Oggi torniamo in Portogallo per parlare di un’opera che non è solo un classico del Novecento, ma è anche nota per la perfezione formale e per la maniera mirabile in cui testimonia la doppia natura, concreta e sentimentale, e profondamente nostalgica, di una nazione intera.
O Barão (Il Barone), del 1942, è l’opera omnia di António José Branquinho da Fonseca, personaggio di spicco del secondo Modernismo portoghese, e fu trasformata dal regista Edgar Pêra in un film incentrato su un vampiro, anche se invero molto particolare, in un’operazione che potrebbe apparire un po’ blasfema, ma che è innegabilmente affascinante: il suo O Barão (2011), lungometraggio di poco meno di due ore, mantiene però intatte le atmosfere rarefatte e sospese nel tempo del racconto, e almeno in questo la volontà di Branquinho da Fonseca può dirsi rispettata.
La novella è molto breve, e si può così riassumere: un ispettore scolastico viene inviato in uno sperduto villaggio di montagna e trova ospitalità nel palazzo del Barone, un personaggio che pare provenire dritto dal Medioevo ed è abituato a fare il bello e il cattivo tempo. Insieme, i due affrontano una serie di avventure notturne al limite del surreale, e dopo una serie di confidenze sempre più intime, favorite da una sorta di delirio nostalgico-alcolico, sembrano dar vita al germe di un’amicizia. Il mattino, però, si interromperà bruscamente l’idillio.
È tutto qui, in realtà. Anzi, no. Perché l’apparente semplicità della trama nasconde un perfetto equilibrio fra il realismo e atmosfere ora grottesche ora oniriche (o, per meglio dire, da incubo), nelle quali il fantastico non è da intendersi come intrusione di eventi inspiegabili nel quotidiano, ma come una sorta di aura magica e bizzarra propria del paesaggio opprimente dentro il castello e ammantato di luce notturna dell’esterno, e dagli stessi personaggi. Personaggi che, va detto, sono meravigliosamente descritti e destinati a lasciare il segno.
Il Barone, in particolare, avvolto nel suo un mantello come un signore d’altri tempi, ha modi rozzi e aggressivi che però cominciano ben presto ad apparire null’altro che una maschera destinata a infrangersi, oppure una sola di due facce, una frase con i puntini di sospensione, un’equazione monca. S’intuisce che c’è dell’altro nella sua personalità che scalpita per emergere, e mentre l’alcol scorre copioso, è lui a raccontare vari fatti del proprio passato con “un piacere vivo ma doloroso”, sempre in bilico fra il pudore e un estremo bisogno di confidare i propri tormenti. È sempre lui a trascinare il suo ospite, che appare più reticente e riservato, in una passeggiata notturna per la magione. L’orgoglio esibito per antichi amori brutali, rubati, lascia il posto al lancinante rimpianto di “Lei”, la Bella Addormentata, una sorta di donna angelicata di cui ci viene detto poco o niente: per lei il Barone coglie una rosa, e per lei rischia la vita mentre il lettore resta incollato alle pagine fino al finale triste ma sottilmente ambiguo.
O Barão ha dunque il suo acme in una storia d’amore (un piccolo racconto nel racconto) che perviene al lettore in maniera frammentata ma di cui s’intuisce la profondità e la portata, come un’onda di cui non vediamo l’origine ma solo il punto di rottura. Eppure, proprio quando l’elemento fantastico diventa predominante e il testo regala al lettore qualche piccolo brivido, non di paura bensì di inquietudine e profonda suggestione, proprio quando il lirismo si fa più profondo, ci si rende conto che O Barão non è tanto, o non solo, il racconto di amori perduti, ma una testimonianza di come l’amicizia sia un’affinità elettiva che ha più a che vedere con i sentimenti che con dettagli come l’età o il ceto sociale, e di come non vi sia in fondo molta differenza tra amori e amicizie perduti o, forse, mai cominciati.
Nel film il signorotto alto e dalle spalle larghe, nerovestito, è un vero vampiro che terrorizza gli abitanti del villaggio; e la venuta dell’Ispettore scolastico sembra plagiare (volutamente?) la famosa scena del viaggio di Jonathan Harker verso la Transilvania, funestato da oscuri presagi, sotto l’occhio onnisciente del Conte Dracula.
Per trasformare il Barone in una perfetta icona del gotico ci si affida all’incredibile fisicità del compianto attore Nuno Melo (Nuno Jorge Lopes de Melo Cardoso, 1960-2015), tramite il quale prende vita una figura ora orrorifica ora tragica che è anche metafora della decadenza morale, se non di un intero paese, quantomeno di una certa classe sociale. Il film strizza l’occhio a un certo cinema prettamente ludico, di serie b, ma pur nella sua stranezza risulta molto raffinato. Forse qualche lungaggine in meno gli avrebbe giovato, ma non lo vedo come un grosso difetto, perché questo non è un film dell’orrore classico né nell’estetica né nella trama, e già la messa in scena di per sé sembra pensata per scoraggiare chiunque non sia un minimo avvezzo a un certo tipo di cinema: a predominare sono il bianco e il nero, come in una pellicola dei primi del Novecento, e la recitazione è lenta e teatrale.
Una curiosità: O Barão fu trasposto per il cinema per la prima volta durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1943, ai tempi di Salazar, una troupe americana al soldo della produttrice Valerie Lewton aveva trovato rifugio a Lisbona. La Lewton, che aveva sposato un attore portoghese, grazie al marito scoprì la novella di Branquinho da Fonseca e volle farne un film dell’orrore, che però fu distrutto dal regime.
I membri americani della troupe furono rimpatriati, ma gli attori portoghesi vennero deportati nel campo di concentramento di Tarrafal, nell’isola di Santiago (Capo Verde), dove furono sottoposti alla tortura della "padella" e morirono fra atroci sofferenze. Solamente nel 2005 furono ritrovate negli archivi della cineteca di Barreiro due bobine e la sceneggiatura del film creduto perduto: Edgar Pêra decise di riutilizzare il materiale ritrovato e usarlo come base per un nuovo film che presentò al pubblico qualche anno più tardi, nel 2011. Vien da chiedersi dunque dove sia il vero orrore, se nelle atmosfere o in quanto mostrato nella pellicola oppure in quanto sappiamo di essa e della sua genesi, ma la risposta mi pare anche troppo scontata.
O Barão (Il Barone), del 1942, è l’opera omnia di António José Branquinho da Fonseca, personaggio di spicco del secondo Modernismo portoghese, e fu trasformata dal regista Edgar Pêra in un film incentrato su un vampiro, anche se invero molto particolare, in un’operazione che potrebbe apparire un po’ blasfema, ma che è innegabilmente affascinante: il suo O Barão (2011), lungometraggio di poco meno di due ore, mantiene però intatte le atmosfere rarefatte e sospese nel tempo del racconto, e almeno in questo la volontà di Branquinho da Fonseca può dirsi rispettata.
La novella è molto breve, e si può così riassumere: un ispettore scolastico viene inviato in uno sperduto villaggio di montagna e trova ospitalità nel palazzo del Barone, un personaggio che pare provenire dritto dal Medioevo ed è abituato a fare il bello e il cattivo tempo. Insieme, i due affrontano una serie di avventure notturne al limite del surreale, e dopo una serie di confidenze sempre più intime, favorite da una sorta di delirio nostalgico-alcolico, sembrano dar vita al germe di un’amicizia. Il mattino, però, si interromperà bruscamente l’idillio.
È tutto qui, in realtà. Anzi, no. Perché l’apparente semplicità della trama nasconde un perfetto equilibrio fra il realismo e atmosfere ora grottesche ora oniriche (o, per meglio dire, da incubo), nelle quali il fantastico non è da intendersi come intrusione di eventi inspiegabili nel quotidiano, ma come una sorta di aura magica e bizzarra propria del paesaggio opprimente dentro il castello e ammantato di luce notturna dell’esterno, e dagli stessi personaggi. Personaggi che, va detto, sono meravigliosamente descritti e destinati a lasciare il segno.
O Barão ha dunque il suo acme in una storia d’amore (un piccolo racconto nel racconto) che perviene al lettore in maniera frammentata ma di cui s’intuisce la profondità e la portata, come un’onda di cui non vediamo l’origine ma solo il punto di rottura. Eppure, proprio quando l’elemento fantastico diventa predominante e il testo regala al lettore qualche piccolo brivido, non di paura bensì di inquietudine e profonda suggestione, proprio quando il lirismo si fa più profondo, ci si rende conto che O Barão non è tanto, o non solo, il racconto di amori perduti, ma una testimonianza di come l’amicizia sia un’affinità elettiva che ha più a che vedere con i sentimenti che con dettagli come l’età o il ceto sociale, e di come non vi sia in fondo molta differenza tra amori e amicizie perduti o, forse, mai cominciati.
Nel film il signorotto alto e dalle spalle larghe, nerovestito, è un vero vampiro che terrorizza gli abitanti del villaggio; e la venuta dell’Ispettore scolastico sembra plagiare (volutamente?) la famosa scena del viaggio di Jonathan Harker verso la Transilvania, funestato da oscuri presagi, sotto l’occhio onnisciente del Conte Dracula.
Per trasformare il Barone in una perfetta icona del gotico ci si affida all’incredibile fisicità del compianto attore Nuno Melo (Nuno Jorge Lopes de Melo Cardoso, 1960-2015), tramite il quale prende vita una figura ora orrorifica ora tragica che è anche metafora della decadenza morale, se non di un intero paese, quantomeno di una certa classe sociale. Il film strizza l’occhio a un certo cinema prettamente ludico, di serie b, ma pur nella sua stranezza risulta molto raffinato. Forse qualche lungaggine in meno gli avrebbe giovato, ma non lo vedo come un grosso difetto, perché questo non è un film dell’orrore classico né nell’estetica né nella trama, e già la messa in scena di per sé sembra pensata per scoraggiare chiunque non sia un minimo avvezzo a un certo tipo di cinema: a predominare sono il bianco e il nero, come in una pellicola dei primi del Novecento, e la recitazione è lenta e teatrale.
Una curiosità: O Barão fu trasposto per il cinema per la prima volta durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1943, ai tempi di Salazar, una troupe americana al soldo della produttrice Valerie Lewton aveva trovato rifugio a Lisbona. La Lewton, che aveva sposato un attore portoghese, grazie al marito scoprì la novella di Branquinho da Fonseca e volle farne un film dell’orrore, che però fu distrutto dal regime.
I membri americani della troupe furono rimpatriati, ma gli attori portoghesi vennero deportati nel campo di concentramento di Tarrafal, nell’isola di Santiago (Capo Verde), dove furono sottoposti alla tortura della "padella" e morirono fra atroci sofferenze. Solamente nel 2005 furono ritrovate negli archivi della cineteca di Barreiro due bobine e la sceneggiatura del film creduto perduto: Edgar Pêra decise di riutilizzare il materiale ritrovato e usarlo come base per un nuovo film che presentò al pubblico qualche anno più tardi, nel 2011. Vien da chiedersi dunque dove sia il vero orrore, se nelle atmosfere o in quanto mostrato nella pellicola oppure in quanto sappiamo di essa e della sua genesi, ma la risposta mi pare anche troppo scontata.
Decisamente, il tipo di post pasquale che mi aspettavo di trovare da te :-D
RispondiEliminaMi chiedevo una volta se il mito del vampiro potesse andare bene anche a latitudini mediterranee, senza nebbie e brume, evidentemente si.
Ah sì, diciamo che a livello di repulsione per le feste comandate siamo più o meno allo stesso livello...
EliminaIL mito del vampiro va bene a tutte le latitudini ma anche a tutte le longitudini: se ne trovano anche in estremo oriente, come sai.
Riesci sempre a pescare delle perle nascoste e lucidarle a dovere.
RispondiEliminaBuona Pasqua. ;-)
Questa perla è particolarmente luccicante tra l'altro! Buona Pasqua in ritardo...
EliminaBeh ovviamente l'orrore vero è quello della feroce dittatura portoghese, i dittatori sono i veri vampiri dei loro popoli.
RispondiEliminaBuona Pasqua!
...e purtroppo ce ne sono ancora molti di vampiri di quel tipo in giro.
EliminaBuona Pasqua in ritardo anche a te...
A vedere il trailer, il bianco e nero ci sta tutto.
RispondiEliminaMa perché era stato censurato questo film?
cioè, il film originario, intendo.
EliminaHai fatto bene a chiedermelo, perché ero convinto di averlo scritto ma poi chissà perché non l'ho fatto. In breve, diciamo che girare un film su un tiranno che terrorizza la popolazione non poteva che attirare l'attenzione della polizia di Salazar, che lo vide come una metafora del paese e del regime che da anni lo stava opprimendo (e che lo avrebbe oppresso per un altro quarto di secolo).
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