Quando capita che ti ritrovi la sera a casa nel bel mezzo della settimana, si sono già fatte le dieci e mezza e il giorno dopo devi alzarti presto per andare a lavorare, le alternative sono tre: ti metti a cazzeggiare col telefono intossicandoti anima e corpo in un'attività che non porta da nessuna parte, ti rifugi al cesso e ti metti davanti allo specchio alla ricerca di invisibili punti neri oppure, scelta preferita, ti metti a frugare nei tuoi "archivi" alla ricerca di un cortometraggio che ti accompagni verso un'ora più consona per andarsi a coricare. Ci sarebbe anche l'alternativa di mettersi a leggere o a scrivere qualcosa per il blog, che è ciò che sto facendo in questo momento, ma la sera di cui vi sto parlando è un'altra e risale a un periodo ormai imprecisato dello scorso anno.
Ciò che venne fuori da quella ricerca serale fu un cortometraggio di appena 26 minuti il cui titolo e la cui locandina avevano, in un tempo di molto precedente, già attirato la mia attenzione per una certa dose di "singolarità" che mi aveva trasmesso così, a pelle. Il genere di riferimento è il "grottesco", un genere che ritengo essere sostenibile, ma questo è di certo un mio limite, esclusivamente se il minutaggio complessivo dell'opera non supera quello che una scatoletta di tonno richiedere per essere mangiata di fretta sul lavandino. In realtà, più che grottesco l'avrei definito "cyberpunk" perché, come spero vi sarà chiaro proseguendo nella lettura di questo articolo, certi dettagli non possono che far andare la memoria al cinema di Shin'ya Tsukamoto.