domenica 28 febbraio 2016

Orizzonti del reale (Pt.5)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

La bellezza e il colore: ora mi rendo conto di ciò che gli artisti tentano di fare. Cercano di fissare la bellezza su di una tela, il modo come risplende e freme e vive. (Timothy Leary, “Il Gran Sacerdote”, 1968, Trip 4)
Sarà banale a dirsi, ma vi sono sistematiche analogie fra le esperienze psichedeliche dei soggetti più diversi e quel che cambia, casomai, è la loro capacità di raccontarle: chi è più avvezzo all'uso delle parole userà i termini più calzanti ed emozionanti, e in generale chi ha un talento artistico infonderà la sua peculiare sensibilità nelle descrizioni. Come dimostra la citazione posta in apertura, molti soggetti raccontano di aver provato sensazioni intense soprattutto dal punto di vista visivo. Anche il “viaggiatore” citato da Leary poche righe fa si ritrovò a riflettere, di fronte alle proprie inedite visioni, sulle percezioni visive dei pittori, e sul fatto che la maggior parte di questi tenti di rendere la bellezza su tela riuscendovi solo in parte. Poiché - ricordate cosa aveva scritto Huxley nel suo saggio? - […] la gloria e la meraviglia dell'esistenza pura appartengono a un altro ordine che anche l'arte più alta non ha il potere di esprimere. (Per la citazione completa vi rimando a questo post.)

lunedì 22 febbraio 2016

Pagine dimenticate

Grafica di copertina: Riccardo Fabiani
Dattiloscritti ritrovati in umide cantine, storie ripescate in polverose riviste, autori con una biografia da ricostruire, opere mai tradotte riportate alla luce. Tutto quanto digitalizzato. Fondata nel 2014, Cliquot è una casa editrice che punta al recupero, cioè alla proposta o riproposta nell’era digitale di opere realizzate nel passato e rimaste intrappolate troppo a lungo nella limitatezza del supporto cartaceo. Digitalizzare un’opera del passato significa infrangere il muro temporale che separa la creazione del prodotto artistico dalla sua fruizione. La storia della letteratura non è fatta solo dei grandi classici che conosciamo. È fatta anche di grandi classici mancati, di creazioni trascurate per la difficile reperibilità, per la disattenzione degli editori maggiori o per una sensibilità culturale che prima mancava e di cui ora disponiamo. Creazioni rimaste dunque cristallizzate in un tempo lontano che non è più quello a cui appartengono, da cui Cliquot vuole liberarle. 
Le parole con le quali abbiamo iniziato l’articolo di oggi provengono direttamente dal sito della neonata casa editrice digitale Cliquot, una realtà tutta italiana alla quale abbiamo accennato, seppure vagamente, diversi mesi fa in occasione della nostra lunga recensione de Il ritratto del morto, una curiosa raccolta di racconti weird opera di un nostro conterraneo ad oggi praticamente sconosciuto. Nelle pagine di quell’incredibile volumetto, come già ebbi a dire, si celava la penna di un autore che nulla aveva da invidiare ai grandi maestri del fantastico: quel Daniele Oberto Marrama, giornalista e scrittore, che aveva pubblicato già agli inizi del Novecento con l’entusiasmo riconosciutogli dalla più grande pioniera del nostro giornalismo, quella Matilde Serao che per oltre mezzo secolo fu alla guida di alcuni fra i più importanti quotidiani italiani, coadiuvata da firme prestigiose come Giosuè Carducci e Gabriele D’Annunzio
Ma non è Marrama e il suo lavoro l’argomento sul quale intendo tornare oggi, quanto sull’opera di recupero di quella letteratura dimenticata che sembra sia la missione principale della piccola casa editrice Cliquot di Roma. Al fine di comprenderne meglio i meccanismi abbiamo oggi un ospite d’eccezione su questo blog: Federico Cenci, fondatore di Cliquot ed ex-blogger. 
Ho detto bene, Federico? 

martedì 16 febbraio 2016

Hyakumonogatari Kaidankai

Quando, sul finire degli anni Novanta del secolo scorso, il fenomeno oggi catalogato come J-Horror (contrazione di Japanese Horror) fece il suo ingresso trionfale e virulento in Occidente, in molti rimasero affascinati dalle terrificanti figure provenienti da quell’immaginario così incredibilmente diverso dal nostro.
Creature come Sadako Yamamura e Kayako Saeki, protagoniste delle due saghe J-Horror senza dubbio più celebri (rispettivamente Ring-u e Ju-On), erano riuscite a terrorizzarci come mai prima di allora alcuna creatura occidentale era riuscita a fare. Dal giorno del loro sbarco nelle nostre sale cinematografiche queste nuove rappresentazioni (nuove per noi) di un concetto vecchissimo come quello dei fantasmi furono al centro di discussioni, imitazioni e parodie di ogni genere: furono ammirate, studiate, analizzate, finché, improvvisamente, nello spazio di pochi anni, furono relegate a un ruolo da comprimarie per poi rapidamente svanire del tutto. Oggi, parlando di J-Horror, molti storcono il naso adducendo motivazioni generiche e riducendo il tutto a una semplice moda che, sebbene fosse apprezzabile nel lasso di tempo che le è stato concesso, non ha più ragione di esistere. Cos'è accaduto? A cosa è dovuto quel così rapido successo e quell’altrettanto rapido dietro front planetario? Al momento non ho alcuna risposta soddisfacente a queste domande ma, se la mia celebre pigrizia non prenderà il sopravvento, spero di riuscire prima o poi a trovare il bandolo della matassa. Quando? Difficile dirlo, perché questo è il primo di una lunga serie di post che ci terrà compagnia forse per… interi anni.

mercoledì 10 febbraio 2016

Cracked Actor

Avete capito bene. A un mese esatto dalla sua scomparsa, su questo blog si torna nuovamente a parlare di David Bowie. Qualcuno potrebbe pensare, e credo sia inevitabile, che questi miei continui riferimenti al Duca Bianco siano un modo un po’ paraculo per attirare audience sfruttando un evento tragico… e non saprei davvero cosa rispondere, se non che mi dispiacerebbe se qualcuno davvero lo pensasse. La verità è dentro di me e non saranno certamente queste quattro righe di introduzione a cambiare le cose.
In quei primissimi giorni dopo la terribile notizia, tutto il web si è risvegliato all’improvviso e un po’ tutti si sono ricordati di essere (o di essere stati) fan di David Bowie. Ammetto che io stesso non sono stato da meno e, se non fosse stato per quell’unico album (Low, 1977) sempre presente nella memoria di tutti gli smartphone che si sono succeduti nella mia tasca, probabilmente adesso sarei qui a dire che non ascoltavo niente di suo da decenni. Che poi, a pensarci bene, un’affermazione del genere sarebbe quanto mai irreale, visto che la musica di Bowie, volente o nolente, ha sempre attraversato a intervalli alterni le varie fasi della mia vita senza mai, nemmeno una volta, lasciarmi indifferente. Anche quei pochi secondi di un suo pezzo captato in tivù durante uno spot pubblicitario, o anche quell’altro pezzo usato, perfetta pennellata finale, nei titoli di coda di un recente mainstream hollywoodiano. Fugaci attimi che mi hanno sempre fatto saltare una pulsazione, mentre mi sorprendevo a dire a me stesso “Ehi, questa è quella vecchia canzone che ascoltavo quando…”. Quanti ricordi!

sabato 6 febbraio 2016

U.D.W.F.G. 3

Quasi un anno è passato dal precedente articolo e, non senza un piccolo imbarazzo, giungo a questo terzo appuntamento con U.D.W.F.G. con oltre nove mesi di ritardo sull’uscita del volume che dà il titolo a questo post. Stiamo parlando della graphic novel ammiraglia della casa editrice Hollow Press che, come avrete intuito leggendo il mio post di pochi giorni fa, punta essenzialmente su opere di grande qualità a discapito della frequenza di pubblicazione.
Una scelta, quest’ultima, un po’ controcorrente, ma di cui i cultori di questo genere di opere d’arte (perché di arte in fondo si tratta) non potranno che essere lieti.
Personalmente non avevo mai osato avvicinarmi a questo ambiente sino ad un paio di anni fa ma poi, incuriosito dall’accurata ed entusiastica descrizione che Michele Nitri ne fece nel corso di un’intervista ospitata proprio qui su Obsidian Mirror, ho iniziato a muovere i miei primi passi in questa direzione. 
Sono naturalmente molto lontano dal potermi definire un esperto e, diciamola pure tutta, sono anche ben distante dal poter essere considerato “uno che ne capisce”. Per il momento sono solo uno che prova a fare del suo meglio e questo terzo articolo su U.D.W.F.G. è la prova di quanto ciò sia difficile. A beneficio di chi si fosse perso quei miei due vecchi post in cui parlavo della prima e della seconda uscita dell’opera U.D.W.F.G. (che per la cronaca è l’acronimo di Under Dark Weird Fantasy Ground), cercherò di proporre qui di seguito una breve sintesi.

martedì 2 febbraio 2016

Largemouths

Gli albori. Una terra incontaminata dalle ampie foreste, le valli ventose e le alte montagne dove la vita nelle sue molte forme – mitologiche e proto-umane - si agita. Ma le atmosfere bucoliche, romantiche non potrebbero essere più distanti. Se della natura avete o amate una visione pastorale, decisamente quest'opera non fa per voi: qui la natura non è altro che lo sfondo di una perenne lotta per il predominio che non ha vincitori, perché la morte dell'avversario, o della preda, ripiomba, ancora e ancora, nella più totale solitudine, e la fame è un desiderio eterno che non si può saziare. 
In “Largemouths” il mondo è dominato dai giganti. Fra questi, i più colossali sono i Largemouths, o Grandgousier, ispirati per l'aspetto al Saturno goyano e per il nome al capostipite della famiglia rabelaiana. 
Che “Saturno che divora i suoi figli” di Francisco Goya sia il principale riferimento visivo appare immediatamente chiaro anche a chi non abbia letto la prefazione del volume che, fra l'altro, è firmata da una nostra vecchia conoscenza, Miguel Angel Martin: la fisionomia, la larga bocca dai denti aguzzi e soprattutto lo sguardo folle sono i medesimi. Dalla pentalogia di Gargantua e Pantagruel di François Rabelais l'autore prende invece a prestito il nome Grandgousier, gigante, re del paese d'Utopia e padre di Gargantua. Ma il Grandgousier di Delmas, a scanso di equivoci, non è affatto un personaggio comico. Solo e senza meta apparente, vaga sulla terra in preda ad appetiti inestinguibili, la voracità con cui si getta sulle femmine che incontra o con cui fagocita tutto ciò che si muove mostra il riflesso di un animo lacero e tormentato. In questo senso, quel fallo eretto che lo caratterizza, generosamente mostrato nelle tavole, più che simbolo di vigore sessuale sembra un grosso punto interrogativo.
Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...