I tempi moderni sembrano aver trasformato la passione per la buona tavola in mania, rendendo il cucinare un affare
pubblico, come quasi ogni altra cosa, da svolgersi davanti a una platea di commensali o di spettatori paganti, includendo
nella disamina programmi di cucina come quelli di Food Network, “I menù di Benedetta” o “La Prova del Cuoco”,
sfide tv come “4 ristoranti” e talent show in stile “Hell’s Kitchen Italia” e “MasterChef”. Non essendo un appassionato
di cucina, ed essendo anzi bravo a cuocere più che a cucinare, non comprendo l’attrattiva di questo tipo di programmi, a
parte l’essere una vetrina per i partecipanti o i conduttori. De gustibus!
So però che i reality show, come il menzionato
“Hell’s Kitchen Italia”, sono fondati sulla cultura tossica dell’insulto, lo sprone più utilizzato dagli chef: il desiderio di
emergere, lo stress di dover superare delle prove, la paura del giudizio (in certi casi anche del pubblico in studio o al
televoto) e delle eventuali penalità o punizioni sottopongono i concorrenti a una fortissima pressione psicologica. So
anche che da sempre cinema e tv sono lo specchio della società, quando non ne anticipano i moti, per cui non è
sorprendente che anche i film e le serie tv ambientate nel mondo della ristorazione siano cresciuti in modo esponenziale,
come non è casuale che uno di quelli che più spinge l’acceleratore nel mostrarne il lato oscuro, l’horror “The Menu”
(Mark Mylod, 2022), sia ambientato in un locale in cui la cucina è aperta, e quindi i clienti possono non solo assistere in
diretta alla preparazione dei piatti, ma perfino averne una dettagliata presentazione dallo stesso chef, Julian Slowik.