Non ho mai ben capito cosa dovrebbe significare il termine “kafkiano”, che sento spesso usare dai miei conoscenti riferendosi a situazioni bizzarre. Una vaga idea più o meno ce l'ho, avendo letto alcune opere dell’autore in questione, ma sull’utilizzo dell’aggettivo mantengo ancora qualche riserva.
Secondo Wikipedia, l'aggettivo "indica una situazione paradossale, e in genere angosciante, che viene accettata come status quo, implicando l'impossibilità di qualunque reazione tanto sul piano pratico quanto su quello psicologico".
La stessa voce del celebre dizionario online suggerisce però che uno degli esempi più emblematici di situazione "kafkiana" sia quella che emerge dalle pagine del romanzo "Il processo" di Franz Kafka nelle pagine in cui viene a inserirsi prepotentemente il tema della burocrazia, nella fattispecie quella giudiziaria. Ecco, la chiave di volta forse è proprio nella cavillosità, nel formalismo, nell'osservanza esagerata dei regolamenti estesa al punto da tendere paradossale ogni tentativo di far prevalere la logica. Ma perché vi sto parlando di tutto questo? Credo sia necessaria una spiegazione, per cui ricomincio daccapo.
Ho fatto un sogno. No, non è una citazione. Ho proprio fatto un sogno. Era da molto tempo che non mi capitava di fare un sogno di una simile lucidità, uno di quelli che appena sveglio, come apri gli occhi, sapresti raccontare dall'inizio alla fine scendendo pure nei dettagli. Oddio, non è del tutto vero quello che ho appena detto. I sogni di solito permangono nella mia testa per una manciata di minuti, il tempo di trascinarmi a tavola per la colazione, ed evaporano con la stessa rapidità della tazza di tè che mi sono appena versato. Il sogno che ho fatto l'altra notte però è stato diverso. Il sogno dell'altra notte ha avuto un inizio definito e una fine piuttosto compiuta, diversamente da quelli abituali che non sono altro che frammenti di immagini che, a posteriori, mal si amalgamano tra di loro. Forse è proprio questa la differenza tra quelli che riteniamo essere "sogni lucidi" e tutti gli altri. Il primo possiede una compiutezza che gli altri non hanno.
Dell'argomento ho già avuto modo di parlare in passato quanto provai a descrivere uno dei miei sogni più ricorrenti. Avevo intitolato quell'articolo come uno dei racconti più celebri di Lovecraft che, per inciso, era una grande autorità in materia, avendo spesso riportato nei suoi racconti, con agghiacciante meticolosità, i dettagli che la sua mente elaborava nel corso delle sue esperienze oniriche. Naturalmente, quel mio vecchio tentativo di mettere per iscritto un sogno era ben lontano dalla perfezione che chiunque può riscontrare fra le pagine dello scrittore americano ma, nonostante ciò, mi divertii molto a scriverlo e ancora oggi, ad anni di distanza, lo rileggo con piacere e con un pizzico di nostalgia. E quando dico "nostalgia" intendo sottolineare il fatto che quegli ambienti, che allora definii ricorrenti, non sono più apparsi nei miei sogni, quasi come se la stessa azione di regalare loro un'esistenza su carta (quella seppur virtuale di questo blog) li avesse esorcizzati.
È quello che mi accingo a fare anche questa volta. Il sogno dell'altra notte ha tutte le caratteristiche di visionarietà che rendono la sua trasposizione in un racconto quasi obbligata. Il racconto lo sto scrivendo proprio in questi giorni e spero di riuscire a completarlo prima di Natale, anche se dubito di poterlo presentare finché non sarà, secondo il mio metro di giudizio e per le mie possibilità, assolutamente perfetto. Le parti salienti le ho comunque già in bozza: si tratta di legarle tra loro in maniera coerente e di trovare una chiusura che possa dare un senso al lavoro, il tutto lasciando inalterata quell'aura surreale di cui la vicenda è intrisa. L'atmosfera che avvolge il racconto sarà assolutamente kafkiana, per ricollegarmi quindi a quanto scritto in apertura. Il protagonista, che parlerà in prima persona, si troverà nella necessità di dover affrontare il suo primo giorno di lavoro in un luogo di cui non conosce praticamente nulla.
L’indirizzo corrispondeva a una larga piazza nella periferia della città. Non c’ero mai stato prima e non me ne sorprendevo, visto l’aspetto degradato del quartiere. Il suolo non era asfaltato e più che una piazza sembrava un vasto campo abbandonato, circondato da edifici piuttosto fatiscenti. Parcheggiai in un angolo e scesi dalla macchina, augurandomi che il numero civico che mi interessava non fosse ubicato nell’angolo opposto. Ovviamente non fui fortunato.
Se tra le tante sfumature dell'aggettivo "kafkiano" ce n'è una che richiama il concetto di sfiga, ecco il modo con cui proverò a infilarla dentro. Non starò ovviamente qui a raccontarvi molto di più, ma visto che ci siamo posso accennare che la vera essenza di quel luogo non sarà chiara al protagonista nemmeno alla fine. A tratti potrebbe sembrare il magazzino di un ufficio postale, luogo sacro di qualunque burocrate e con il quale, kafkianamente, il nostro protagonista si trova a dover avere a che fare.
Altissimi mostri metallici, giacevano abbandonati migliaia di contenitori zeppi fino all’orlo di buste, lettere, cartoline, pacchi postali. Molto del loro contenuto era traboccato per terra, alla mercé di chiunque. Il bianco originale delle buste sparse a terra era già stato più volte violato da impronte di scarpe [...] Afferrò la busta, se la rigirò per qualche attimo fra le mani, quindi afferrò un timbro e glielo appose sopra. Alzò lo sguardo, mi sorrise e mi restituì l’oggetto. Osservai attentamente quanto era appena successo. Un timbro postale aveva arricchito una busta già piena zeppa di timbri precedenti.
Il finale credo sarà abbastanza aperto, visto che una reale spiegazione di ciò che accade (o che accadrà) andrebbe a squarciare l'atmosfera stessa del racconto. Sono a tratti tentato di infilarci una spiegazione sovrannaturale, ma credo che in fondo non ce ne sia bisogno, visto che le situazioni a cui tutti noi assistiamo in certi uffici pubblici sono già sovrannaturali per conto loro, senza bisogno di scomodare fantasmi e presenze.
Un'altra cosa che ancora manca è il titolo (non sono mai stato bravo con i titoli). Il buon Franz Kafka non si faceva troppi problemi al riguardo: i suoi lavori avevano titoli molto semplici, il processo, il castello, il disperso, la metamorfosi... L'idea potrebbe essere di imitare lo scrittore praghese e intitolare questo mio esperimento "La busta", così, molto semplicemente. Anzi, forse potrei usare il tedesco: "Der Umschlag". Oltre ad essere un po' più esotico, funzionerebbe anche come omaggio al vecchio Kafka che, come noto, scriveva proprio in tedesco. Né l'una né l'altra soluzione mi convincono però ancora del tutto.
Ad ogni modo adesso mi metto al lavoro, ché sto perdendo anche troppo tempo. Come avrete forse notato sto tentando di fare l'esatto opposto di ciò che feci qualche mese fa con "Yuggoth!", quando pubblicai un articoletto simile a questo questo, ma solo dopo aver scritto e postato il racconto. Spero di avervi trasmesso un po' di curiosità e, nell'eventualità, spero che questa non venga tradita. Incrociamo le dita.
La stessa voce del celebre dizionario online suggerisce però che uno degli esempi più emblematici di situazione "kafkiana" sia quella che emerge dalle pagine del romanzo "Il processo" di Franz Kafka nelle pagine in cui viene a inserirsi prepotentemente il tema della burocrazia, nella fattispecie quella giudiziaria. Ecco, la chiave di volta forse è proprio nella cavillosità, nel formalismo, nell'osservanza esagerata dei regolamenti estesa al punto da tendere paradossale ogni tentativo di far prevalere la logica. Ma perché vi sto parlando di tutto questo? Credo sia necessaria una spiegazione, per cui ricomincio daccapo.
Ho fatto un sogno. No, non è una citazione. Ho proprio fatto un sogno. Era da molto tempo che non mi capitava di fare un sogno di una simile lucidità, uno di quelli che appena sveglio, come apri gli occhi, sapresti raccontare dall'inizio alla fine scendendo pure nei dettagli. Oddio, non è del tutto vero quello che ho appena detto. I sogni di solito permangono nella mia testa per una manciata di minuti, il tempo di trascinarmi a tavola per la colazione, ed evaporano con la stessa rapidità della tazza di tè che mi sono appena versato. Il sogno che ho fatto l'altra notte però è stato diverso. Il sogno dell'altra notte ha avuto un inizio definito e una fine piuttosto compiuta, diversamente da quelli abituali che non sono altro che frammenti di immagini che, a posteriori, mal si amalgamano tra di loro. Forse è proprio questa la differenza tra quelli che riteniamo essere "sogni lucidi" e tutti gli altri. Il primo possiede una compiutezza che gli altri non hanno.
Dell'argomento ho già avuto modo di parlare in passato quanto provai a descrivere uno dei miei sogni più ricorrenti. Avevo intitolato quell'articolo come uno dei racconti più celebri di Lovecraft che, per inciso, era una grande autorità in materia, avendo spesso riportato nei suoi racconti, con agghiacciante meticolosità, i dettagli che la sua mente elaborava nel corso delle sue esperienze oniriche. Naturalmente, quel mio vecchio tentativo di mettere per iscritto un sogno era ben lontano dalla perfezione che chiunque può riscontrare fra le pagine dello scrittore americano ma, nonostante ciò, mi divertii molto a scriverlo e ancora oggi, ad anni di distanza, lo rileggo con piacere e con un pizzico di nostalgia. E quando dico "nostalgia" intendo sottolineare il fatto che quegli ambienti, che allora definii ricorrenti, non sono più apparsi nei miei sogni, quasi come se la stessa azione di regalare loro un'esistenza su carta (quella seppur virtuale di questo blog) li avesse esorcizzati.
È quello che mi accingo a fare anche questa volta. Il sogno dell'altra notte ha tutte le caratteristiche di visionarietà che rendono la sua trasposizione in un racconto quasi obbligata. Il racconto lo sto scrivendo proprio in questi giorni e spero di riuscire a completarlo prima di Natale, anche se dubito di poterlo presentare finché non sarà, secondo il mio metro di giudizio e per le mie possibilità, assolutamente perfetto. Le parti salienti le ho comunque già in bozza: si tratta di legarle tra loro in maniera coerente e di trovare una chiusura che possa dare un senso al lavoro, il tutto lasciando inalterata quell'aura surreale di cui la vicenda è intrisa. L'atmosfera che avvolge il racconto sarà assolutamente kafkiana, per ricollegarmi quindi a quanto scritto in apertura. Il protagonista, che parlerà in prima persona, si troverà nella necessità di dover affrontare il suo primo giorno di lavoro in un luogo di cui non conosce praticamente nulla.
L’indirizzo corrispondeva a una larga piazza nella periferia della città. Non c’ero mai stato prima e non me ne sorprendevo, visto l’aspetto degradato del quartiere. Il suolo non era asfaltato e più che una piazza sembrava un vasto campo abbandonato, circondato da edifici piuttosto fatiscenti. Parcheggiai in un angolo e scesi dalla macchina, augurandomi che il numero civico che mi interessava non fosse ubicato nell’angolo opposto. Ovviamente non fui fortunato.
Se tra le tante sfumature dell'aggettivo "kafkiano" ce n'è una che richiama il concetto di sfiga, ecco il modo con cui proverò a infilarla dentro. Non starò ovviamente qui a raccontarvi molto di più, ma visto che ci siamo posso accennare che la vera essenza di quel luogo non sarà chiara al protagonista nemmeno alla fine. A tratti potrebbe sembrare il magazzino di un ufficio postale, luogo sacro di qualunque burocrate e con il quale, kafkianamente, il nostro protagonista si trova a dover avere a che fare.
Altissimi mostri metallici, giacevano abbandonati migliaia di contenitori zeppi fino all’orlo di buste, lettere, cartoline, pacchi postali. Molto del loro contenuto era traboccato per terra, alla mercé di chiunque. Il bianco originale delle buste sparse a terra era già stato più volte violato da impronte di scarpe [...] Afferrò la busta, se la rigirò per qualche attimo fra le mani, quindi afferrò un timbro e glielo appose sopra. Alzò lo sguardo, mi sorrise e mi restituì l’oggetto. Osservai attentamente quanto era appena successo. Un timbro postale aveva arricchito una busta già piena zeppa di timbri precedenti.
Il finale credo sarà abbastanza aperto, visto che una reale spiegazione di ciò che accade (o che accadrà) andrebbe a squarciare l'atmosfera stessa del racconto. Sono a tratti tentato di infilarci una spiegazione sovrannaturale, ma credo che in fondo non ce ne sia bisogno, visto che le situazioni a cui tutti noi assistiamo in certi uffici pubblici sono già sovrannaturali per conto loro, senza bisogno di scomodare fantasmi e presenze.
Un'altra cosa che ancora manca è il titolo (non sono mai stato bravo con i titoli). Il buon Franz Kafka non si faceva troppi problemi al riguardo: i suoi lavori avevano titoli molto semplici, il processo, il castello, il disperso, la metamorfosi... L'idea potrebbe essere di imitare lo scrittore praghese e intitolare questo mio esperimento "La busta", così, molto semplicemente. Anzi, forse potrei usare il tedesco: "Der Umschlag". Oltre ad essere un po' più esotico, funzionerebbe anche come omaggio al vecchio Kafka che, come noto, scriveva proprio in tedesco. Né l'una né l'altra soluzione mi convincono però ancora del tutto.
Ad ogni modo adesso mi metto al lavoro, ché sto perdendo anche troppo tempo. Come avrete forse notato sto tentando di fare l'esatto opposto di ciò che feci qualche mese fa con "Yuggoth!", quando pubblicai un articoletto simile a questo questo, ma solo dopo aver scritto e postato il racconto. Spero di avervi trasmesso un po' di curiosità e, nell'eventualità, spero che questa non venga tradita. Incrociamo le dita.
La definizione di "kafkiano" che hai pescato su wikipedia mi sembra perfetta.
RispondiEliminaHo letto parecchi racconti dello scrittore praghese, anche una biografia stile fumetto illustrata da Robert Crumb particolarmente suggestiva. Già le prime righe del tuo sogno trasposto in racconto mi fanno affermare che, sì, lo stile è proprio "kafkiano" e attendo ovviamente il seguito.
Il seguito, o meglio, l'inizio arriverà verso la fine dell'anno se va tutto bene. Se non dovessi essere contento del risultato slitterà a gennaio, ma sicuramente non oltre. Intanto, già il fatto che tu mi dica che lo stile di quei pochi estratti sia effettivamente kafkiano mi galvanizza! ^_^
EliminaBel progetto! Però, caspita, mi hai fatto accorgere di una cosa. Anche io da quando ho trascritto brevemente in un post del mio blog uno dei miei sogni ricorrenti preferiti - quello delle navi che salpano in un paesaggio alla Caspar David Friedrich - non ho più fatto quel sogno :O
RispondiEliminaCredo che mettere per iscritto un sogno sia un po' come materializzarlo, spostarlo su un piano diverso da quello a cui esso compete. Un sogno è tale proprio perché è istintivo, impalpabile Realizzarlo, nel senso di renderlo reale, significa eliminarne le caratteristiche.
EliminaSi, decisamente kafkiano, aspetto il seguito.... ;)
RispondiEliminaSento in arrivo l'ansia da prestazione....
EliminaIl mio sogno è svegliarmi e scrivere il sogno prima di dimenticarlo: entrambi i sogni rimangono sogni. Una volta il dispiacere per aver dimenticato un sogno bellissimo è stato così intenso che nel dormiveglia mi sono venute in mente parole amare belle come il sogno. Ho deciso di scrivere quelle, che equivalgono al sogno di cui lamentano la perdita: infatti le ho dimenticate! Le ho trovate per caso l'altro giorno e già non ricordo più dove le ho messe...
RispondiEliminaIn fondo anche questo è kafkiano: il sistematico fallimento di compiere un'azione semplice per motivi all'apparenza anch'essi semplici: cosa c'è di più frustrante?
Ricordo "Il direttorato", romanzo palesemente kafkiano degli autori di fantascienza sociale Boris e Arkady Strugatsky. A memoria mi sembra che il protagonista deve andare in permesso, nel suo avamposto lontano, ma ogni volta che prova a lasciare la base un qualche motivo lo trattiene... anche qui, come in un sogno, ho dimenticato il resto...
Infine, attendo il racconto ma senza pressione ^_^
Sono quasi tentato di andare a dormire e verificare se, al mio risveglio, la prima parte del tuo commento sarà ancora lì oppure se si è trattato di un sogno.... Forse potrei appuntarmelo su un pezzo di carta e, se tutto questo fosse un sogno, avrei già pronto un bell'incipit per il mio racconto.
EliminaIl Processo di Kafka è una delle storie più belle e assurde che a me piace sempre ricordare (io amo Kafka) e mi piace anche usare l'aggettivo "kafkiano" con quel significato tratto dal vocabolario. Detto ciò, trovo interessante il tuo sogno, dunque anche il tuo racconto. Lo pubblicherai qui, nel blog? Lo leggerò volentieri.
RispondiEliminaLo pubblicherò qui sul blog, naturalmente. A spanne dovrebbe coprire lo spazio di tre post, come è stato quest'estate per Yuggoth!
EliminaOddio, claustrofobia a iosa tra scaffalature simili, paranoia della ripetitività... :O! Direi che ha ottime potenzialità il racconto e personalmente appoggio l'idea del titolo in tedesco!
RispondiEliminaCuriosa... *_*
Ti piace l'idea del titolo in tedesco? E allora tedesco sia! Devo solo ricordarmi di usare dei nomi tedeschi, tipo Otto o Franz, per i personaggi... così almeno potrei giustificare, anche se solo in parte, questa scelta.
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