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mercoledì 15 settembre 2021

White: Melody of Death

Il tema della melodia maledetta non è affatto una novità, e mi viene quasi da dire che è vecchio quanto la musica stessa. Nonostante ciò il lato oscuro della musica è sempre affascinante e non sorprende che, a cadenze regolari, ritorni a entusiasmare tutti gli appassionati del bizzarro e dell’inspiegabile. 
Proviamo a fare un po’ di storia: capostipite di una lunga serie di melodie maledette è stata indiscutibilmente la celebre ballata "Gloomy Sunday" (Szomoru Vasarnap) che il compositore ungherese Rezso Seress scrisse in un momento di grande depressione. Il suo lavoro era in gran parte ignorato dall'industria musicale, la sua carriera era destinata al fallimento e la donna che amava lo aveva abbandonato. E così, seduto al pianoforte, perso nella disperazione, iniziò a pigiare oziosamente sui tasti e inciampò nella melodia che sarebbe diventata il suo capolavoro. Ma poi iniziarono i suicidi. A centinaia. I corpi di molti di essi furono trovati che ancora stringevano lo spartito della canzone, altri furono trovati con la melodia che saltava all'infinito su un giradischi. Tutti, in poche parole, si tolsero la vita lamentando di non riuscire a togliersi la canzone dalla testa. Leggenda metropolitana? Forse. 

giovedì 7 maggio 2020

The Flu

No, tranquilli, non userò il termine "profezia" in questo post: primo perché ne ho abbastanza di tutti questi novelli Nostradamus che cercano lustro in questa apocalisse, e, secondo, perché di profetico in questo film coreano del 2013 c'è in realtà ben poco, a parte le mascherine sul naso. Ad ogni modo, se state cercando un film a tema pandemico con il quale trastullarvi sul divano, e avete già esaurito la visione degli ovvi "Incubo sulla città contaminata" e "La città verrà distrutta all'alba", non vi resta che rivolgere il vostro sguardo a Oriente, culla di ogni sana pandemia del nuovo millennio.
Certo, stavo riflettendo poco fa, di coreano in questo film c'è ben poco, al di là della location: se non fosse per un cast dai tratti somatici inequivocabilmente asiatici, "The Flu" avrebbe potuto benissimo essere scambiato per un prodotto della nuova Hollywood, talmente esagerati sono i suoi livelli adrenalinici. Ciò a dimostrazione del fatto che il cinema coreano, ma anche quello di altri paesi, può facilmente eguagliare Hollywood, o addirittura superarla, quando i mezzi e le idee lo permettono.

venerdì 24 marzo 2017

La vegetariana

«Ho fatto un sogno» dice Yeong-hye, e da quel sogno di sangue e di boschi scuri nasce il suo rifiuto radicale di mangiare, cucinare e servire carne, che la famiglia accoglie dapprima con costernazione e poi con fastidio e rabbia crescenti. È il primo stadio di un distacco in tre atti, un percorso di trascendenza distruttiva che infetta anche coloro che sono vicini alla protagonista, e dalle convenzioni si allarga al desiderio, per abbracciare infine l’ideale di un’estatica dissoluzione nell’indifferenza vegetale. La scrittura cristallina di Han Kang esplora la conturbante bellezza delle forme di rinuncia più estreme, accompagnando il lettore fra i crepacci che si aprono nell’ordinario quando si inceppa il principio di realtà – proprio come avviene nei sogni più pericolosi. 

Quella che avete appena letto è la sinossi di “Chaesikjuuija”, romanzo del 2007 dell’autrice coreana Han Kang pubblicato da Adelphi nel 2016 con il titolo “La vegetariana”. Non è un argomento nuovo per il blog, quello di “Chaesikjuuija”, visto e considerato che già in tempi non sospetti, quando Obsidian Mirror aveva da poco aperto i battenti, pubblicai una (acerba) recensione dell’adattamento cinematografico che ne fece il regista coreano Lim Woo Seong due anni dopo la prima edizione coreana del romanzo. Quando vidi quel film, senza nemmeno sapere che vi fosse un romanzo alle spalle, pensai che accostare il vegetarianismo alla schizofrenia fosse un passo falso, un clamoroso scivolone del regista, ma ora mi rendo conto che è proprio quel presupposto a fornire alla storia una profondità del tutto particolare.

giovedì 1 settembre 2016

The Ring Virus

Sembra quasi ieri che questo lunghissimo speciale su Ring era stato messo in pausa. Sono passati invece quattro lunghi mesi, quattro mesi durante i quali siamo passati dal freddo al caldo più insopportabile a temperature di nuovo accettabili, almeno qui da me. Se fossimo in una serie televisiva, a questo punto ci starebbe bene un riassunto delle puntate precedenti, ma visto che qui non facciamo televisione, e visto che i post precedenti all’occorrenza sono facilmente recuperabili, direi che possiamo senz’altro saltare a pie’ pari tutti i convenevoli, con la sola raccomandazione, qualora ve ne fosse bisogno, di fare mente locale su tutto quanto è già stato detto e su quanto ci eravamo ripromessi di andare a dire. 
Nell’ultimo articolo della prima serie avevamo dedicato poche parole a quello che, per quello che ci era allora dato di sapere, rappresentava uno dei capitoli più anomali dell’intera saga. Il sequel “apocrifo” (il virgolettato è necessario) fu girato appena dopo la prima versione di Hideo Nakata e rappresentava (o avrebbe voluto rappresentare) la trasposizione cinematografica del secondo romanzo di Kōji Suzuki, vale a dire “Spiral”, che di “Ring” (ovvero del cerchio) rappresenta una delle possibili evoluzioni, non ultima quella geometrica. A differenza del sequel ufficiale, come avevamo visto, in Spiral la videocassetta cessava improvvisamente di essere essenziale nell’economia della vicenda. Era risultato ben presto evidente, senza doversi inoltrare nuovamente nella questione, che il titolo del film (ma anche, sottolineamolo, del romanzo) fosse un chiaro riferimento alla genetica e, nello specifico, alla struttura a doppia elica del DNA: se era questo lo sviluppo che aveva previsto lo scrittore giapponese, allora ci vediamo costretti a rivedere sotto una diversa luce tutto quanto è emerso nei lungometraggi che abbiamo già analizzato, vale a dire nel secondo Ring di Nakata e in Ring 0  (immaginato come un prequel) di Norio Tsuruta.

mercoledì 15 aprile 2015

La componente sciamanica

Oggi la presenza di spiriti, soprattutto femminili, nella cinematografia orientale è un fatto assodato, ma ai più sembra che si tratti essenzialmente di una moda nata in Giappone e da lì diffusasi ai paesi limitrofi. La realtà è però un’altra. Ogni paese ha la sua peculiare fenomenologia in fatto di apparizioni e i fantasmi tipici della Corea, effettivamente, sono in prevalenza femminili. Perché?
È presto detto: nel Confucianesimo, una delle dottirne storiche della Corea, l'esistenza stessa della donna è considerata inferiore a quella dell'uomo (concetto ben esemplificato dal famoso detto “Nam-Chun-Yeo-Bi” che significa “importante l'uomo, insignificante la donna”). Le donne coreane sono sempre state discriminate da una società maschilista fino al midollo e questo spiega sia il carattere essenzialmente femminile dello Sciamanesimo (la religione degli oppressi) sia l’abbondanza di fantasmi femminili afflitti dal Han.
Lo Sciamanesimo di cui stiamo parlando è particolarmente interessante in quanto, a differenza di quello classico, nella penisola coreana è praticato in gran parte dalle donne. In senso lato lo Sciamanesimo si basa sul concetto che tutte le risposte ai mali della nostra società risiedono da qualche parte nell’aldilà, e che solo persone estremamente dotate possono azzardarsi a superare il ponte tra i due mondi e riuscire a tornare. Sono le donne, in Corea, la vera e unica via di collegamento, un ponte, tra quelli che possiamo definire avvenimenti terreni e gli spiriti ultraterreni. Questione di sensibilità, probabilmente, o di maggiore predisposizione, o quello che volete.

venerdì 10 aprile 2015

Educazione coreana

Mentre i fotogrammi di Whispering Corridors scorrono davanti agli occhi, difficilmente si può fare a meno di chiedersi se quello che a cui si sta assistendo sia realistico. Non sto parlando di spettri o di altri situazioni tipiche dell’horror, bensì di tutto il contorno, dell’ambientazione e del modo nel quale quest’ultima viene descritta. Tutto è girato all’interno di una scuola. Mattina, pomeriggio, sera, notte, sembra che gli studenti trascorrano l’arco delle ventiquattro ore interamente tra le mura dell’edificio scolastico. Gli studenti non sembrano avere altri interessi nella vita, non sembrano nemmeno avere una casa, né una famiglia. Dove cavolo sono i genitori? Dove sono le attività extrascolastiche tipiche degli adolescenti che conosciamo noi (e che eravamo noi)? Perché nessuno sembra stupirsi se gli studenti si trattengono a scuola e non rientrano a casa nemmeno al calar della sera? La risposta è molto più semplice di quanto non si possa immaginare: la vita dei giovani coreani è davvero tutta lì. Niente e nulla di più di ciò che si vede nei cinque film della serie. Scuola, scuola e ancora scuola. Sembra strano? Allora facciamo un passo indietro.
Il primo capitolo della pentalogia dedicata ai Whispering Corridors, datato 1998, fu il prodotto di un periodo di grandi cambiamenti in Corea del Sud, cambiamenti che iniziarono solo pochi anni prima con l’elezione del presidente Kim Young-sam, a capo del primo governo civile del paese dai tempi del colpo di stato militare del 1961.

venerdì 31 ottobre 2014

Violoncello

Il destino ha due modi per distruggerci, negare i nostri desideri o realizzarli. (Henri-Frédéric Amiel) 

Nell’attesa che le prime ombre della sera si allunghino sulla città, nell’attesa che la notte più spaventosa dell’anno scenda e colga in fallo voi ignari lettori del blog, il vostro Obsidian Mirror tamburella freneticamente le dita sulla tastiera del computer per proporre il proprio menù di Halloween. Davvero pensavate che me ne fossi dimenticato quando avete letto il titolo del post di oggi nel vostro blogroll? Ebbene spero che adesso siate sollevati, perché “violoncello” è la mia proposta odierna per trascorrere in “pace” e “serenità” la vigilia di Ognissanti.
Per l’occasione ci spostiamo in Corea del Sud, uno dei paesi più prolifici per quanto riguarda la nuova frontiera dell’horror cinematografico. Un cinema, quello coreano, che deve sicuramente molto alla più antica tradizione horror giapponese, ma che tuttavia, negli ultimi dieci anni, ha saputo differenziarsi concentrandosi sulla sofferenza e sull'angoscia dei personaggi piuttosto che sull’ormai sdoganato cliché del fantasma vendicativo vestito di bianco e dai lunghi capelli corvini.
Prima che qualcuno me lo faccia notare, mi affretto a precisare che un fantasma vendicativo, vestito di bianco e dai lunghi capelli corvini, lo troviamo anche in questo “Cello” (첼로), e ci regala delle sequenze da brivido, alcune perfino abbastanza originali, ma, come vedremo tra poco, non è questo il punto.

giovedì 20 settembre 2012

Scarpette rosse

Danzerai con le tue scarpette rosse fino a che non diventerai come un fantasma, uno spettro, finché la pelle non penderà sulle ossa, finché di te non resteranno che visceri danzanti. Danzerai di porta in porta per tutti i villaggi, e busserai tre volte a ogni porta, e quando la gente ti vedrà, temerà per la sua vita.
Da bambino, come tutti i bambini, amavo le storie. Le amavo così tanto che non mi accontentavo di sentirne soltanto una la sera prima della buonanotte, e fu questo che convinse ben presto i miei genitori a comprarmi dei 45 giri con favole e fiabe di ogni tipo, e naturalmente un giradischi a supporto.
Ebbene, da bambino avevo questo giradischi rosso, di quelli con la maniglia e i buchetti sopra che ora si trovano solo nei mercatini dell’usato, simboli impolverati del tempo che fu, e che quando li vedo mi viene una nostalgia feroce per la mia infanzia. In seguito non avrei mai più avuto dei giradischi, ma soltanto degli impianti stereo… perché la lingua nel corso degli anni si è evoluta almeno quanto la tecnologia. 
Il mio giradischi rosso aveva due rotelline sul davanti, una per regolare il volume, l’altra per regolare i toni (che non ho mai capito bene cosa volesse dire); era dotato di cavo, ma funzionava anche a pile, così potevo portarlo con me ovunque, all’occorrenza anche in cortile. Avevo anche della musica, generalmente cose da bambini, tipo Rita Pavone e Cochi e Renato, ma avevo anche Iannacci, Gaber e molto altro che ormai faccio fatica a ricordare.

mercoledì 11 aprile 2012

Vegetarian

A Human Being - Actually Was A Flower

Vegetariano io? Ma nemmeno per scherzo. Toglietemi tutto ma non la mia bistecca. Avete un dubbio sul livello di cottura che desidero? Portatemela e a tutto il resto ci penso io. Perché quindi sto per recensire un film dal titolo così lontano dal mio essere? Semplicemente perché non si tratta di un film che esalta i benefici del vivere vegetariano. Tutt'altro. E' un inquietante ritratto del vegetarianismo inteso come malattia.
Si, sarà sconvolto chi è vegetariano e ci crede davvero, ma ho proprio detto "malattia". Si, lo so benissimo che il vegetariano è meno soggetto ad alcune tra le malattie più brutte del mondo, quali infarti, tumori o diabete (per non parlare dell'obesità). Purtroppo però il punto debole di questo film (l'unico punto debole, sottolineo) è nella completa sovrapposizione dei concetti di vegetarianismo, anoressia e schizofrenia. C'è qualcun'altro che la pensa così?
Cara sorella, ho sentito una voce chiamarmi... e allora l'ho seguita. Ma proprio quando stavo per raggiungerla... è scomparsa. Allora sono rimasta lì, aspettando che tornasse. Il mio corpo si stava sciogliendo nella terra... a causa della pioggia. Non avevo alcuna scelta, se non... rinascere dalla terra.

domenica 21 agosto 2011

Hwaseong Murders

Tra le migliaia di serial killers che si sono avvicendati su questo mondo, spargendo sangue e terrore un po' ovunque nei cinque continenti, le imprese di uno in particolare sono ancora avvolte nel mistero. Non solo perché lo stesso caso è rimasto irrisolto ma anche perché sul web non vi si trovano che pochi brevi accenni.

Il "Thursday Night Killer", anche conosciuto come "Rainy Night Killer", (proprio perché colpiva solo di giovedì, e solo nelle notti di pioggia) iniziò la sua carriera omicida nell'ottobre del 1986 e proseguì indisturbato il suo macabro lavoro fino all'aprile del 1991, lasciando dietro di sè 9 vittime, tutte donne, scegliendole apparentemente a caso (spaziava dalle adolescenti alle anziane). L'unico collegamento tra le vittime sembra fosse il loro abbigliamento: si dice che tutte indossassero qualcosa di rosso (ma forse questo particolare è più una leggenda metropolitana che un fatto documentato).

martedì 17 maggio 2011

A Devilish Murder

Un uomo di nome Shi-mak visita una galleria d’arte per vedere una mostra, ma quando arriva trova i muri vuoti e gli spazi deserti. Un custode di passaggio lo informa che la mostra è finita, ma in quel momento scorge un singolo dipinto a olio, appeso a un muro d’angolo. Si ferma di colpo: è il ritratto della moglie morta.

Con questo agghiacciante incipit veniamo introdotti da Yongmin Lee, considerato giustamente il più importante regista horror del cinema coreano degli anni Sessanta, nel film capolavoro “A Devilish Murder”, anche conosciuto con il titolo di “A Bloodthirsty Killer”, il cui titolo originale è “Salinma” (살인마)

Il modello è quello classico del cinema horror coreano (ma anche del cinema asiatico in generale): la storia di una donna ingannata, tradita e uccisa che torna come fantasma a esigere la propria vendetta.

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