lunedì 30 novembre 2020

Confessioni di una maschera #7

Solo qualche settimana fa, scrivendo quel mio post dedicato al centesimo anniversario della nascita di Bukowski, mi lasciai andare al ricordo di quei tanti piccoli lavoretti malpagati che in un certo senso hanno rappresentato la mia iniziazione al "mondo dei grandi", al mondo di chi, come me (e non ero certo il solo), cercava oltre la porta di casa un modo per fare fronte alle proprie spese. Che poi non è che avessi così tante spese, a parte qualche disco, qualche libro, sporadicamente un ingresso al cinema o in discoteca, una birra se capitava e un poco di benzina ogni tanto. Detto così non sembra neanche poco, considerando che la paghetta settimanale era quella che era, ma con grande attenzione, eliminando il superfluo, riuscivo a sbarcare il lunario. Mi ero diplomato nell'estate del 1986, il militare ero riuscito a smarcarlo e ciò che si prospettava davanti a me era un periodo di noia totale nell'attesa del mitologico lavoro a tempo indeterminato. Quel periodo durò poco meno di due anni, ma a me sembrarono, e sembrano ancora quando ci penso, un'eternità. Eppure di cose incredibili ne ho fatte parecchie in quel lasso di tempo. E allora perché, mi dico, non provare a raccontarle nella rubrica “Confessioni di una Maschera”? E così eccomi qua.

martedì 24 novembre 2020

Figure nel salotto

Ho appena voltato l'ultima pagina di questo libro e mi precipito a scriverne di getto, come un fiume in piena che aspetta l'indispensabile sbocco sul mare, dopo la prossima ansa, o quella dopo ancora. Non so ancora dove mi porterà la tastiera di questo computer, ma battere freneticamente su questi tasti di plastica è un po' come far vibrare delle lamiere di acciaio, una specie di cerimoniale primitivo volto a far passare  il temporale, a costringere la natura a richiudersi a guscio su se stessa, placando i suoi ardori, ammansendosi e in un certo senso proteggendosi. 
Vi siete mai soffermati ad ammirare un quadro? No, non parlo di quelli esposti ai musei, eredità di artisti troppo grandi per essere retrocessi a oggetto di esperimento. Mi riferisco a quei quadri di autori in genere ignoti che facevano capolino sulle pareti delle abitazioni dei nostri genitori o dei nostri nonni, quadri insignificanti ma allo stesso tempo essenziali in quegli ambienti domestici così familiari. A casa mia, dei miei genitori, ce n'era uno, un paesaggio con case, una crosta di quelle che si trovano ai mercatini per quattro lire. Non era certamente un capolavoro, ma sicuramente l'anonimo pittore si era impegnato parecchio nell'arricchirlo di particolari, particolari sui quali io passato intere ore e mi ci perdevo, sognavo di entrare in quel paesaggio, di farne parte, di scoprire il mondo che c'era dietro ognuna di quelle minuscole finestre, di scoprire cosa si nascondesse dietro l'ultima ansa del fiume sullo sfondo, che piegava dietro una roccia e spariva alla vista con la complicità della cornice.

mercoledì 18 novembre 2020

Orizzonti del reale (Pt.28)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Se si eccettua una piccola parentesi letteraria e cinematografica che è già scritta e pronta per essere pubblicata, il mio omaggio a Leary doveva terminare la volta scorsa. Tuttavia, tempo fa il buon Etrusco mi ha fatto riflettere sul fatto che ad alcuni di voi potrebbe interessare sapere qualcosa di più sulla sua dipartita. La sua morte annunciata fu un vero e proprio avvenimento mediatico, l’ennesimo della sua vita: attesa, strombazzata, e infine falsata e usata per fare sensazionalismo. Ma andiamo con ordine.
Come detto la scorsa volta, Leary fu testimone della nascita della cultura cibernetica e ne fu entusiasta (il suo libro “Caos e cibercultura” del 1994 è piuttosto famoso); ciò che forse non tutti sanno è che egli non solo si interessò di realtà virtuale fondando una Software House (la Software House Futique Inc., che sviluppò tra gli altri il videogame Mind Mirror, oggi di pubblico dominio), ma fu uno dei promotori della fantascienza Cyberpunk e socio, dal 1988, di due organizzazioni criogeniche: fu la prima celebrità ad aderire alla Alcor (Alcor Life Extension Foundation), fondata nel 1972 e tuttora in attività, per poi passare alla CryoCare.

giovedì 12 novembre 2020

La ruggine ha l'odore del sangue

Kanji Nakajima. Tra quella schiera di film che potrei rivedere un milione di volte senza la certezza di aver afferrato la loro vera essenza, i suoi sono al primo posto. Il suo non è obiettivamente un cinema di facile comprensione, ma non si può dire che sia del tutto ermetico o, peggio, astruso, dunque la colpa dev’essere mia. Proverò comunque a riordinare i pensieri, a metterli nero su bianco perché anche voi, se già non lo conoscete, possiate apprezzare i lavori di questo grande e misconosciuto regista.
Tra i suoi primi due film, “Iron” (Fe, 1994) e “The box” (Hako, 2003), ci sono diversi punti in comune che un po’ tutti hanno notato; spesso, infatti, li ho visti recensiti assieme. Il primo di questi è che sarebbero entrambi parabole ecologiste, in cui la tecnologia si contrappone alla natura e apporta desolazione, ma ai miei occhi i paesaggi ibridi di Nakajima, in parte naturali e in parte artificiali, possiedono una propria strana bellezza.
Abbiamo, all’apparenza, due trame piuttosto semplici e con uno sviluppo breve. In “Iron”, ogni giorno un anziano pittore si sistema di fronte a una fabbrica allo scopo di realizzare il suo ultimo dipinto, e ogni giorno la sua tela rimane bianca. L’uomo attende infatti da tempo immemorabile un’epifania che gli restituisca l’ispirazione perduta.

venerdì 6 novembre 2020

Orizzonti del reale (Pt.27)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Secondo la versione ufficiale, il Bureau aveva già agenti dislocati in Afghanistan per investigare sul traffico di droga che la Confraternita conduceva nel paese (esportando acido e importando hashish), e stava tenendo d’occhio le carte di imbarco e di sbarco di tutti i cittadini americani, e fu così che scoprì la destinazione di Leary ben prima del suo arrivo. Il Bureau sapeva bene che poiché l’Afghanistan, come la Svizzera, non aveva mai firmato un trattato di estradizione con gli USA, se il fuggiasco fosse riuscito a sbarcare sul suolo afghano non avrebbe più potuto rimpatriarlo, perciò quando l’aereo atterrò all’aeroporto di Kabul prese in consegna Leary e la sua compagna mentre si trovavano ancora fisicamente a bordo; in seguito, proprio per via di questo escamotage, il suo avvocato parlerà di “sequestro” e cercherà inutilmente d’invalidare l’arresto. 
Secondo un’altra versione, i due riuscirono invece a sbarcare a Kabul, ma vennero presi in consegna da alcuni dipendenti dell’Ambasciata travestiti da agenti dell’immigrazione e portati in quello che dissero essere il quartier generale della polizia, dove gli vennero confiscati i passaporti. Confinato in un hotel con la compagna per alcuni giorni, Leary chiese l’assistenza di un legale e la restituzione dei passaporti, ma gli venne detto che questi erano ormai in possesso delle autorità americane e che la sua presenza nel paese non era gradita. 
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