Non ci sarebbe stata alcuna battaglia tremenda fra la luce e le tenebre, quando Dio avesse riconosciuto la sua presenza. Non ci sarebbe stata nessuna battaglia perché lei era già stata sconfitta, giudicata e punita in un colpo solo. Non c'era alcuna gloria, solo quell'insopportabile desiderio, una fame spirituale più insaziabile di qualsiasi fame che la carne potesse mai provare, per l'uomo che non avrebbe più avuto.
Così si delinea il destino di Lilith nell’immaginazione di Catherine Lucille Moore, una delle migliori scrittrici di fantascienza di tutti i tempi (1911-1987): americana, cominciò a pubblicare le sue opere nel 1933 sulla rivista Weird Tales firmandosi come C. L. Moore, e grazie a questo espediente poté nascondere al pubblico di essere una donna per lunghissimo tempo (all'epoca una donna che scrivesse storie di fantascienza sarebbe stata una stranezza e la Moore, che naturalmente lo sapeva, da persona intelligente non esitò a spacciarsi per un uomo pur di farsi prendere sul serio).
Il racconto da cui è tratta la citazione riportata qualche riga fa è “Il frutto della conoscenza” (Fruit of Knowledge, 1940) dove, per la verità, più che nella fantascienza, si entra in pieno in territorio fantasy. È considerato un racconto minore nella non molto estesa produzione della scrittrice, ma non per questo è privo di interesse, perché l'Autrice lo usa come pretesto per rileggere a modo suo il mito di Lilith e della creazione, tratteggiando un personaggio (sembra un paradosso, ma non lo è) dai tratti profondamente umani, punito atrocemente per il suo breve “soggiorno nei cinque sensi” come prima donna nel Giardino dell'Eden, persino prima della stessa Eva.
