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martedì 6 settembre 2016

Dance of darkness

Quando nel secondo articolo dello speciale di Ring ho introdotto la figura di Sadako, ho fatto quello che inevitabilmente fanno tutti, chi prima e chi dopo: ho posto l'accento sulle sue caratteristiche fisiche e sul suo incedere claudicante, sbilenco e bizzarro, al limite dell'umano. È giunto il momento di riflettere un momento sulle ragioni per cui tutto ciò appare così terrificante per lo spettatore, quasi oltre la soglia della sopportabilità. La risposta a tale quesito pare ovvia, ma non è detto che lo sia davvero.
Come tutti i fantasmi in cerca di vendetta, anche Sadako ha alle spalle una storia di terribile violenza culminata con la sua uccisione, una storia da cui non si può prescindere. Come tutti i fantasmi, Sadako si mostra alle sue vittime trasfigurata dalla morte, gli occhi spiritati, il viso pallido ed emaciato e i lunghi capelli spettinati, ondeggianti davanti al viso. Il vero colpo di genio di Hideo Nakata è però quello di donarle delle movenze molto particolari: Sadako si muove a scatti, ora lenta ora inaspettatamente veloce, come un maratoneta che risparmi le forze per il rush finale; gli arti assumono pose innaturali, le articolazioni scricchiolano. Nessuna persona nel pieno del vigore e della salute potrebbe mai muoversi a quel modo. Ognuno di quei movimenti è uno spasmo di dolore che ci parla di una lunga e solitaria agonia nelle buie profondità del pozzo.
La Sadako di Nakata, insomma, non comunica solo con il suo aspetto esteriore, ma utilizza il linguaggio del corpo per narrare la sua storia, per mostrarci che è in preda all'odio e al rancore, ma anche che soffre e ha sofferto. Solo il pubblico occidentale può aver pensato che questo fosse qualcosa di nuovo, di mai visto prima: la realtà, per il pubblico giapponese, è un po' diversa.
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