giovedì 12 novembre 2020

La ruggine ha l'odore del sangue

Kanji Nakajima. Tra quella schiera di film che potrei rivedere un milione di volte senza la certezza di aver afferrato la loro vera essenza, i suoi sono al primo posto. Il suo non è obiettivamente un cinema di facile comprensione, ma non si può dire che sia del tutto ermetico o, peggio, astruso, dunque la colpa dev’essere mia. Proverò comunque a riordinare i pensieri, a metterli nero su bianco perché anche voi, se già non lo conoscete, possiate apprezzare i lavori di questo grande e misconosciuto regista.
Tra i suoi primi due film, “Iron” (Fe, 1994) e “The box” (Hako, 2003), ci sono diversi punti in comune che un po’ tutti hanno notato; spesso, infatti, li ho visti recensiti assieme. Il primo di questi è che sarebbero entrambi parabole ecologiste, in cui la tecnologia si contrappone alla natura e apporta desolazione, ma ai miei occhi i paesaggi ibridi di Nakajima, in parte naturali e in parte artificiali, possiedono una propria strana bellezza.
Abbiamo, all’apparenza, due trame piuttosto semplici e con uno sviluppo breve. In “Iron”, ogni giorno un anziano pittore si sistema di fronte a una fabbrica allo scopo di realizzare il suo ultimo dipinto, e ogni giorno la sua tela rimane bianca. L’uomo attende infatti da tempo immemorabile un’epifania che gli restituisca l’ispirazione perduta.
Il paesaggio è dominato dal perenne rumore metallico dei pistoni e delle turbine e dal fumo che dalle ciminiere arriva fino al cielo; una parte dell’edificio è abbandonata e rottami arrugginiti sono sparsi tutto attorno. In “The box” abbiamo invece un artigiano che, superata abbondantemente la soglia della terza età, continua a riparare le macchine e a crearne di nuove ascoltando i desideri dei minerali grezzi, sue materie prime, e cercando di trasformarli secondo il loro desiderio. Una delle sue creazioni, una sorta di valigia quadrata senziente, vaga seguendo la direzione di un binario morto come una volontà caparbia che non vuole cedere, che non vede confini.

The box (Hako, 2003)
Da un lato abbiamo dunque il gigante di metallo incombente di “Iron”, dall’altro, in “The box”, un mondo che pare già aver raggiunto un successivo stadio di decadimento, intrappolato in una sorta di quinta stagione in cui le piante hanno vita breve (significativa quindi la scelta di Nakajima di sostituire i verdi e marroni smorzati di “Iron” con il bianco e nero del suo film successivo). Se pensiamo che nulla è eterno, giacché persino i metalli si ossidano e si arrugginiscono e perfino i fiori artificiali possono appassire (!), il pessimismo sembra farsi cosmico. Non è neppure un caso che entrambi i protagonisti abbiano raggiunto un’età avanzata, quella in cui la maggior parte delle persone perde o rinuncia alle proprie aspirazioni e a un ruolo attivo nella società. L’agonia della natura, dunque, ha un parallelo nella vecchiaia e nella morte, personale e dell’intera razza umana, ma ancor prima nell’agonia e nella morte della creatività. Il pittore, infatti, afferma che “si deve essere in grado di vedere prima di dipingere”.
Proprio alla luce di quest’ultima affermazione occorre pertanto domandarsi se ricercare un ulteriore livello di lettura che trascenda quello ecologista, dato che nella mentalità giapponese la perdita dei paesaggi è accomunata a una vera e propria perdita della memoria, come nel caso di quella sorta di oscuramento delle coscienze che sembrò colpire i giapponesi durante (e dopo) l’accelerato processo di industrializzazione, spesso selvaggia, che culminò nella ricostruzione post-bellica e mutò per sempre il volto del paese.

Una devastazione che a ben vedere però (spero mi perdonerete questa piccola digressione, non del tutto irrilevante per il tema del post) diede almeno un buon frutto, quel movimento noto come Fûkeiron o “politica e poetica del paesaggio” senza il quale anche la storia della settima arte sarebbe un pochino diversa (nel cinema, aderire al Fûkeiron significa dare più rilevanza al paesaggio che ai personaggi del film, anche nel senso fisico di orientare la telecamera in prevalenza verso il paesaggio o, se volete, raccontare i personaggi tramite i paesaggi in cui questi hanno vissuto. A teorizzarlo, se non ricordo male, Masao Adachi, regista e sceneggiatore, fra gli altri, per Wakamatsu e Ôshima).
Date le premesse sembrerebbe che non vi sia alcuna speranza nella visione di Nakajima, e invece essa c’è, sebbene non consista affatto, come si potrebbe pensare, in un ritorno al passato o a una natura “primitiva” e incontaminata. Almeno simbolicamente, i due artisti sul viale del tramonto hanno dei discendenti cui consegnare quel mondo in cui carne e metallo sono ormai così inestricabilmente intersecati. In “Iron” una bambina osserva ogni giorno il pittore ed è forse lei a preconizzare la delicata pioggia di petali che infine arriva a segnare la dipartita dell’uomo, riportando alla mente i versi immortali adottati dal Bushido, "Tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero", e il loro significato: la vita è il più meraviglioso dei doni, ma è effimera come la fioritura del ciliegio. Sembra che lo spirito del pittore sopravviva in lei, e negli ancor grezzi disegni in gessetto con i quali decora l’asfalto e i relitti arrugginiti. Quanto a “The box”, per tutta la vita l’artigiano ha dialogato con le pietre: con esse ha creato prodotti tecnologici ad uso umano ma anche, ad esempio, dei generatori con cui ricaricare gli alberi “esausti” (non si parla in genere di pile esauste? Ecco un’altra cosa su cui meditare), ma è afflitto dalla consapevolezza di non essere mai riuscito a esaudire pienamente i loro desideri. Eppure, dove lui ha fallito un altro riuscirà; senza saperlo né programmarlo, al solo scopo di dare sepoltura alla scatola che inavvertitamente ha rotto, un giovane metterà in moto un processo di (ri)creazione del paesaggio, sebbene "futuristico", in cui l'innesto del metallo nella terra è il viatico per nuove forme di vita. È emblematico che, in un ideale passaggio del testimone, non sia il vecchio artigiano a operare il rimboschimento, bensì un'altra persona a cui l’uomo, sapendo la sua fine prossima, pare “trasmigrare” la sua volontà, la sua sapienza e la sua passione.

Ma l’excursus sul cinema di Nakajima non sarebbe completo se non parlassi anche di “The clone returns home” (Kurôn wa kokyô wo mezasu, 2008), che ho lasciato per ultimo non solo perché è la sua opera terza, ma anche perché è il più struggente e il più bello dei suoi film (oltre che il più articolato, come dimostra anche la sua durata di quasi due ore contro i settanta minuti scarsi degli altri due). Anzi, personalmente non esito a dire che si tratta di uno dei più bei film degli ultimi dieci anni: non solo è così pregno di significato che ho tentennato a lungo fra il desiderio e il timore di parlarne, ma anche visivamente è notevole, con una messa in scena a dir poco perfetta, il predominio di grigi e verdi spenti e la colonna sonora che, più che riempire, sembra svuotare le scene (non so se mi sono spiegato).
Siamo in un futuro non meglio precisato. Il protagonista è un astronauta a cui viene offerta, quale “assicurazione” sulla vita, la possibilità di tornare in vita come clone in caso di decesso, i suoi ricordi e la sua personalità trasfusi in un nuovo corpo da restituire alla moglie e alla madre malata. Nella mente del suo superiore, questo sarebbe il primo passo per offrire l’immortalità all’umanità intera. Un incipit che potrebbe offrire lo spunto per parlare dell’impatto sociale di una tale tecnologia (tema che infatti viene sfiorato), ma non è questo che interessa al regista.
Forse colto da una sorta di oscuro presentimento l’astronauta, Kohei, accetta, e tempo dopo effettivamente muore durante una missione. Dal suo materiale genetico vengono creati ben due cloni, ma l’esperimento si rivelerà un fallimento. Perché un clone non nasce solo con il bagaglio della nostra memoria, ma anche delle nostre sofferenze, e quello di Kohei è particolarmente ingombrante: la tragica morte del suo gemello Noboru, avvenuta quando erano ancora bambini.

Per capire cosa accade dopo, bisogna tenere a mente la teoria dello scienziato che per primo, nel film, ha ideato il processo di clonazione, ovvero che quando una persona muore, se la sua anima percepisce che il corpo è ancora vivo non raggiungerà il Nirvana, ma cercherà di reintegrarsi in esso. Il clone sarebbe dunque una risonanza o un’eco dell’anima, un tema che (anche grazie all’uso del sonoro) attraversa tutto il film. Un tema che potrebbe facilmente portarci a quello delle frequenze, con tutte le derive filosofiche (e cosmologiche) del caso.
Il primo clone è ossessionato dal ricordo di Noboru: la sua memoria non riesce ad andare oltre quel momento. Non gli resta che fuggire dall’ospedale per fare l’unica cosa che per lui possa avere un senso, ovvero andare alla ricerca della vecchia e diroccata casa di famiglia dove tuffarsi in quel passato cui è così legato, benché in effetti non l’abbia mai vissuto. Il secondo clone, che all’inizio sembra non presentare lo stesso difetto di memoria, sentirà comunque il bisogno di tornare alle proprie origini, chiudendo così il cerchio.

The clone returns home (Kurôn wa kokyô wo mezasu, 2008)
È nel concetto espresso sopra che deve ricercarsi anche il senso delle immagini che mostrano il primo clone mentre porta sulle spalle la tuta spaziale di Kohei, misteriosamente ricaduta sulla terra dallo spazio, che appare ora piena ora vuota. Vedendo quelle immagini mi è tornato alla mente, come un’illuminazione, il finale di “Shutter” (2004), in cui le spalle e la schiena del protagonista sono incurvate dall’invisibile presenza del fantasma della sua vittima. L’anima del Kohei originale grava sul suo primo clone, e si impossessa del secondo clone solo alla morte del primo.
Che cosa sono la vita, la morte, l’anima, l’identità, la memoria e la percezione sono domande che il regista pone ma a cui ovviamente non fornisce alcuna risposta. Ma il film esplora anche i temi del dolore e della colpa, della fragilità, del concetto di famiglia e di senso di appartenenza in modo originale e delicato, oltre a stimolare una riflessione sulle illusioni e la fallibilità umana. Inoltre, benché sia molto diverso dai primi due, anche il terzo lavoro di Nakajima ci pone di fronte alla rappresentazione del ciclo della vita e della morte e anche dell’evoluzione (se pure più nel senso di una re-volutio, cioè di un ritorno: in realtà, nulla si crea e nulla si distrugge mai per davvero).

Per concludere, devo ammettere che per quanto mi sforzi, la concezione di tutte le cose come parte di una matrice comune, animata, la comprendo più con la ragione che nelle mie cellule. Pensando a “Iron”, ad esempio, di primo acchito mi è venuto da chiedermi come mai, fra tanti luoghi, il pittore pensasse bene di mettere il cavalletto proprio di fronte a quel mostro di metallo. Nel film non ricordo paesaggi memorabili, ma possibile, mi dicevo, che da nessuna parte ci fosse una vista migliore? La risposta è giunta dopo circa quaranta minuti di film quando, toccando le pareti della fabbrica e alcuni dei rottami, il pittore afferma che il ferro arrugginito “ha l'odore del sangue” e che “quando una creatura muore, diventa fredda, ma il freddo metallo invece acquista calore”. Poiché le creature morte diventano fredde, se tutto quello che ti circonda emana calore è così strano pensare che in qualche modo sia vivo?
A me, riflettevo, appaiono diverse contraddizioni nell'era tecnologica, ma è evidente che per un orientale non ve ne sono o comunque non sono irrisolvibili. Dovrei ormai esserci abituato, ma non smetto di provare un senso di meraviglia davanti a tanta saggezza e gratitudine per Nakajima per avermela rammentata ancora una volta.

Iron (Fe, 1994)

13 commenti:

  1. Ok, "the clone returns home" me l'hai venduto.

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    1. Non è il classico film di fantascienza, quindi spero che non te ne
      pentirai! Grazie. :-)

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  2. L'ossessiva ricerca "paesaggistica" è un marchio di fabbrica del cinema giapponese in effetti, però in molti casi le pellicole che ho visto mi sono rimaste in mente solo per la fotografia mentre la trama mi è sembrata troppo sfumata (penso ai film di Kurosawa ma anche ad alcuni di Kitano)... Temo che i film di Nakajima mi farebbero lo stesso effetto...

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    1. Il cinema è sempre un'esperienza soggettiva, quindi devi essere tu a
      decidere se queste visioni sono o non sono nelle tue corde. Ti dico
      però che rispetto ai primi due film (che comunque ho visto almeno due
      volte a distanza di anni prima di apprezzarli davvero) "The clone..."
      ha un impianto molto più "classico", fermo restando che è comunque un
      film non facile e non immediato, e dal ritmo piuttosto lento, tutte
      cose da tenere bene a mente onde evitare una cocente delusione.

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  3. Non conosco, comunque il terzo film parrebbe personalmente interessante ;)

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    1. Se non ti spaventano i film un po' anomali e un po' lenti, potrebbe
      fare per te. Anche tematicamente si discosta dagli altri due quindi si
      può vedere tranquillamente da solo.

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  4. Come alcuni dei commentatori che mi hanno preceduto non conosco niente dei film che hai citato come nemmeno so nulla di Nakajima, però mi hai incuriosito molto su"The clone returns home". Il film mi può interessare.

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    1. So bene che Nakajima non è un nome molto conosciuto, anche per questo
      ho scritto questo pezzo. Il suo cinema (piaccia o non piaccia) non è
      privo di significato, non è solo un esercizio di stile, e secondo me
      valeva la pena parlarne.

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  5. Non conoscevo la corrente che citi, o meglio, non con il nome giapponese e come concetto conclamato.
    Il paesaggio può essere già un personaggio a sé, in effetti.
    Iron e The Box sembrano completarsi a vicenda. Dove manca l'arte, per un protagonista attempato, ci sono suoni metallici; dove c'è metallo, per un protagonista attempato, si trasforma in arte.
    Il film del clone è molto particolare, effettivamente si presta a interrogarsi su diversi aspetti.
    Etici e di vita.
    Il ciclo dove tutto si trasforma (anche se qui ha un che di religioso, per così dire) è argomento interessante, mi piace come è stato declinato... :)

    Moz-

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    1. Fruendo del cinema giapponese dell'era postbellica prima o poi si
      incappa nella definizione di Fukeiron, tuttavia credo che i giapponesi
      abbiano manifestato e dato il nome a un tipo di sensibilità (non solo
      cinematografica) che in teoria è trasversale, come reazione
      all'industrializzazione e alla massificazione massiccia ed
      esponenziale degli ultimi settant'anni. Direi più che religioso (non
      so molto di Nakajima) spirituale. Grazie di questo commento così
      attento e ispirato. :-)

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  6. Sarà che sto leggendo Red girls di Sakuraba Kazuki, ma Irori mi incuiosisce davvero parecchio. Per caso è ambientato negli anni Settanta?

    Anche The clone returns home mi ispira per l'ambientazione è per le idee che ci sono dietro la clonazione.

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    1. Il titolo originale è "Fe", che è il simbolo del ferro, e
      quello internazionale è semplicemente la sua traduzione:"Iron". Mi sa
      che usare il corsivo (e le virgolette) non è stata la scelta ideale, eh? ;-)
      Il film è ambientato in una sorta di futuro imprecisato, anche se
      alcuni elementi potrebbero far pensare il contrario. Ciao!

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    2. Mi era totalmente sfuggito. Iron in corsivo seguito da virgolette mi sembrava proprio Irori. Irori, in ogni caso, è una parola giapponese che indica un focolare infossato usato per riscaldare la casa e cucinare (grazie, Wikipedia).

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