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martedì 9 agosto 2022

Long Dream

We are such stuff as dreams are made on, and our little life is rounded with a sleep. (William Shakespeare, The Tempest IV.i.148–158) 

Quanto dura un sogno? Questa è la domanda che mi pongo ed è anche quella che si è posto una ventina di anni fa il mangaka Junji Ito, autore della graphic novel che è stata in seguito d’ispirazione a Higuchinsky, lo stesso regista che solo qualche mese prima aveva diretto l'adattamento di "Uzumaki" dello stesso Ito. Parleremo anche del film tra poco ma, per farlo, occorre avventurarsi in una lunga premessa1.

Non starò ad annoiarvi con barbosi concetti freudiani, quelli secondo i quali i sogni sono “una via diretta all'inconscio”, ma un po’ di roba tecnica è comunque necessaria. Tanti anni fa, agli albori del blog, ebbi modo di parlare di sogni lucidi e di scambiare commenti, non ricordo se qui o altrove, con blogger parimenti interessati all’argomento. Una delle domande più comuni, oltre alle classiche “quando si sogna” e “come faccio a capire che sto sognando”, era strettamente legata alla durata apparente di un sogno.

sabato 14 luglio 2018

L'ora del lupo

Un tempo la notte era fatta per dormire, sonni calmi e profondi, e svegliarsi poi senza terrori. Da molte sere siamo svegli fino all'alba. Ma questa è l'ora peggiore. Il popolo la chiama l'ora del lupo, è l'ora in cui la maggior parte delle persone muore, quando il sonno è più profondo, quando gli incubi sono più reali. È l'ora in cui gli insonni sono ossessionati dalle loro paure più profonde, l'ora i cui fantasmi e demoni sono più potenti. L'ora del lupo è anche l'ora in cui molti bambini nascono... (Johan Borg).

Penserete che sono un pazzo scatenato. Ne sono convinto. Beh, lo penso anch'io. Il fatto è che quando, poco di un mese fa, mi venne proposto di partecipare alle celebrazioni del centenario della nascita di Ingmar Bergman, mi parve una buona idea: se c'è un regista che ha fatto la storia del cinema, pensai così di primo acchito, quello è senza dubbio Ingmar Bergman. "Vuoi che non riesca a trovare delle cose da dire?", mi dissi. Ed eccomi qua, davanti al foglio bianco, con nella pelle il terrore di non esserne all'altezza. Ma porca miseria, perché mi faccio sempre trascinare in queste cose? Non so da dove iniziare, ma so che al calar di questa sera d'estate (lo dico mettendo avanti le mani) qualcosa, nel bene e nel male, sarà venuto pur fuori e quel qualcosa, nel bene e nel male, verrà pubblicato. Intanto il ghiaccio è stato rotto e questo particolare già mi consola.

domenica 27 novembre 2016

Der Umschlag, Genesis

Non ho mai ben capito cosa dovrebbe significare il termine “kafkiano”, che sento spesso usare dai miei conoscenti riferendosi a situazioni bizzarre. Una vaga idea più o meno ce l'ho, avendo letto alcune opere dell’autore in questione, ma sull’utilizzo dell’aggettivo mantengo ancora qualche riserva. Secondo Wikipedia, l'aggettivo "indica una situazione paradossale, e in genere angosciante, che viene accettata come status quo, implicando l'impossibilità di qualunque reazione tanto sul piano pratico quanto su quello psicologico".
La stessa voce del celebre dizionario online suggerisce però che uno degli esempi più emblematici di situazione "kafkiana" sia quella che emerge dalle pagine del romanzo "Il processo" di Franz Kafka nelle pagine in cui viene a inserirsi prepotentemente il tema della burocrazia, nella fattispecie quella giudiziaria. Ecco, la chiave di volta forse è proprio nella cavillosità, nel formalismo, nell'osservanza esagerata dei regolamenti estesa al punto da tendere paradossale ogni tentativo di far prevalere la logica. Ma perché vi sto parlando di tutto questo? Credo sia necessaria una spiegazione, per cui ricomincio daccapo.

giovedì 15 gennaio 2015

Les Paradis Perdus

Narra qual mai cagion gli antichi nostri / Padri, sì cari al cielo e in sì felice / Stato locati, a ribellarsi mosse / Da lui che gli creò. Mentre signori / Eran del mondo, un suo leggier divieto / Come romper fur osi? Al turpe eccesso / Chi sedusse gl’ingrati? Il Serpe reo / D’inferno fu. Mastro di frodi e punto / Da livore e vendetta egli l’antica / Nostra madre ingannò, quando l’insano / Orgoglio suo dal ciel cacciato l’ebbe / Con tutta l’oste de’ rubelli Spirti. / Su lor coll’armi loro alto a levarsi / Ambìa l’iniquo e d’agguagliarsi a Dio/  Pensò, se a Dio si fosse opposto. (John Milton, Paradise Lost, Book I, 1667)
Questo è un post che ho scritto e riscritto decine di volte in questo periodo di pausa blog. Ogni volta che mi pareva finito e adeguato per la pubblicazione succedeva qualcosa che mi faceva cambiare nuovamente idea, un particolare, una sensazione, un avvenimento più o meno importante. Questo post non sarà perfetto, non può esserlo oggi e non lo sarà mai ma, se lo state leggendo, significa che in qualche modo sono riuscito a quadrare il cerchio, o perlomeno a fare in modo, con un po' di fortuna, che sia almeno vagamente simile a ciò che avevo in mente all'inizio.
La domanda che ci poniamo oggi è "ha ancora senso oggi parlare di paradiso perduto?". La domanda è intesa in senso generale; non è limitata al significato biblico o a quello dell'opera miltoniana che ho citato in apertura. La domanda è intesa nel senso più ampio del termine, partendo dalla non trascurabile questione se il paradiso, nel senso che volete dargli, esiste oppure no.

martedì 26 giugno 2012

L'ascensore

PLAY
Berlino. Un pomeriggio di settembre. Sono qui per un appuntamento di lavoro, presso una fiera che si tiene qui tutti gli anni in questo periodo. Il taxi mi lascia in Alexanderplatz. L’albergo dove passerò la notte è proprio davanti a me, in un futuristico grattacielo da almeno 30 piani. Mi avvicino all’ingresso e varco la soglia. La hall è di forma ovoidale. Mi ritrovo su uno dei lati più lunghi dell’ovale. Alla mia sinistra la reception, rotonda e molto ampia, al cui interno si muovono indaffarate almeno una decina di persone. Alla mia destra c’è un bar, anche lui rotondo e perfettamente simmetrico con la reception posta sul lato opposto. Divani di pelle colorata sono sparsi qua è là di fronte al bar e alla reception. A destra del bar un corridoio porta al ristorante. Credo che lascerò il trolley in camera e poi scenderò nuovamente a bermi una birra. Le pratiche di check-in vengono evase rapidamente, come è tipico in alberghi di questo livello. Mi viene assegnata una camera al terzo piano. La conosco: è la stessa dell’anno scorso e dell’anno prima ancora. Che razza di coincidenza. Esattamente dalla parte opposta dell’ingresso vi sono sette ascensori, uno di fianco all’altro. Un campanello d’allarme scatta dentro di me. Non succede mai nulla di buono quando devo prendere un ascensore nei miei sogni. Sì, perché sto sognando, e di questo mi rendo perfettamente conto.

venerdì 9 dicembre 2011

La musica di Erich Zann

Ho consultato con la massima attenzione le mappe della città, ma non ho mai più ritrovato la Rue d'Auseil. Non mi sono limitato a esaminare le carte moderne: so bene che i nomi cambiano; ho riesumato anche i documenti più antichi, ed ho esplorato di persona tutte le strade che, indipendentemente dal nome, potevano corrispondere alla Rue d'Auseil. Malgrado tutti i miei sforzi, mi son dovuto confrontare con la mortificante conclusione che ero incapace di trovare la casa, la strada e neppure il quartiere dove, negli ultimi mesi della mia squallida esistenza alla Facoltà di Metafisica, avevo udito la musica di Erich Zann.

Per Lovecraft i suoi sogni rappresentavano lo spunto di partenza per scrivere una nuova opera. Uno dei suoi racconti più noti infatti, La musica di Erich Zann, nasce proprio da numerose esperienze oniriche, varie e frammentate, che sono state poi riunite in un insieme coerente e dotato di senso compiuto. Una di queste esperienze è quella che mi ha spinto a scrivere questo post. A quanti, come me, è capitato di sognare di muoversi in un ambiente (solo apparentemente) familiare ma che presenta alcune sostanziali differenze dalla realtà, al punto che si è perfettamente consapevoli che si sta vivendo in un sogno? Il protagonista del racconto, un giovane studente universitario, vaga per le strade di una città francese (probabilmente Parigi) alla ricerca della perduta Rue d'Auseil. Io nei miei sogni vago per la città dove sono cresciuto, che forse non sarà affascinante come Parigi, ma è decisamente intrigante per me.
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