giovani donne, la cui virtù si voleva preservare incentivandole a non uscire di casa la notte. Tra le più respingenti, a memoria d’uomo, ci sono anche il Martin di George A. Romero (“Wampyr“, 1978), le creature di “Vampires” di John Carpenter, del 1998 (e dei suoi seguiti), quelle di “30 giorni di buio” (“30 Days of Night”,2007) di David Slade e del suo sequel del 2010, oppure la vampira di “Lasciami entrare” (“Låt den rätte komma in”, 2008) di Tomas Alfredson.
È forse superfluo sottolinearlo, ma per le persone della mia generazione il vampiro avrà sempre il volto di Christopher Lee. “Dracula il vampiro” (“Dracula” o “Horror of Dracula”), 1958, e “Dracula, principe delle tenebre” (“Dracula: Prince of Darkness”), 1965, entrambi di Terence Fisher, “Le amanti di Dracula” (“Dracula Has Risen from the Grave”) di Freddie Francis, 1968 e “Il conte Dracula” (“Count Dracula”) di Jesús Franco, 1969, sono solo alcune delle pellicole in cui Lee interpretò la parte del vampiro nel corso della sua carriera. Fra queste la più singolare è senz’altro “Cuadecuc, vampir” di Pere Portabella, 1971, una sorta di “making of” del Dracula di Jess Franco, dove il film, in bianco e nero, viene inframmezzato da scene dal dietro le quinte dello stesso film: ne risulta un film più breve, con scene aggiunte e altre epurate, quasi completamente privo di dialoghi e con una colonna sonora cupa e alienante.
La componente sensuale sembra perfino accentuarsi quando il vampiro è femmina. La donna fatale è in realtà un topos nato già agli albori del cinema: è una donna intrigante ed esotica, che si veste e si trucca in modo sofisticato e vistoso, la “mangiauomini” che seduce e abbandona tutti gli uomini che hanno la sventura di incontrarla, portandoli alla rovina. Questo ruolo fu reso popolare da Theda Bara (1885-1955), diva del cinema muto per la quale fu coniata la parola "vamp", contrazione di “vampire”, entrata proprio grazie a lei nell’uso corrente e nell’immaginario collettivo mondiale. Tratto da un racconto di Rudyard Kipling, “La vampira” (“A Fool There Was”) di Frank Powell, del 1915, fu il suo primo film da protagonista (da non confondersi con l'omonimo film del 1922 girato da Emmett J. Flynn); in seguito interpretò altri ruoli di iconiche seduttrici come Salomè, Cleopatra o Madame du Barry. Dopo di lei, a vestire i panni della vamp hollywoodiana per antonomasia fu Maila Nurmi (1922-2008), pin up e attrice nota con lo pseudonimo di Vampira dal look ispirato al celeberrimo personaggio nato dalla penna del fumettista Charles Addams nel 1938: Morticia Addams. La Nurmi ebbe un certo successo nei primi anni ‘50 per poi ritornare in auge soltanto negli anni ‘80, quando il famigerato “Plan 9 from Outer Space” di Ed Wood, film da lei girato nel 1958, venne decretato come il film peggiore della storia del cinema, assurgendo a imperitura fama. Nel cinema di genere, da qui in avanti, i personaggi che deviano dall’umano saranno spesso in qualche modo sessualmente ambigui e ipersessualizzati, siano essi vampiri (per esempio in “Flaming creatures” di Jack Smith, del 1963, con il suo campionario metropolitano di sirene, vampiri, poeti e drag queen) oppure alieni (si veda ad esempio il Frank-N-Furter di “The Rocky Horror Show”, prima musical e poi film nella versione più iconica del 1975 di Jim Sharman o in quella più moderna, del 2016, di Kenny Ortega).
Negli anni ‘70 l’evoluzione (o devoluzione, se preferite) della vampira è quella di essere inevitabilmente lesbica e poco propensa a tenersi i vestiti addosso. Spagna, Francia e Inghilterra con i loro horror erotici ci hanno regalato iconiche figure di vampire lesbiche, nel bene e nel male indimenticabili. Il cinema spagnolo dell’epoca è figlio della repressione franchista, oppressivo e dolente, e la donna spogliandosi e subendo violenza vi sconta il peccato originale di incarnare l’impudicizia e il vizio. Di Jess Franco ricordiamo pellicole anni ‘70 come “Vampyros Lesbos” (“Vampyros Lesbos - die erbin des Dracula”, 1971), “La fille de Dracula” (1972) e “Un caldo corpo di femmina” (“La comtesse noire”, 1973), inframmezzate da immagini softcore e summa del cinema anarchico e carnale del regista, che scandaglia il corpo femminile, ma anche zaffate fuori tempo massimo come "Vampire Blues" (1999), con la sua figura di vampira “dark”, e "Snakewoman" (2005), un remake di “Vampyros Lesbos” firmato dallo stesso regista.
Nel mentre, José Ramón Larraz firma “Ossessione carnale” (1974), tratto da un fumetto, che avrà un remake nel 2014. Ci sono naturalmente anche opere contemporanee che, purofuse di nudità e di violenza, raggiungono una profondità psicanalitica inusitata, come “Le messe nere della contessa Dracula” (“La Noche De Walpurgis”) di León Klimovsky, 1971, “Un abito da sposa macchiato di sangue” (“La novia ensangrentada)” di Vicente Aranda, 1972 (tratto dal celeberrimo racconto “Carmilla” di Le Fanu) e “Le vergini cavalcano la morte” (“Ceremonia sangrienta”) di Jorge Grau, 1973.
Il francese Jean Rollin crea un immaginario erotico, mai volgare, con “Le viol du vampire” (1967), “La vampira nuda” (“La Vampire nue”,1970), “Requeim pour un vampire” (1971), “Violenza ad una vergine nella terra dei morti viventi” (“Le frisson des vampires”,1971), “L’isola delle demoniache” (1973) e “Lévres de sang” (1975). La critica non lo ha mai premiato, tuttavia il suo cinema a tratti surreale, ipnotico, ancorato al passato, non è privo di un certo fascino gotico e romantico a dispetto delle sceneggiature abbozzate e di qualche carenza tecnica. Il suo connazionale Roger Vadim dirige invece un film basato sul romanzo gotico “Carmilla” di Sheridan Le Fanu, "Il sangue e la rosa" (“Et mourir de plaisir”, 1960), mentre Charles Matton firma il cult erotico horror fantascientifico “Spermula” (1976) e Walerian Borowczyk, in un episodio dei “Racconti immorali” (“Contes Immoraux”, 1974), rivisita la leggenda di Erzsébet Báthory.
Nell’horror inglese la cosiddetta “trilogia dei Karnstein” comprende tre film insoliti per la Hammer Film Productions (sono molte le scene lesbo) e in generale per tutto il gotico inglese, solitamente più declinato al maschile: “Vampiri amanti” (“The Vampire Lovers”), 1970, di Roy Ward Baker, “Mircalla, l’amante immortale” (“Lust for a Vampire”), 1971, di Jimmy Sangster e “Le figlie di Dracula” (“Twins of Evil”), 1971, di John Hough. Sono film permeati di una sessualità sotterranea che sembra emergere un po’ da tutto il cinema horror britannico degli anni ‘70, figlio di una mentalità puritana distante anni luce dalla sensibilità mediterranea, dove il lesbismo rappresenta l’inevitabile decadere dei costumi.
Da noi questa figura femminile non ha mai avuto un’identità così definita, in un senso o nell’altro: non possiede la carnalità di quelle di Franco, ma non è neppure eterea come quelle di Rollin. Il vampiro italiano, maschio e femmina, è più canonico (“I vampiri” di Riccardo Freda, 1957; “L’Amante del Vampiro” di Renato Polselli, 1960; “La maschera del demonio” di Mario Bava, 1960; "L'ultima preda del vampiro" di Piero Regnoli, 1960; “Il vampiro dell'opera” di Polselli, 1964; "La cripta e l'incubo" di Camillo Mastrocinque, 1964; "Nosferatu a Venezia" di Augusto Caminito, 1988). Qualche volta si ibrida con la strega o lo zombi (“La notte dei diavoli” di Giorgio Ferroni, 1971; "Riti, magie nere e segrete orge nel Trecento“ di Renato Polselli, 1973), o raffigura il potere in film fantapolitici (“Hanno cambiato faccia” di Corrado Farina, 1972). Oppure si metamorfizza in parodie (“Tempi duri per i vampiri” di Steno, 1959; "Il cav. Costante Nicosia demoniaco ovvero: Dracula in Brianza" di Lucio Fulci, 1975; “Fracchia contro Dracula” di Neri Parenti, 1985), in personaggi da fumetto (“Zora la vampira” dei fratelli Manetti, 2000) o da cabaret (“Tre uomini e una gamba” del trio Aldo, Giovanni e Giacomo, 1997). Dopo i fasti degli anni ‘60 è forse proprio nelle successive, libere rivisitazioni che è possibile trovare la vetta di un cinema vampirico che, quando cerca di guardare al passato, fallisce miseramente (l’imbarazzante “Dracula 3D” di Dario Argento, 2012).
Il vampiro è ben lungi dall’aver esaurito la sua funzione cinematografica. Infinita è la sua riproducibilità perché infiniti sono i simbolismi associabili al vampiro. È impossibile esaminarli tutti, visto che sono centinaia, forse migliaia i film dedicati alla figura del vampiro, e questa mia piccola selezione non ne rappresenta che un frammento.
Ciò che posso dire per certo è che oggi la vampira lesbica sembra ormai passata di moda. Forse non c’è neanche più bisogno, visto che le scelte sessuali non ortodosse (diciamo così) sono state ampiamente sdoganate, e lungi dal configurarsi ancora come un peccato o una vergogna, l’omosessualità (femminile e maschile) è divenuta quasi un motivo di vanto. Oggi abbiamo la vigilante in chador di Ana Lily Amirpour (“A girl walks home alone at night”, 2014), antitesi delle vampire settantiane destinate a essere denudate, violate e uccise, che sovverte la logica della ragazza indifesa che deve nascondersi dai pericoli della notte, anzi vaga da sola in cerca di prede. Sfrondato degli elementi soprannaturali il film è un western, non alla maniera di “Il buio si avvicina” (“Near dark”, 1987) di Kathryn Bigelow (altro vampirico parecchio fuori dagli schemi), ma altrettanto sorprendente. Se non ne apprezzate l’intento propagandistico, apprezzerete forse di più l’estetica del film e la ventata di novità apportata al genere vampirico, sebbene l’equazione vampira uguale donna emancipata, come abbiamo visto, sia vecchia di un secolo e sia stata già sviluppata nei modi più disparati. Per ora questo film è rimasto una sorta di unicum, ma sospetto che il genere ci regalerà altre figure di eroine femministe.
Anche “Byzantium”(2012) di Neil Jordan si presta a una riflessione sulla condizione della donna, ma le protagoniste sono tutt’altro che eroine da fumetto, quanto creature immortali loro malgrado, che fanno il necessario per sopravvivere.
Pellicole come “Dracula cerca sangue di vergine... e morì di sete!!!” (“Blood for Dracula”, 1974) di Paul Morrissey e “El Conde” di Pablo Larraín (2023) sono infarcite di satira politica per una riflessione sempre attuale e necessaria e per questo non trovo del tutto fuori luogo accostarli, a dispetto dei cinquant’anni che separano, cronologicamente, l’uno dall’altro. I film, comunque, virano dal punto di vista ideologico in direzione opposta. Il vampiro languido e malaticcio di è la reliquia di tradizioni e valori ormai superati che ne fa la vittima ideale di una lotta di classe all’ultimo sangue. Il regista dispensa ironia a piene mani, ma il finale è fin troppo realistico e crudo.
Invece “El Conde”, cioè Augusto Pinochet, è la maniera con cui Larraín e il Cile intero fanno i conti con un passato scomodo. Ma il Pinochet filmico, dopo aver deciso di lasciarsi morire per espiare le sue colpe, sente il richiamo dei sensi e cambia idea, riprendendo il mantello; e così, la dittatura continuerà nell’ombra e l’oppressore continuerà a dissanguare il suo popolo, probabilmente per sempre. Il richiamo a una forma di governo ombra che deciderebbe i destini dei popoli è ben più che un’allusione, e il legame storico con il mondo anglosassone è simboleggiato dalla parentela tra il Conde e un illustre personaggio politico del passato, anch’esso rivelatosi un vampiro. Insomma, il potere non muore mai, e allo stesso tempo il passato, in quel tempo e luogo, non è degno né di oblio né tanto meno di assoluzione.
Il vampiro di Edgar Pêra è un altro esempio di creatura decadente, ma ancora più sospesa nel tempo, sebbene il suo film sembri più interessato a esplorare i temi dell’amore e dell’amicizia (“O Barão”, 2011).
Se film come "Plan 9 from outer space" (1959) e il Dracula turco “Drakulaad Istambul" ("Drakula Istanbul’da") di Mehmet Muhtar (1953) sono involontariamente comici, in altri l’ironia è intenzionale, come "Blacula" di William Crain (1972), su un vampiro nero; il sexploitation "Vampire Hookers" di Cirio H. Santiago (1978), con le sue prostitute vampiro; "Rockula" di Luca Bercovici (1990), su un vampiro rockettaro; la commedia “Amore all’ultimo morso” di John Landis (1992), su una vampira e un poliziotto che si alleano contro un boss mafioso; “Jesus Christ Vampire Hunter" di Lee Demarbre (2001), con il Messia che ritorna sulla terra per combattere una setta di vampiri; e “What We Do in the Shadows” di Taika Waititi (2014), esilarante mockumentary sulla convivenza tra vampiri ultracentenari.
Altri autori hanno avuto un approccio più seminale al tema, e le loro opere risultano perciò più sgradevoli e ostiche. Per Bill Gunn e Abel Ferrara il vampirismo ha una valenza politica, sociale o filosofica. Con “The Addiction – Vampiri a New York” (1995) Ferrara non è stato l’unico ad associare il vampirismo alla dipendenza da droga, e neppure il primo: lo aveva già fatto Bill Gunn con il suo film di culto del blaxploitation “Ganja & Hess” del 1973 (il protagonista è il Duane Jones reduce da “La notte dei morti viventi” di Romero). Il film è incentrato su un antropologo, il dottor Hess, che sviluppa sete di sangue umano dopo essere stato ferito con un coltello cerimoniale africano e converte al vampirismo anche Ganja, la moglie del suo assistente, dando vita a un’avventura lisergica la cui visione ricorda i trip indotti dalle sostanze suggerite nel titolo. Il contrappeso tra modernità e mondo primitivo, evocato in “The Addiction” dal confliggere di filosofia e istinto di uccidere, è qui suggerito dai ritmi ossessivi delle cantilene africane, usati per rimarcare la crisi d’identità che s’innesca all’abbandono delle proprie radici culturali e religiose (il protagonista cita spesso le sacre scritture). Il lungometraggio di Bill Gunn ha avuto una storia travagliata e può vantare un remake diretto da Spike Lee nel 2014: "Il sangue di Cristo" ("Da Sweet Blood of Jesus") spinge (fin dal titolo) sulla parafrasi religiosa, tentanto (senza riuscirci appieno) di fornire una spiegazione coerente, ma non possiede il fascino dell'originale ed è, purtroppo, ben più noioso.
A fare da spartiacque cronologico fra queste due opere potrebbe essere “Arrebato” (1979) di Iván Zulueta, che propone però anche un’interessante riflessione metacinematografica, alienata e disincantata, che ha avuto il pregio di anticipare di qualche anno l’epifania sul potere mediatico di Cronenberg. Il film mostra la morte in diretta di due uomini, ognuno dei quali è “arrebato”, in estasi, per una simmetrica forma di feticismo. Un uomo ossessionato delle videoriprese filma incessantemente se stesso finché la sua energia vitale non si trasmette alle immagini su pellicola, donandogli una forma virtuale di immortalità, un secondo uomo accompagna la visione di quelle immagini con abbondanti dosi di droga, accingendosi a fare la stessa fine. La morale è chela tossicodipendenza e il cinema sono due forme di vampirismo in grado di fagocitare corpo, mente e anima. (La riflessione sull’immortalità attraverso il cinema sarà ripresa da un discreto horror irlandese del 2014, “The Canal” di Ivan Kavanagh: le oscure presenze all'interno delle vecchie pellicole in archivio allegorizzano il ruolo del cinema, e della fotografia, come ricettacolo di fantasmi, ovvero generazioni di uomini e donne che non ci sono più e possono continuare a esistere solo su pellicola, su cellulosa o in un grumo di pixel.)
Le suggestioni del giapponese “Marebito” (2004) di Takashi Shimizu si possono accostare per certi versi a quelle di “Arrebato”, ma declinate in quella particolare sensibilità di stampo prettamente orientale. Il film è una riflessione sul voyeurismo, espresso attraverso l’obbiettivo fotografico e quello della macchina di presa, la cui vittima è la stessa figlia del protagonista, ridotta a una sub-umana con tendenze vampiriche. Film come "La donna vampiro" ("Onna kyûketsuki") di Nobuo Nakagawa, 1959, la trilogia settantiana di Michio Yamamoto (**) e "Dracula" ("Yami no teiôkyuketsuki dorakyura") di Akinori Nagaoka e Minoru Okazaki, 1980, invece, attingono a piene mani dall’immaginario occidentale.
Nel folclore giapponese, infatti, non esiste una figura con gli attributi di Dracula; tuttavia, esistono alcuni yokai descritti nei kaidan, i racconti di spiriti giapponesi, che si nutrono di esseri umani, se non nel senso fisico di trapassarli e succhiarli con i canini, in quello di svuotarli della vita (***).
Per trovare qualcosa di filmograficamente più aderente al corpus di leggende locali dobbiamo allora rivolgerci a titoli come "Kwaidan - Storie di fantasmi" ("Kaidan") di Masaki Kobayashi, 1964, “Yokai Monsters: 100 Monsters” (“Yōkai Hyaku Monogatari”) di Kimiyoshi Yasuda, 1968, o, nonostante l’ambientazione “futuristica” e urbana, "Le avventure del ragazzo dal palo elettrico" ("Denchû kozô no bôken") di Shin’ya Tsukamoto, 1987, in cui un ragazzo con un palo elettrico conficcato nella schiena combatte per liberare la Terra dai vampiri Shinsegumi. Oltre che, naturalmente, agli anime: ma questa è un’altra storia.
Nel cinema cinese, patria dei wuxiapian (le tipiche storie di arti marziali), la tradizione orientale e quella occidentale si sono incontrate grazie al regista inglese Roy Ward Baker e a Chang Cheh (Zhang Che), che, con un centinaio di film all’attivo, è stato il principale regista hongkonghese di arti marziali negli anni '70. Nel ‘74 i due girano assieme “La leggenda dei sette vampiri d’oro” (“The Legend of the 7 Golden Vampires”), dove le atmosfere da gotico britannico si amalgamano al wuxia con un risultato kitsch, ma in fondo divertente. Negli anni ‘80 Hong Kong produrrà tutta una serie di film piuttosto bizzari per i nostri standard, dove “jiangshi”, vampiri saltellanti della tradizione folkloristica cinese, combattono a colpi di kung-fu, spesso infarcendo le storie di elementi da commedia: solo a titolo di esempio cito la trilogia di Godfrey Ho, filmata tra il 1987 e il 1989 ("Devil's dynamite”; “Robo Vampire”, una sorta di Robocop cinese che combatte contro i vampiri; e “Counter Destroyer”) e "Mr. Vampire" ("Geung see sin sang") di Ricky Lau, del 1985.
Curiosamente, la Romania, il paese che ha dato i natali alla leggenda del vampiro, può vantare solo un ristretto numero di pellicole a tema vampirico, e produsse il primo (una coproduzione con gli Stati Uniti, oltretutto) soltanto nel 1991: si tratta di “Subspecies” di Ted Nicolaou, primo di una quadrilogia, in cui compare anche il mitico Angus “Tall Man” Scrimm nei panni di re Vladislav. Dall’Ungheria, altro paese dalle fosche leggende, arrivano invece due film interessanti, ma comunque abbastanza recenti, come “Bathrory” di Juraj Jakubisko (2008), sulla contessa sanguinaria, e “The curse of Styria” di Mauricio Chernovetzky e Mark Devendorf (2014), ispirato alla storia di Carmilla.
Questa carrellata di film sui vampiri finisce qui e con essa si chiude anche l’esame dei film sulle creature dell’orrore più iconiche. Prima di dichiarare lo speciale sul cibo nel cinema terminato e tirare le somme ci sarà spazio però per un ultimo articolo, che riguarderà uno dei grandi maestri del cinema internazionale.
(*) Sindrome di Renfield è una denominazione coniata da Richard Noll con riferimento a R.M. Renfield, il seguace zoofago di Dracula detenuto nel manicomio del Dr. John Seward nel romanzo di Bram Stoker (1897).
(**) “Legacy of Dracula: The Bloodthirsty doll” (“Yureiyashiki no kyofu: Chi o sûningyo”), 1970; "Il sangue di Dracula" ("Noroi no yakata: Chi o sû me"), 1971, e “Evil of Dracula” (“Chi o sû bara”), 1974.
(***) La rokurokubi, per esempio, è un demone il cui collo si allunga a dismisura oppure si stacca dalla testa (in questo caso è detta nukenubi ed è molto più letale): si nutre del qi, la forza vitale, e specialmente di quello degli uomini, che attacca di notte, mentre dormono, come un succubo. La sua somiglianza col vampiro sta anche nel fatto che è possibile ucciderla impedendo alla testa di ricongiungersi col corpo prima dell’alba. La kitsune (letteralmente, volpe) è invece un mutaforma che, in alcuni racconti, spesso assume le sembianze di una bella donna che seduce gli uomini e, come un vampiro o un succubo, può sottrargli l'energia vitale, in genere durante un contatto sessuale. La yuki-onna è una figura femminile che appare di notte nella neve e fa smarrire i viandanti, oppure li “assidera” risucchiandogli il calore dal corpo. Rassomiglianze con queste figure del mito giapponese ci sono anche nelle leggende degli altri paesi asiatici, solo a titolo di esempio i già menzionati jiangshi e le hulijing (Cina), Kumiho (Corea), le Phi Tanee e le Krasue (Thailandia). Krasue ha alcune caratteristiche tipiche del vampiro, come le sue controparti cambogiana (Ahp), laotiana (Kasu), indonesiana (Kuyang o Leyak), vietnamita (Ma lai), filippina (manananggal), malesiana (penanggal), eccetera. Nella filmografia di questi paesi la principale fonte di ispirazione è la figura della donna-volpe (per esempio “Whispering corridors 3: Wishing stairs” (“Yeogo goedam 3: Yeowoo gyedan”) della coreana YunJae-yeon), di Phi Tanee e di Krasue e lesue controparti (“Prai Takian” di Sodsri Phakdeechit, 1940; “Ta-kien” di Chalerm Wongpim, 2003; “Krasue Sao” (“Ghosts of guts eater”) di S. Naowaratch, 1973; “Tamnan Krasue” (“Demonic Beauty”) di Bin Bunluerit, 2002; “Krasue Mom” (“My Mother is Arb"), 1980; “Leák” (“Mystics in Bali”) di H. Tjut Djalil, 1981; “Fei tou mo nu” (“The Witch with Flying Head”) di Jen-Chieh Chang, 1982; e così via). Nella filmografia di questi paesi la principale fonte di ispirazione è la figura della donna-volpe, di Phi Tanee e di Krasue e le sue controparti: ad alcuni di questi film ho dedicato dei post (per esempio questo e questo).
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