martedì 25 settembre 2012

Cento!

E con questo sono cento! The Obsidian Mirror festeggia oggi il suo centesimo post! Sembra quasi incredibile. Se ripenso adesso a quel vecchio primo post, timidamente scritto in un lontano e piovoso pomeriggio di aprile, quasi mi commuovo. In realtà non sono sicuro che fosse pomeriggio, e nemmeno che fosse piovoso, ma scritto così suona decisamente meglio.... È giunto il momento di tirare un po' le somme, quindi. E per farlo occorre guardarsi un attimino alle spalle. Fare un salto indietro nel tempo di 18 mesi (tanto è il tempo che ci ho messo a scrivere 100 post). Cos’è cambiato in un anno e mezzo? Wow! Direi tanto. Io sono sicuramente una persona diversa. Credo di essere cresciuto molto in questo lasso di tempo. Il blog mi ha permesso di ritagliarmi uno spazio tutto mio, dove ho potuto coltivare i miei interessi. Sono molto più curioso oggi. Guardo il mondo da un diverso punto di vista. Tutto quello che guardo, leggo, incontro, scopro, lo filtro attraverso gli occhi di un blogger curioso. Penso “Ehi, come potrei raccontare questa cosa in un post?”. Scrivere articoli è un modo di conservare i pensieri in un diario digitale che rimarrà lì ad uso e consumo mio e dei miei posteri, fintanto che il mondo non finirà o perlomeno fintanto che il contenitore che mi contiene non cesserà di esistere. Scrivere articoli è un modo per migliorare me stesso, il mio modo di scrivere, il mio modo di interpretare il mondo e di interagire con esso. Tanto è cambiato da quei primi vecchi post buttati giù in quei primi piovosi pomeriggi. Basta un’occhiata per rendersene conto: erano scritti in un linguaggio più grezzo, meno personale, non avevo capito ancora le potenzialità di gestire uno strumento come questo. Oddio, non che adesso io abbia raggiunto l’illuminazione, ma un pochino meglio sono in grado di muovermi.

giovedì 20 settembre 2012

Scarpette rosse

Danzerai con le tue scarpette rosse fino a che non diventerai come un fantasma, uno spettro, finché la pelle non penderà sulle ossa, finché di te non resteranno che visceri danzanti. Danzerai di porta in porta per tutti i villaggi, e busserai tre volte a ogni porta, e quando la gente ti vedrà, temerà per la sua vita.
Da bambino, come tutti i bambini, amavo le storie. Le amavo così tanto che non mi accontentavo di sentirne soltanto una la sera prima della buonanotte, e fu questo che convinse ben presto i miei genitori a comprarmi dei 45 giri con favole e fiabe di ogni tipo, e naturalmente un giradischi a supporto.
Ebbene, da bambino avevo questo giradischi rosso, di quelli con la maniglia e i buchetti sopra che ora si trovano solo nei mercatini dell’usato, simboli impolverati del tempo che fu, e che quando li vedo mi viene una nostalgia feroce per la mia infanzia. In seguito non avrei mai più avuto dei giradischi, ma soltanto degli impianti stereo… perché la lingua nel corso degli anni si è evoluta almeno quanto la tecnologia. 
Il mio giradischi rosso aveva due rotelline sul davanti, una per regolare il volume, l’altra per regolare i toni (che non ho mai capito bene cosa volesse dire); era dotato di cavo, ma funzionava anche a pile, così potevo portarlo con me ovunque, all’occorrenza anche in cortile. Avevo anche della musica, generalmente cose da bambini, tipo Rita Pavone e Cochi e Renato, ma avevo anche Iannacci, Gaber e molto altro che ormai faccio fatica a ricordare.

martedì 18 settembre 2012

Il Demone di Dio


Curvando intorno ad un’alta montagna al centro della pianura che si stendeva davanti ai loro occhi, scorreva un fiume, le cui acque bianche brillavano come latte; a quel fiume sarebbe stato dato il nome di Acheronte. I fuochi nel cielo lo facevano sembrare un nastro di rame sospeso nella nebbia. Scure sagome di chiatte da carico e il passaggio casuale di qualche Demone Volante di tanto in tanto offuscavano il suo splendore. Se non fossero stati consapevoli che il fiume era pieno di pesanti lacrime lo avrebbero potuto confondere con un fiume di lava, tanto era brillante. Decisamente evocativa è l’immagine con cui Wayne Barlowe, affermato illustratore statunitense, dipinge l’Inferno nel suo esordio letterario intitolato “Il demone di Dio” (God’s Demon). Sembra banale, se non falso, dire che questo libro è capitato tra le mie mani per caso. In effetti dal mio punto di vista è stato un puro caso. Meno casuale è stata forse la scelta di questo libro da parte della mia amica Leggivendola che, giusto un paio di mesi fa, me lo ha spedito. Se vi siete persi il mio post precedente sulla catena di lettura estiva 2012, vi invito ad andare a darci un’occhiata adesso. In caso contrario andate avanti a leggere, perché cercherò oggi di scrivere qualcosa a proposito di questo libro.

giovedì 13 settembre 2012

La donna di sabbia

Gli anni 50 e 60 del secolo scorso furono testimoni di cambiamenti epocali per il mondo in generale e per il cinema in particolare. Ci eravamo appena lasciati alle spalle gli anni bui del secondo conflitto mondiale, i paesi erano frantumati, lacerati, la situazione economica era tra le più disastrose e tuttavia, in questo scenario, erano ancora i sentimenti di speranza e riscatto che tenevano i nostri padri attaccati alla vita. Il cinema, dal canto suo, non poteva che essere lo specchio di quell’epoca. Mentre in Italia si andava affermando il cinema neorealista dei Fellini, dei Visconti, dei Rossellini e dei De Sica, in Francia si respirava aria di Nouvelle Vague, quella degli Chabrol, dei Godard, dei Rohmer e dei Truffaut. La condizione delle classi disagiate era il tema ricorrente: chi non ha mai sentito almeno nominare Ladri di biciclette, Roma città aperta o Riso amaro? Ambientazioni familiari, istantanee di paesi resi poveri e desolati che però riuscirono a catturare in pieno la vera anima delle cose. Anche in Giappone si stava sviluppando un fenomeno simile a quello europeo. La Nuberu Bagu (ヌーベルバーグ, new wave) fu una corrente cinematografica che partiva dagli stessi presupposti ma che si sarebbe evoluta in una forma decisamente più critica nei confronti del sistema costituito. Tra i suoi protagonisti più noti è impossibile non citare Nagisa Oshima (Ecco l'impero dei sensi) e Shohei Imamura (The Insect Woman), quest’ultimo recensito su questo blog più o meno un anno fa. Fu proprio nell’ambito della Nuberu Bagu che si fece strada un giovane regista allora sconosciuto, Hiroshi Teshigahara (勅使河原 宏, 1927-2001).

lunedì 10 settembre 2012

Nevermore (Pt.2)

Continua oggi la nostra esplorazione dell'universo Nevermore, iniziata il mese scorso. Per chi se la fosse persa, la prima parte di questo post è disponibile qui. Dopo “Dreaming…” venne “Dead Heart in a Dead World”. Era ormai il 2000. Per molti questo disco rappresenta il picco creativo della band; io non sono del tutto d’accordo, ma ammetto che si tratta una pietra miliare della loro discografia. Sicuramente si tratta del loro disco più melodico e “radiofonico”, se mi permettete l’azzardo; e include anche una cover di “The sound of silence” di Simon e Garfunkel, ma così stravolta da sembrare una vera e propria canzone dei Nevermore. Anche in “Dead heart…” le tematiche più prettamente filosofiche si mischiano a quelle politiche e ad amare osservazioni sulla realtà e sulle (mancate) qualità intrinseche dell’umanità. In tal senso, il titolo del disco è abbastanza esplicativo… "How did it come to this, Narcosynthesis" (Narcosynthesis) Il disco si apre subito con una decisa presa di posizione contro la nostra società (la narcosintesi, o narco-ipnosi, consiste nell’uso psichiatrico di sostanze stupefacenti, in genere scopolamina o barbiturici, combinate con tecniche di ipnosi, per curare disturbi da stress post-traumatico, ma anche casi di schizofrenia ed ossessione. L’efficacia di tale pratica è ancora dibattuta, per non parlare dei suoi aspetti etici).

mercoledì 5 settembre 2012

Megera e le altre

Negli ultimi giorni si è parlato un po’ di mitologia sui blog qui attorno. Ha iniziato Orlando che ha incautamente citato Medusa in un suo post, poi si è passati a citare Parche e Grazie e, da qui, attraverso un mio vecchio post, alle Graie e alle Muse e sulla questione del loro numero, chiarito definitivamente sul blog di Argonauta Xeno. È evidente che l’argomento affascina parecchio, per cui ho deciso di rincarare e la dose, complice un vecchio film Hammer che ho visto proprio un paio di sere fa.
Che belli erano questi vecchi film della Hammer: scenografie inquietanti e musica dall’incedere incalzante fin dai titoli di testa, come una promessa di brivido immediato e senza tregua.
“Gorgon – Lo sguardo che uccide”, anno 1964, comincia proprio così, con sullo sfondo l’immagine di un goticissimo castello abbandonato, ma sempre maestoso, nell’Europa centrale dei primi del ‘900. La regia è di Terence Fisher che girò, tra gli altri "Dracula il vampiro" (1958), "La maschera di Frankenstein" (1957), "Il mostro di Londra" (1960), "Le spose di Dracula" (1960)...

Il sipario si apre all’interno di una casa dove un uomo e la sua amante discutono. Lei è incinta e lui le dice che si prenderà le sue responsabilità, anzi andrà subito in paese per parlare con il padre di lei. Lui è Bruno Heitz (Jeremy Longhurst), un pittore, e lei Sascha Cass (Toni Gilpin). Quando Bruno esce di casa, lei lo insegue per cercare di fermarlo, ma rimane indietro, da sola nel bosco, come nella più classica delle fiabe dei fratelli Grimm. Nel bosco, immobile nella notte, buio e virato di verde, l’unica nota di colore è il suo vestito azzurro. Non appena la telecamera inquadra la luna piena, seminascosta dalle nuvole, in un cielo troppo chiaro per essere un cielo notturno, sentiamo che qualcosa sta per accadere. Un urlo. La donna grida in preda all’orrore guardando qualcosa – o qualcuno – che è fuori campo e noi non possiamo vedere: Sascha si porta le mani al volto, poi cade riversa. Quando viene ritrovata la polizia pensa che sia stata uccisa da Bruno e scatena una caccia all’uomo, ma viene ritrovato anche lui cadavere, impiccato.

sabato 1 settembre 2012

Carta velina intinta nella porpora


Come un papavero tra le pagine di un libro, il piccolo libro di Marcella Andreini ha la stessa essenza della carta velina intinta nella porpora. Delicata ma allo stesso tempo sanguigna. Apparentemente fragile e innocua, ma sgocciolante di spunti e riflessioni che solo una profonda passione per la vita può trasmettere. Sono affascinato da quante righe mi sono scoperto a leggere e rileggere più volte, per cercare di capire, per fare miei i pensieri di un’altra persona. Sono inciampato per caso nel blog dell’Autrice e da allora non me ne sono più allontanato. Tanti pensieri, apparentemente slegati l’uno dall’altro, ma accomunati da un unico comun denominatore: la curiosità.
Ho ricevuto “Volevo solo essere adorata” in omaggio. Graditissimo omaggio, posso confermare oggi a posteriori, dopo averlo letto. Urge quindi scrivere un post prima che ne svaniscano i sapori. Da che parte cominciare? Direi dalla trama che, così come la leggo sulla quarta di copertina, è davvero semplice: due studentesse che abitano nella stessa strada si conoscono perché le loro finestre sono l’una di fronte all’altra. In breve tempo nasce un’amicizia profonda, ed è soprattutto Emilia ad arricchire il rapporto, grazie ad un’intelligenza vivace, a una geniale vena artistica, a uno spirito ricco ma incapace di adeguarsi a una vita mediocre. Una quarta di copertina che non rivela quindi nulla del contenuto del libro. Ma non potrebbe essere altrimenti, dico io. Questo non è un libro che si può riassumere in due parole, non è nemmeno un libro che possiede una trama nel senso comune del termine. Accadono, questo è vero, delle cose che messe in fila una dietro l’altra si potrebbero superficialmente definire con il termine “trama”, ma non è questo il punto. Il punto è che “Volevo solo essere adorata” è un libro nel libro: la trama è un espediente per mettere nero su bianco i propri pensieri, le proprie emozioni, i propri dolori, le proprie perdite, la propria solitudine.
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