Gli anni 50 e 60 del secolo scorso furono testimoni di cambiamenti epocali per il mondo in generale e per il cinema in particolare. Ci eravamo appena lasciati alle spalle gli anni bui del secondo conflitto mondiale, i paesi erano frantumati, lacerati, la situazione economica era tra le più disastrose e tuttavia, in questo scenario, erano ancora i sentimenti di speranza e riscatto che tenevano i nostri padri attaccati alla vita. Il cinema, dal canto suo, non poteva che essere lo specchio di quell’epoca. Mentre in Italia si andava affermando il cinema neorealista dei Fellini, dei Visconti, dei Rossellini e dei De Sica, in Francia si respirava aria di Nouvelle Vague, quella degli Chabrol, dei Godard, dei Rohmer e dei Truffaut. La condizione delle classi disagiate era il tema ricorrente: chi non ha mai sentito almeno nominare Ladri di biciclette, Roma città aperta o Riso amaro? Ambientazioni familiari, istantanee di paesi resi poveri e desolati che però riuscirono a catturare in pieno la vera anima delle cose. Anche in Giappone si stava sviluppando un fenomeno simile a quello europeo. La Nuberu Bagu (ヌーベルバーグ, new wave) fu una corrente cinematografica che partiva dagli stessi presupposti ma che si sarebbe evoluta in una forma decisamente più critica nei confronti del sistema costituito. Tra i suoi protagonisti più noti è impossibile non citare Nagisa Oshima (Ecco l'impero dei sensi) e Shohei Imamura (The Insect Woman), quest’ultimo recensito su questo blog più o meno un anno fa. Fu proprio nell’ambito della Nuberu Bagu che si fece strada un giovane regista allora sconosciuto, Hiroshi Teshigahara (勅使河原 宏, 1927-2001).
Visualizzazione post con etichetta Kōbō Abe. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Kōbō Abe. Mostra tutti i post
giovedì 13 settembre 2012
venerdì 26 agosto 2011
Face of Another
Etichette:
Cinema,
Giappone,
Hiroshi Teshigahara,
Kōbō Abe
“I am buried alive.”. Così dice Okuyama, il protagonista di “The Face of Another” (他人の顔, Tanin no kao, 1966), nei primi minuti del film.
Si riferisce al fatto che è costretto a portare perennemente delle bende sul viso per nascondere le ustioni che lo deturpano, causate da un non meglio precisato incidente sul lavoro.
Anche fuori contesto, come affermazione è molto forte. Sarà per questo che mi è rimasta in mente più di altre. Come forse la maggior parte delle persone di aspetto “normale”, non avevo mai riflettuto veramente su cosa può voler dire avere il volto sfigurato. Ovvero non avere più un volto e sentire il bisogno di nascondersi dagli sguardi altrui. È il viso che volgiamo al mondo, quindi ci identifichiamo nel nostro viso e il viso, inutile negarlo, è la prima cosa che guardiamo nel prossimo e che ci fa decidere all’istante se una persona ci piace o meno.
Iscriviti a:
Post (Atom)