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domenica 21 aprile 2019

Il barone

Oggi torniamo in Portogallo per parlare di un’opera che non è solo un classico del Novecento, ma è anche nota per la perfezione formale e per la maniera mirabile in cui testimonia la doppia natura, concreta e sentimentale, e profondamente nostalgica, di una nazione intera.
O Barão (Il Barone), del 1942, è l’opera omnia di António José Branquinho da Fonseca, personaggio di spicco del secondo Modernismo portoghese, e fu trasformata dal regista Edgar Pêra in un film incentrato su un vampiro, anche se invero molto particolare, in un’operazione che potrebbe apparire un po’ blasfema, ma che è innegabilmente affascinante: il suo O Barão (2011), lungometraggio di poco meno di due ore, mantiene però intatte le atmosfere rarefatte e sospese nel tempo del racconto, e almeno in questo la volontà di Branquinho da Fonseca può dirsi rispettata.
La novella è molto breve, e si può così riassumere: un ispettore scolastico viene inviato in uno sperduto villaggio di montagna e trova ospitalità nel palazzo del Barone, un personaggio che pare provenire dritto dal Medioevo ed è abituato a fare il bello e il cattivo tempo. Insieme, i due affrontano una serie di avventure notturne al limite del surreale, e dopo una serie di confidenze sempre più intime, favorite da una sorta di delirio nostalgico-alcolico, sembrano dar vita al germe di un’amicizia. Il mattino, però, si interromperà bruscamente l’idillio.

lunedì 15 aprile 2019

La monaca portoghese

"Sono riuscito, con molta cura e molti affanni, a recuperare una copia corretta della traduzione delle cinque Lettere portoghesi scritte a un nobile gentiluomo di stanza in Portogallo. Ho sentito tutti quelli che s'intendono di sentimenti lodarle o ricercarle con tanta sollecitudine, che ho creduto, dandole alle stampe, di far loro gran piacere. Non conosco il nome di colui al quale sono state scritte, né di colui che ne ha fatto la traduzione, ma mi è parso di capre che, rendendole note, non avrei recato loro un dispiacere. Difficilmente sarebbero state pubblicate senza errori di stampa, che le avrebbero sfigurate." (Claude Barbin, 1669.)
Fu non molto tempo fa che in una bancarella di libri usati trovai questo curioso, minuscolo quanto anonimo libretto nell'edizione Marsilio che vedete qui accanto. Non saprei dire perché mi rimase appiccicato alle dita così tenacemente da finire poi incastonato nella mia libreria. Forse il caso, forse una necessità improvvisa, forse qualcosa mi aveva inconsciamente colpito e ispirato... forse semplicemente il fatto che il libro era effettivamente anonimo, nel senso letterale che in copertina non era riportato il nome dell'autore.
Non avrei mai potuto immaginare che in quelle 30 pagine scarse, ampliate a 120 da una corposa pre(post)fazione, da numerose annotazioni e dal testo francese a fronte, si potesse trovare una così alta espressione di letteratura epistolare da far impallidire Goethe e tutti gli altri specialisti del genere.

lunedì 15 luglio 2013

Full Moon Madness

Milano, marzo 2007. Rainbow Club. È lunedì sera e nel locale semibuio ci sono sì e no una cinquantina di persone. O di più, forse anche molte di più ed è la mia memoria che m'inganna, ma cambia poco: il locale, già di suo non grandissimo, è semivuoto. Quando parte la musica, però, i più sfegatati si accalcano davanti al palco saltando, pogando e gridando a squarciagola le parole delle canzoni. Io mi tengo un po' in disparte, sullo sfondo, ma sono ipnotizzato da quello che sta succedendo a pochi metri da me. Alla fine il concerto sarà memorabile. Sarà perché sono portoghesi, ma i Moonspell sono un gruppo, a dir poco, malinconico. Non di quella malinconia cupa e spesso rabbiosa tipica delle terre del nord, no, di una malinconia un po’ più pacata, ma forse anche più disperata.
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