Lo ammetto, ho approcciato questo film per un motivo decisamente infantile: il titolo. Un titolo che
associo, per mia forma mentis, all’omonimo album di Bruce Springsteen, sottovalutato capolavoro
folk registrato con il solo l’ausilio di armonica e chitarra acustica, e fondamentale, all’interno della
sua discografia, per il suo fare da spartiacque tra il “working class hero” che era lo Springsteen delle
origini e il rocker mainstream in cui egli si trasformò negli anni successivi.
Anche la promessa del
bianco e nero, con il quale è stato girato questo film, ha un collegamento con l’album,
quell’emozionante bianco e nero che il boss scelse per copertina del disco come ideale sfondo per
storie cupe, di dolore, morte e solitudine viste attraverso la lente delle piccole città rurali del
Midwest americano. Ecco, si tratta di uno dei rari casi in cui si può dire, senza timore di essere
smentiti, che un libro (un album, in questo caso, e, per estensione, un film) si può giudicare dalla
sua copertina: storie che ci portano nelle grandi pianure, verso una terra promessa che è sì lontana,
ma non pare così irraggiungibile. Sono storie di persone che hanno perso tutto, anche la propria
anima, persone tradite dalla natura illusoria del "sogno americano”, con qua e là lampi di speranza
che brillano come squarci tra le nuvole, per poi troppo spesso finire inghiottite da una pioggia
battente.
