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domenica 9 dicembre 2012

Tears of Kali

Quando guardiamo un film, talvolta esso ci colpisce per la sua qualità intrinseca: la scenografia, la luce, la musica, perfino (inutile negarlo) la bellezza degli attori… Talvolta, invece, è la storia che prevale: tecnicamente il film ha dei difetti, ma la trama è così avvincente che tutto il resto rimane in secondo piano. Quando la messa in scena e la storia sono ottime e ottengono esattamente il risultato che ci si era prefissati, ecco che abbiamo un prodotto superiore alla media (un film dell’orrore che non fa paura non può dirsi riuscito, così come un film drammatico che non fa piangere, ecc.). Se poi a tutto questo, al posto della filosofia spicciola che purtroppo quasi sempre impera, si aggiungono riflessioni profonde sul mondo, sulla vita e sull’animo umano, allora parliamo di capolavoro. Poi ci sono quei film che toccano determinate corde dentro di noi, o che semplicemente ci fanno vedere le cose in una luce diversa dal solito. È per questo principalmente che mi è piaciuto “Tears of Kali” (Lacrime di Kali), film indipendente del 2004 del regista tedesco Andreas Marschall. Spiegherò qui per quali motivi questo film, non un capolavoro assoluto, si è conquistato un posto permanente nella mia memoria. La prima ragione è che contiene immagini di rara crudezza, perlomeno al di fuori del genere splatter o torture (si vede poco, ma anche quel che si intuisce soltanto è difficile da sostenere). La seconda è che parla sì di fantasmi, ma di fantasmi “carnali”, sanguigni, non solo agli antipodi rispetto alle eteree e decadenti apparizioni occidentali, ma anche da quelle canoniche della cinematografia asiatica; sono spiriti che ti possiedono e ti fanno marcire dentro, oppure ti uccidono… e non per la paura, o sottraendoti la tua energia vitale (anche…), ma nutrendosi della tua carne con denti e artigli affilati. Sono come belve feroci, ma molto peggio: non hanno requie né pietà, non gli puoi sfuggire. La terza e più importante è il formarsi e svilupparsi della trama da premesse del tutto originali, ovvero la religiosità indiana con il suo pantheon di divinità e tutto ciò che vi gira intorno, dai culti autoctoni alle sette fondate da occidentali con la presuntuosa ambizione di poterla padroneggiare senza comprenderne anche il potenziale negativo e distruttivo. Il risultato è qualcosa che mischia le atmosfere dei film giapponesi di fantasmi alla saga di “Hellraiser” senza però somigliare davvero a nessuno dei due. 

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