domenica 22 dicembre 2013

Duecento!

E con questo sono duecento! The Obsidian Mirror festeggia oggi il suo duecentesimo post! Tanta acqua è passata sotto i ponti da quell’ormai remoto primo post, timidamente scritto in un lontano e piovoso pomeriggio di aprile. Non sono sicuro che fosse pomeriggio, e nemmeno che fosse piovoso, ma mi piace pensare che lo fosse. Un piovoso pomeriggio di sicuro lo è oggi, quando mancano ormai pochi giorni al Natale e alla conclusione di questo 2013. Ancora una volta, come è normale fare in queste ricorrenze, occorre fermarsi un attimo e guardarsi indietro, capire cosa è stato fatto di buono e cosa è stato fatto di sbagliato. È davvero singolare che questo duecentesimo post arrivi proprio in concomitanza con il sopraggiungere della fine dell’anno: un ulteriore motivo per tirare le somme e le sottrazioni. Cos’è cambiato rispetto al primo post e rispetto al centesimo? Tanto, tantissimo. Nel blog ho trovato la mia giusta dimensione e mi diverto a sguazzarci dentro, ora come allora. Il blog mi permette di dimenticarmi per un istante i tanti problemi della vita reale, la disaffezione al lavoro e alla vita sociale che, a quarantasei anni suonati, comincia un attimino ad annoiarmi. Il blog mi permette di distrarmi dalle quotidiane incombenze, da quei meccanismi in cui a volte mi sento prigioniero. Il blog infine è il rifugio dal dolore e dalla sofferenza, un angolo remoto dove posso chiudermi la porta alle spalle e lasciare fuori tutto. Sono una persona diversa da quella che scrisse il primo post, diversa anche da quella che scrisse il centesimo, ma direi che è inevitabile che lo sia.  Anche le persone attorno a me sono diverse, alcune anche molto diverse. Non è stato un periodo facile, non lo è tuttora e sicuramente non lo sarà ancora per molto e il blog, che del mio io interiore è l’emanazione, ne è un silenzioso testimone. Anyway…..

mercoledì 18 dicembre 2013

Poltergeist: demoniache presenze





















Cosa fareste se scopriste che la casa dove abitate fu costruita su un terreno un tempo destinato a cimitero? E cosa fareste se vi dicessero che, quando ne gettarono le fondamenta, nessuno si preoccupò di trasferire i resti i coloro che vi erano seppelliti? Dormireste ancora sonni tranquilli? Non credo, visto che, come sosteneva un certo Jorge Grau a metà degli anni settanta, “non si deve profanare il sonno dei morti”. Come dite? Sembra la trama, trita e ritrita, di un film dell’orrore? Avete ragione. È infatti la storia che quella vecchia volpe di Steven Spielberg usò come base quando scrisse la sceneggiatura di “Poltergeist  – Demoniache presenze”, un vero cult che non dovrebbe aver bisogno né di presentazioni né, tantomeno, di questo post, ultimo tra tanti, che ne celebri i fasti.

venerdì 13 dicembre 2013

Una gita a Barkerville (Pt.3)

Il mondo in un tappeto” propone un’incursione in un mondo magico che rimanda alla nostra immagine mentale del Giardino dell'Eden, permeata però di un prominente lato oscuro: il titolo italiano, sicuramente meno poetico dell’originale “Weaveworld”, ha però il pregio di sintetizzare molto bene l’argomento, perché in effetti il tappeto è un giardino pieno di gioia e di pace, o perlomeno questo è ciò che il tappeto da preghiera simboleggia nella cultura islamica e mediorientale: il tappeto come casa, il Paradiso a cui aneliamo ritornare. Il tappeto del titolo è proprio la casa-rifugio di una popolazione in fuga dal nostro mondo, una terra magica che brulica di vita sospesa. Particolarmente interessanti sono i personaggi femminili, quasi creature di una specie a parte, che posseggono un potere soprannaturale, il menstruum, che si scatena come un flusso d'energia devastante. È un potere che non fa distinguo tra bene e male, né tra le caratteristiche morali di chi lo possiede: difatti, lo posseggono sia la “buona” Suzanna che la “cattiva” Immacolata, una creatura dalla strana purezza che nel tempo ha saputo insinuarsi nell'immaginario oscuro dell'umanità con molti nomi (Madonna Nera, Signora dell'Angoscia, Mater Maleficiorum) e che con i fantasmi delle sorelle morte Maddalena e Megera forma un'unità perversa e indissolubile.

lunedì 9 dicembre 2013

Una gita a Barkerville (Pt.2)

Un parossismo di sofferenza che non finisce nemmeno con la morte.  Chissà quante reminescenze cristiane, anche inconsce, ci sono in questa visione? Ce ne devono essere, perché gli orrori di Barker somigliano in tutto e per tutto alle rappresentazioni classiche dell'inferno, da quelle della letteratura religiosa a quelle dantesche, anche se è difficile dire fino a che punto lui stesso ne sia consapevole: da lui, dalle interviste che nel corso degli anni ha rilasciato, sembra trasparire una razionalità di fondo, come se per lui parlare di morte e sofferenza fosse una scelta precisa che serve a portare alla luce, a razionalizzare, aspetti spiacevoli della realtà che altrimenti si tenderebbe a negare oppure a rimuovere. A parte questo egli non ha mai negato di essere stato influenzato, come pittore ed illustratore, dalle opere di Hieronymus Bosch, il suo pittore preferito, così come da quelle di William Blake e di altri famosi artisti.
I suoi mostri sono creature straordinarie, nel senso letterale di “fuori dall'ordinario”. Eppure, non si fa fatica a provare per loro una sorta di empatia, riflesso di quella evidente dell'autore, perché per Barker il concetto di normalità non è e non deve essere basato sull'apparenza estetica: alcuni non sono di per sé cattivi, né peggiori degli altri personaggi, sono mostri perché diversi, ma a volte la loro diversità non è altro che un differente stadio evolutivo.

venerdì 6 dicembre 2013

Una gita a Barkerville (Pt.1)

Di tutti gli autori che hanno deciso di trattare del diverso e del mostruoso, Clive Barker è uno di quelli che hanno saputo farlo con lo sguardo più puro. Non mi sembra però, questo, un sintomo del suo distacco; anche se ammetto che questo giudizio potrebbe dipendere da me: io sono uno di quelli che hanno bisogno della paura per sentirsi vivi, pertanto mi riesce difficile concepire un atteggiamento mentale diverso dal mio.
Non è solo la fruizione delle sue opere (letterarie e non), ma anche le sue stesse parole di commento, le sue interviste, che mi hanno portato a esprimere questo giudizio, all'apparenza così tranchant, che mi sforzerò di spiegare di seguito. Una premessa importante: per il momento non intendo parlare del Barker regista, e questa scelta non deriva certo da disinteresse, ma esclusivamente dal fatto che è il Barker scrittore quello che ho conosciuto per primo, e pertanto è da quello che voglio partire. In futuro… chissà.
Ricordo ancora quando, all'inizio della sua carriera, si sprecavano i giudizi ed i paragoni con il re dell'horror Stephen King: quale miglior biglietto da visita per uno scrittore emergente delle lodi, vere o presunte, dello scrittore di genere più famoso? Solo più tardi ho riconosciuto in questo uno dei primi esempi di marketing da me saggiati quando il marketing non sapevo ancora bene che cosa fosse. Bei tempi, quelli!

lunedì 2 dicembre 2013

Onibaba

Gli anni sessanta del secolo scorso, cinematograficamente parlando, furono anni d’oro. In un periodo relativamente breve infatti videro la luce un numero impressionante di pellicole che, ancora oggi dopo oltre mezzo secolo, pubblico e critica sono concordi nel considerare capolavori imprescindibili.  Non è assolutamente un caso quindi che, pur non essendo questo un blog cine- tematico, già molte volte in passato siano qui apparsi articoli su film realizzati proprio in quel periodo. Ho scritto spesso a proposito di gotico italiano (Mario Bava, solo per citarne uno), che qualcuno ricorderà essere un tema ricorrente nel primo anno di vita del blog, ma ho spesso scritto anche dei capolavori dei grandi maestri del cinema giapponese di quel periodo: su tutti Koji Wakamatsu, Hiroishi Teshigahara e Shoei Imamura. C’era tuttavia, a tal proposito, una lacuna che da tanto tempo sentivo il bisogno di colmare:  quella di non aver mai parlato della perla più luccicante tra le tante della mia sterminata collezione “Made in Japan”, uno dei punti fermi della mia, già più volte esternata, passione per quell’incredibile Paese.
Era il 1964 l’anno in cui lo sceneggiatore e regista Kaneto Shindo diresse “Onibaba” (“Le assassine” nella versione italiana), un film basato un racconto buddista che egli aveva appreso da bambino: la parabola della yome-odoshi-no-men (嫁おどしの面) (maschera spaventa-moglie) o niku-zuki-no-men (肉付きの面) (maschera con la carne attaccata). Ho trovato traccia di due diverse versioni di questa storia. Nella prima una madre, per impedire a sua figlia di recarsi al tempio, indossa una maschera per spaventarla. Per punizione la maschera le si incolla al viso, e allora lei prega di riuscire a togliersela: ci riesce, ma insieme alla maschera si strappa anche la carne dal viso. La seconda è la storia di una donna che, per gelosia, indossa una maschera da demone per spaventare sua nuora e impedirle di incontrare il suo amante. L’amore, però, ha la meglio sulla paura, e per punizione la maschera le si incolla permanentemente al viso.

mercoledì 27 novembre 2013

A porta inferi redux

Redux, dal latino "reducere", che significa più o meno richiamare alla memoria, riportare a galla, far risalire. È proprio questo infatti lo scopo del post di oggi: dare nuova luce ad un vecchio post dimenticato o, meglio, passato da queste parti oltre due anni fa e rimasto praticamente inosservato. D'altra parte quelli erano tempi di magra per The Obsidian Mirror: zero lettori fissi, zero commenti e pochi contatti, peraltro assolutamente casuali. 
Naturalmente non voglio riscrivere qui ciò che è già stato scritto: tra le altre cose sarebbe anche inutile, visto che quel vecchio post rimane accessibile e facilmente rintracciabile. Voglio tuttavia segnalare che una nuova versione di "A Porta Inferi" esce oggi come Guest Post sul blog di Romina Tamerici, all'interno della rubrica "Lo dicono tutti".
Il termine "Redux", se vogliamo dirla tutta, è spesso adottato nel cinema per indicare una nuova interpretazione di un'opera già esistente, di solito con l'integrazione di scene tagliate dal montaggio originale (l'esempio più noto è senza dubbio Apocalypse Now Redux, il capolavoro che Francis Ford Coppola ripropose nel 2001 aggiungendo 49 minuti al cut originale del 1979). Ebbene anche "A porta inferi" rientra in questo caso: oltre ad un nuovo montaggio sono presenti alcuni nuovi spunti non inseriti nel post originale, una sorta di "Director's cut", per continuare ad usare termini cinematografici. Ma ora bando alle ciance: se volete saperne di più vi invito a passare sul blog di Romina Tamerici. Ci vediamo di là.

venerdì 22 novembre 2013

Il necrofilo

Il post di oggi è un vero e proprio inno al coraggio che dedico a Gabrielle Wittkop, la scrittrice francese che nel 1972 pubblicò il romanzo d’esordio dal titolo, forte, “Il necrofilo”. E, perché no, anche a me che oggi ho deciso di parlarvene, sfidando il vostro probabile sgomento e sicuro disgusto.
Vi capisco, beninteso. Ci vuole del coraggio per battezzare un’opera con un titolo come questo e altrettanto per leggere la storia di un individuo del genere, uno che comunemente è percepito come un pervertito, un malato, un pazzo. Però mi piace la dichiarazione d’intenti dell’Autrice, che non fa sconti e sceglie, fin dal titolo, di presentarci un tema difficile senza girarci attorno, ma nella sua nuda e cruda verità.
Del resto la Wittkop, al secolo Gabrielle Ménardeau (1920-2002) non si è mai tirata indietro davanti ad argomenti scabrosi, macabri, tanto che le sue opere spesso incentrate sul sesso, l’identità di genere e il senso di straniamento sono state accostate a quelle del marchese De Sade, di Auguste de Villiers de L'Isle-Adam, di Lautréamont, di Edgar Allan Poe e anche di Marcel Schwob. Anche la sua vita, coerentemente, fu vissuta in totale libertà, dal matrimonio con Justus Wittkop, un disertore tedesco omosessuale e di vent’anni più anziano di lei conosciuto nella Parigi occupata dai nazisti, all’ammissione della sua stessa omosessualità, fino ad arrivare alla morte forse avvenuta per suicidio (anche se in molti affermano che il cancro ai polmoni la sconfisse prima che potesse attuare i suoi propositi suicidi).

lunedì 18 novembre 2013

Il riparatore di reputazioni

Ricordai il grido straziato di Camilla e le parole spaventose che risuonavano per le vie fioche di Carcosa. Erano gli ultimi versi del primo atto, e non osavo pensare a quello che seguiva: non lo osavo neppure alla luce del sole primaverile, là nella mia camera, circondato da oggetti familiari, rassicurato dall’animazione che proveniva dalla strada e dalle voci dei domestici in corridoio.
Mr. Wilde, questo è il nome che Robert W. Chambers diede nel 1895 al suo “Riparatore di reputazioni”, il personaggio da cui deriva il titolo del primo dei racconti contenuti nell’antologia “Il re in giallo”. Ritorniamo oggi sull’argomento iniziato qui e proseguito sotto l’etichetta comune di Yellow Mythos. A chi si fosse avvicinato solo di recente a questa serie di articoli non posso che raccomandarne la lettura, in particolare dell’introduzione, dove viene spiegato lo scopo di tutto ciò, e dell’ultimo in ordine cronologico, al quale oggi ci ricolleghiamo. Nel suddetto racconto la nostra attenzione era stata catturata dalla descrizione di un misterioso libro dalla copertina gialla, a causa del quale il narratore, Hildred Castaigne, entrò in una spirale di follia dalla quale non sarebbe più uscito. Non ci viene rivelato molto del contenuto di quelle pagine, se non un accenno ad una città di nome Carcosa, illuminata da due soli gemelli e appoggiata sulle rive di un lago di nome Hali. Nel corso del racconto Hildred Castaigne ci introduce un misterioso personaggio, tale Mr. Wilde, di professione “riparatore di reputazioni”.

mercoledì 13 novembre 2013

L'altra Milano

Ho consultato con la massima attenzione le mappe della città, ma non ho mai più ritrovato la Rue d'Auseil. Non mi sono limitato a esaminare le carte moderne: so bene che i nomi cambiano; ho riesumato anche i documenti più antichi, ed ho esplorato di persona tutte le strade che, indipendentemente dal nome, potevano corrispondere alla Rue d'Auseil. Malgrado tutti i miei sforzi, mi son dovuto confrontare con la mortificante conclusione che ero incapace di trovare la casa, la strada e neppure il quartiere dove, negli ultimi mesi della mia squallida esistenza alla Facoltà di Metafisica, avevo udito la musica di Erich Zann. 
Con queste parole iniziava un mio articolo apparso su questo blog circa due anni fa, parole che, lo avrete certamente indovinato, provengono dalla penna di Howard Phillips Lovecraft, il quale le utilizzò come incipit per uno dei suoi racconti probabilmente più noti: “La musica di Erich Zann”.
Il racconto, per coloro che non lo conoscessero, narra la storia di un giovane studente universitario che prende in affitto un appartamento sito al piano sottostante quello di un anziano musicista. Erich Zann trascorre la maggior parte delle sue notti suonando freneticamente con un violino una bizzarra melodia che, si scoprirà alla fine, è l’unico ostacolo che si contrappone ad indicibili orrori in agguato oltre le finestre della sua stanza. Uno degli aspetti a mio parere più inquietanti del racconto di Lovecraft è l’ambientazione: una Parigi onirica, molto simile all’originale ma indubbiamente diversa, sia nei luoghi sia nelle atmosfere.

domenica 10 novembre 2013

Il libro color giallo

Eccomi di nuovo a voi con un nuovo capitolo della serie dedicata agli “Yellow Mythos”. Per chi fosse capitato solo ora su questo blog, e si stesse chiedendo cosa significa quello che sto scrivendo, l’invito è quello di andare a recuperare innanzitutto il post introduttivo e, a seguire, l’intera serie contrassegnata dall’omonima etichetta. La volta scorsa ci eravamo lasciati con un articolo un po’ anomalo rispetto ai precedenti: una specie di racconto, un piccolo tentativo di aggiungere nuove pagine alle migliaia di pagine già scritte da decine di scrittori nell’arco di oltre un secolo. Ho tentato di “romanzare” il mio incontro con il famigerato libro dalla copertina gialla che ha dato il via a tutta questa storia. Naturalmente, e sarebbe difficile immaginare il contrario, la vicenda non è andata esattamente nei termini descritti e, soprattutto, sebbene l’argomento sia estremamente affascinante, il suo effetto su di me è stato decisamente più tenue rispetto a quanto raccontato. Mi sono comunque divertito a scriverlo, soprattutto sono soddisfatto della parte conclusiva che rappresenta un po’ la quadratura del cerchio di questa prima fase. Credo che proverò un giorno a dare un seguito a quel racconto, magari ritornandoci sopra ad intervalli regolari. Vedremo.

martedì 5 novembre 2013

Quel Demonio di Brunello Rondi

Un tempo amavo molto i film demoniaco/esorcistici. Purtroppo però - sarà perché il genere già di per sé consente poche variazioni sul tema, sarà perché ho visto troppe pellicole diaboliche sì, ma solo nella banalità delle storie raccontate in maniera trita e ritrita - ad un certo punto mi sono venuti terribilmente a noia, ed è curioso che ora a farmi recuperare un minimo di entusiasmo per questo genere non sia uno dei più recenti blockbuster a tema, ma un film che ha la bellezza di cinquant’anni…
Ho avuto finalmente l’occasione di vedere “Il Demonio”, il film del 1963 di Brunello Rondi, tra i primi in Italia in questo particolare filone dell’horror e che precede “L’Esorcista” di William Friedkin di ben dieci anni. 
Se quest'ultimo è il film più famoso in assoluto, non si può dire che abbia inventato nulla, nemmeno sul piano della messa in scena (tra l’altro "L'Esorcista" si basa sull’omonimo romanzo di William Peter Blatty del 1971, molto bello, mi dicono, ispirato ad una supposta possessione demonica verificatasi nel Maryland nel 1949). 
Nel parlare de “Il Demonio”, vedremo che alcune soluzioni visive riprese da altri film lì erano già presenti e, pur senza l’ausilio di effetti speciali, rese in maniera molto efficace. Pur senza eccessi visivi, e basandosi quasi interamente sull’intensa interpretazione di Daliah Lavi (la protagonista di “La frusta e il corpo”), questo film riesce comunque a risultare disturbante e, a tratti, a far letteralmente accaponare la pelle.

giovedì 31 ottobre 2013

On Halloween look in the glass...

On Halloween look in the glass, your future husband’s face will pass. Olivia si era ritirata in camera sua eccitatissima quella sera. Ancora poche ore e sarebbe giunto il giorno del suo quindicesimo compleanno, il che significava davvero molto per lei. Aveva trascorso l’intera giornata ad aiutare sua madre ad intagliare zucche per la ricorrenza che cadeva, guarda caso, quella notte stessa. Eh sì, era davvero singolare che il caso avesse fatto coincidere la vigilia del suo compleanno con la notte di Halloween, una delle feste più amate dai bambini. Olivia però quell’anno non si sentiva più una bambina. Si era lasciata alle spalle tutte quelle sciocchezze, le streghe e i fantasmi, e non aveva ceduto alle insistenze delle sue amiche che, anche quell’anno, avrebbero trascorso il loro tempo bussando di porta in porta e ripetendo la solita filastrocca del “dolcetto o scherzetto”.
Ormai era grande. Una vera signorina. Quindici anni erano un traguardo che aspettava da tempo, dal giorno in cui sua madre, tanti anni prima, le aveva detto che l’età che rimpiangeva di più era quella dei suoi quindici anni. Non se lo era mai dimenticato e, anzi, da allora aveva cominciato a tenere il conto, con incredibile assiduità, dei giorni che la dividevano da quell’evento. Il conto alla rovescia era ormai quasi terminato. Da domani si sarebbe aperto un mondo nuovo per Olivia, almeno questo era quello che si augurava e su cui aveva fantasticato tanto. Sua madre aveva conosciuto l’uomo che sarebbe diventato suo padre a quindici anni e forse, chissà, anche Olivia avrebbe incontrato il suo futuro marito. Magari non lo avrebbe sposato subito, quello no, non era ancora pronta per sposarsi né tantomeno per avere dei bambini veri, però magari lo avrebbe incontrato, così per caso, magari davanti alla gelateria, o passeggiando per il parco o magari sulla strada della scuola. Lo avrebbe incontrato e lo avrebbe (su questo non aveva alcun dubbio) riconosciuto al primo sguardo.

martedì 29 ottobre 2013

Terre di Confine Magazine #1

Cari Followers e cari viandanti casuali, se siete finiti su questa pagina distrattamente, provenienti da uno sperduto link posizionato chissà dove, e con il maligno proposito di sparire verso altri lidi dopo pochi istanti, spero di riuscire a farvi cambiare idea, con la promessa che quello che segue vale la pena di essere letto.
Di cosa si tratta è presto detto. Il titolo del post l’avete probabilmente letto prima ancora di atterrare qui. Ora non vi resta che gettare una rapida occhiata all’immagine qui a lato, un’altra rapida occhiata alle etichette posizionate qui sopra sotto il titolo, e avrete già fatto quadrare il cerchio.
Cos’è TERRE DI CONFINE? In primo luogo è un’associazione culturale no-profit che, citando direttamente lo Statuto, “ha come finalità lo studio, la promozione e la diffusione della cultura, delle scienze e dell’arte – quest’ultima con particolare riferimento ai generi letterari Fantascienza e Fantastico e all’Animazione Giapponese – intese sotto ogni loro forma espressiva”. Sempre citando lo statuto aggiungo che “oggetto d’interesse sono Letteratura, Cinematografia e Televisione, Animazione e Fumetti, Storia e Arte, Costume e Società, Mistero e Paranormale, Scienza e Tecnologia, e, più in generale, tutto ciò che attiene agli obiettivi summenzionati.
La principale emanazione dell’Associazione Terre di Confine, che potrete conoscere meglio visitandone il sito internet e/o la pagina Facebook, è l’omonima rivista di cui state ammirando la stupenda copertina del numero di Novembre. Si tratta del numero d’esordio di una nuova testata che vede il vostro Obsidian Mirror figurare tra i redattori. Non è una figata? Credo sia superfluo sottolineare quanto ciò mi renda orgoglioso e, se avrete la bontà di andare a visionare la pubblicazione con i vostri occhi, ne capirete immediatamente il motivo. 

domenica 27 ottobre 2013

Goodbye Mr. Lou Reed

Satellite's gone up to the skies. Addio vecchio satanasso del rock! Addio poeta maledetto! Addio colonna sonora della mia vita! Il mio cuore oggi sanguina e  non si capacita di come potrà essere il mondo a partire da domani, ora che uno dei suoi maggiori poeti se n'è andato. Lou Reed è morto oggi, all'età di 71 anni. Lo ha annunciato il sito della rivista musicale Rolling Stone che non ha voluto precisare la causa della morte. La notizia, confermata poco dopo dal suo agente, sta rimbalzando ovunque in rete e, nel mio piccolo, anch'io ci tengo a dare il mio omaggio ad un artista che, come pochi altri, ha saputo rubarmi il cuore. Non mi perderò, come succede di solito in questi casi, a riportare cenni biografici. Questo blog non è una testata giornalistica e, come tale, non ha come obiettivo principale quello di fare cronaca. Chi conosceva Lou Reed non certo ha bisogno di questo blog per piangerlo. Chi non lo conosceva troverà sicuramente altrove quello che cerca. Lasciatemi solo spendere poche parole per ricordare colui "che camminava sul lato selvaggio della strada", colui che aveva dipinto la sua città, New York, come nessun altro, né prima né dopo di lui, era riuscito a fare. Conobbi la musica di Lou Reed qualcosa come 25 anni fa, negli stessi anni in cui sul piatto del mio giradischi imperversavano anche David Bowie e Iggy Pop. Ormai è passata davvero un'eternità.

venerdì 25 ottobre 2013

La casa delle belle addormentate

Oltre quarant’anni fa, esattamente il 9 giugno 1972, fu pubblicato sul settimanale “Il mondo” un interessante articolo nel quale veniva riportato un simpatico aneddoto sulla percezione della letteratura giapponese da parte di noi occidentali. Spunto della riflessione fu il clamore che seguì la scomparsa dello scrittore giapponese Yasunari Kawabata, avvenuta solo poche settimane prima.
Il redattore dell’articolo riferiva un fatto al quale era stato testimone quattro anni prima a Dorchester, nel corso di un festival dedicato al poeta e scrittore britannico Thomas Hardy.
Nel corso delle celebrazioni, alle quali erano presenti quasi esclusivamente scrittori inglesi, qualcuno, sorpreso della presenza di una delegazione giapponese, disse: “Hardy è uno scrittore troppo legato al proprio angolo di mondo per poter essere capito da stranieri così “stranieri” come sono i giapponesi”. Uno di loro reagì con molta finezza a quella stupida villania. “Certo la regione in cui Hardy ha ambientato le sue storie è completamente estranea ad un giapponese, ma non gli sono estranei i sentimenti che il grande scrittore inglese ha fatto vivere attraverso le sue storie.”
Il lungo articolo, del quale vi risparmio i dettagli, si chiuse con un‘interessante riflessione: “Non badate alle forme artificiali del vivere, ma addentratevi nel cuore delle cose, nella sostanza della vita". Il redattore a cui dobbiamo queste semplici, ma al tempo stesso illuminanti parole, si chiamava Carlo Cassola.

lunedì 21 ottobre 2013

La canzone di Cassilda (Pt.1)

DI TUTTO QUESTO E' SOLO L'INIZIO
ATTO I - SCENA I: TOMMASO

Alessia H.V., 'La Perduta Carcosa', digital, 2015
http://alessiahv.deviantart.com/
Era già da diverse notti che Tommaso non riusciva a chiudere occhio. Si girava e si rigirava nel letto. Ogni tanto lanciava uno sguardo al proprio cellulare appoggiato sul comodino, più per abitudine che per altro. Leggeva l’ora, mugolava qualcosa di incomprensibile e ancora si girava e rigirava. La ragazza sdraiata accanto a lui ormai non faceva più caso alle sue stranezze. Si era oramai quasi abituata alla cosa e, solo di tanto in tanto, si destava per recuperare le lenzuola che lui aveva trascinato con sé dal suo lato del letto.
Da quando gli era capitato tra le mani quel libro, tutto per lui era cambiato. Le notti insonni erano solo una parte del problema. Anche i giorni ormai li trascorreva immerso nei suoi pensieri, in uno stato quasi catatonico. Aveva acquistato quel libro qualche settimana prima in una bancarella di roba usata, per un motivo che esattamente non ricordava. Forse fu per via di quella copertina, di un giallo abbacinante, che sembrava fatta apposta per attirare attenzione, per distinguersi in mezzo a quel mucchio di cianfrusaglie. Gli sembrava un volume molto antico, almeno a giudicare dalle apparenze, e si chiedeva come mai fosse in vendita per così pochi spiccioli.

giovedì 17 ottobre 2013

Il mondo secondo Go Nagai (Pt.3)

Voi che per la vostra natura miserabile... per il vostro aspetto... voi che per vostro cuore malvagio siete disprezzati dagli dei! Voi che scacciati dagli umani siete stati relegati alle loro leggende! (Shutendoji, vol. 2).
Quanto a Shutendoji, c'è più di un dubbio che si trattasse effettivamente di un oni. La leggenda, nata attorno al XIII secolo, narra che egli nacque presso una famiglia di contadini nell'Echigo. Quando nacque già camminava e dimostrava diversi anni di età. I suoi genitori, spaventati dal suo aspetto, lo affidarono ad un monastero, ma uno dei monaci, che era malvagio, gli insegnò la magia nera e lo iniziò alla vita criminale. In effetti le cronache riportano che nella zona di Kyoto sia vissuto un giovane monaco di circa 12-13 anni di età che avrebbe lasciato la vita monacale per darsi alla dissolutezza dopo aver sterminato tutti i suoi compagni. Che in realtà fosse lui il famoso Shutendoji? Questo spiegherebbe anche il mistero del nome Shutendoji, che si può tradurre come “l'oni bevitore di vino”.
Quando attorno al 988 una tromba d'aria colpì Kyoto, un indovino che disse la causa era una presenza malvagia nelle vicinanze della città. Fu così che un giorno l'imperatore inviò in città una spedizione guidata da Yorimitsu, un famoso militare del clan Minamoto, per uccidere Shutendoji. Yorimitsu decise di usare l'astuzia e, anziché cercare di piegare il suo nemico con la forza, travestito da montanaro riuscì a penetrare nel suo covo e a servirgli un vino particolare in grado di far ubriacare gli oni; non appena Shutendoji si addormentò, Yorimitsu gli tagliò la testa. E tutti vissero felici e contenti.

domenica 13 ottobre 2013

Il mondo secondo Go Nagai (Pt.2)

In “Devilman”, il manga, si racconta che Satana e i suoi demoni siano stati i primi abitatori della Terra. Fin dai tempi del Mesozoico, in una realtà dove solo i più forti riuscivano a sopravvivere, questi esseri proteiformi acquisirono la capacità di fondersi con altri corpi, sia esseri viventi che oggetti inanimati, al fine di divenire più forti... e più si fondevano, più il loro aspetto e i loro poteri diventavano spaventosi. Con l'arrivo dell'era delle glaciazioni i demoni, come i dinosauri, scomparvero, senza però estinguersi. 
La vera storia dei demoni sarebbe stata tramandata da Dante Alighieri nella Divina Commedia: nel fondo dell'inferno Dante vede il Diavolo intrappolato tra i ghiacci… Dopo una lunghissima ibernazione, i demoni intrappolati dove il ghiaccio s'è disciolto tornarono in vita, generando le leggende sul diavolo... attendendo nell'ombra che quelli tra loro (la maggior parte) ancora intrappolati nel ghiaccio, ai Poli, tornino anch'essi alla vita, in modo da rimettere insieme le schiere demoniache e impadronirsi del mondo, sterminando l'intera razza umana. 
Per sopravvivere nel nuovo mondo, gli uomini saranno costretti a diventare essi stessi dei demoni. Ryo Asuka, il figlio di un archeologo che per primo ha scoperto la verità e ha tentato la fusione con un demone, decide di combattere per difendere il nostro mondo: suo padre, nell'accorgersi che dopo la fusione stava perdendo del tutto la propria umanità, decide di togliersi la vita, e proprio per questo Ryo si convince che l'unica possibilità di contrastare l'avanzata dei demoni è trovare un uomo che possa impossessarsi dei poteri di un demone rimanendo umano, un individuo dall'animo puro e una forza di volontà tale da soverchiare quella del demone. 

martedì 8 ottobre 2013

Il mondo secondo Go Nagai (Pt.1)

C'è qualcosa che mette d'accordo tutti, occidentali e orientali, una sorta di moderno ponte virtuale tra culture lontanissime e per certi versi agli antipodi. Quel qualcosa sono i manga. Non che i manga siano l’unica forma di fumetto esistente, o la più antica, ma il modo in cui, pur mantenendo la propria autonomia rispetto ad altre forme d’arte, ne ricevono e vi apportano influenza in un rimando di reciproche citazioni, è un fenomeno più unico che raro. Se della cultura giapponese sono un elemento essenziale, tanto da rappresentare, come ho letto da qualche parte, circa il 40% del mercato editoriale, anche in quella del resto del mondo hanno assunto man mano sempre maggiore importanza. Non dimentichiamo che generalmente è dai fumetti che nascono i cartoni animati: spesso contestati, sono comunque, nel bene e nel male, il primissimo approccio dei bambini con la televisione.

giovedì 3 ottobre 2013

La damigella d'Ys

Una civetta sul ramo di un albero secco emise il suo lugubre verso, ed un’altra le rispose lontano. Alzando gli occhi vidi, attraverso un improvviso squarcio tra le nuvole, Aldebaran e le Iadi! 
Continua oggi il nostro viaggio negli Yellow Mythos, alla ricerca di risposte alle nostre molteplici domande. La volta scorsa avevamo rivolto la nostra attenzione ad un breve racconto di Ambrose Bierce e ci eravamo lasciati tra le rovine dell’antica città di Carcosa, riflettendo sulla sorte del protagonista e su quella della città stessa. Ricordate l’enigmatica descrizione di Carcosa con cui ci lasciammo? Soli gemelli, stelle nere e strane lune ci fecero supporre che fosse la descrizione di un paesaggio extraterrestre e che, di conseguenza, Carcosa fosse da ricercarsi ben più lontano di quanto immaginato.

sabato 28 settembre 2013

Martyrs

È tipico di un certo tipo di religiosità cercare sempre un tramite per le proprie esperienze mistiche. Siamo talmente abituati ad avere intermediari nel nostro rapporto con Dio che il nostro senso della scoperta è ormai irrimediabilmente compromesso, e la smania di trovare conferme empiriche a questioni spirituali non conosce limiti: sacerdoti, santoni, guru, sensitivi e medium, non importa a chi ci rivolgiamo, l’importante è trovare qualcuno che riesca a confermare che non stiamo credendo invano, che la morte è solo un passaggio perché esiste un altro luogo dove possiamo vivere per sempre. Tutto ciò ha senz’altro a che vedere con la paura della morte insita dentro di noi, con il desiderio di rivedere ancora coloro che abbiamo amato e perso, e con molte altre cose. Tutte umanissime, per carità. Ma la fede? In tutto ciò, che posto ha? Io non so dirlo, ma tant’è.
A mio avviso, il significato di un film come “Martyrs” di Pascal Laugier (2008), l’horror francese che ha scioccato il mondo, sta tutto, o prevalentemente, qui. Se aveste la possibilità di gettare uno sguardo, anche indiretto, sull’aldilà, lo fareste?

lunedì 23 settembre 2013

La vera natura dell'Uomo Verde

Rosslyn Chapel, Scozia. Una delle oltre cento raffigurazioni
dell’Uomo Verde presenti nella chiesa. L’Uomo Verde
viene generalmente interpretato come un simbolo di fertilità
pagana derivante dalla tradizione celtica, né buono né cattivo,
ma piuttosto con caratteristiche in bilico tra bene e male
Figura dalla potenza ancestrale, l'Uomo Verde incuriosisce e affascina perché sembra toccare corde profonde e inesplorate dentro di noi. Eppure non se ne parla molto e, quando lo si fa, l'argomento viene liquidato in fretta e spesso in modo non soddisfacente.
Se si è arrivati a sviscerare abbastanza bene l'origine di questi fregi, non si sono fatti molti tentativi per comprendere il significato nascosto all’ombra di quello convenzionale, universalmente accettato come veritiero. Il problema è che non esistono descrizioni dell’Uomo Verde in letteratura che ci possano aiutare, come invece ne esistono per altri tipi di simboli (ad esempio nei bestiari medievali), perciò nessuna interpretazione potrà mai essere indicata come assoluta. Signore e signori, ci troviamo in un terreno minato nel quale qualsiasi ipotesi si decida di abbracciare dovrà essere considerata necessariamente un'opinione, e non un fatto assodato.

Dell'Uomo Verde sapevo quel che sanno tutti, ovvero che si tratta di un simbolo pagano da interpretarsi come la raffigurazione dell'unione e del rispetto che i pagani nutrivano per la natura: Osiride, Nettuno, il titano Oceano, Artemide e suo fratello Dioniso, Pan, le ninfe driadi e amadriadi e il mito della Grande Madre sono solo esempi della divinizzazione della natura operata nel tempo dall'uomo. Un simbolo perpetuato per secoli da anonimi artisti che silenziosamente osteggiavano l'ortodossia cristiana a favore di fedi più antiche. Un simbolo che nel secolo scorso si è trasformato in simbolo di rinascita, un archetipo che indica il risvegliarsi della natura, ovvero la primavera, significato ripreso dalle cerimonie wiccan e dai numerosi festival dedicati all'Uomo Verde che si tengono annualmente in varie parti d'Europa (come quello di Clun, nella regione scozzese dello Shropshire). Per i neopagani si tratta di una rappresentazione del lato maschile del divino, un simbolo di forza e determinazione che probabilmente rimanda a tempi remoti in cui queste qualità erano indispensabili per la caccia e, quindi, per la sopravvivenza.

mercoledì 18 settembre 2013

Un cittadino di Carcosa

Esistono diversi tipi di morte: in alcuni il corpo rimane, in altri svanisce insieme allo spirito. Questo di solito succede in solitudine (tale è il volere di Dio) e, non vedendo la fine, diciamo che l’uomo si è perso, o è partito per un lungo viaggio, come infatti avvenne; ma qualche volta può accadere in vista di molti, come mostra un’ampia testimonianza al riguardo. In un tipo di morte, anche lo spirito muore, e questo può accadere mentre il corpo rimane vigoroso per molti anni. Talora, come è veridicamente attestato, lo spirito muore insieme al corpo, ma dopo un certo tempo risorge nuovamente in quel luogo  in cui il corpo si è putrefatto. (The Secret Book of Hali)
Con queste parole si apre il sipario su “Un cittadino di Carcosa”, il racconto forse più caratteristico della vasta produzione di Ambrose Bierce, giornalista e scrittore statunitense, con il quale inizieremo un lungo percorso che ci porterà (come anticipato qui qualche giorno fa) a scoprire una mitologia ormai quasi dimenticata. Una mitologia che ha anticipato di un paio di decenni (e palesemente ispirato) quella, ben più nota, partorita dalla penna di Howard Phillips Lovecraft.

venerdì 13 settembre 2013

Vuoi vedermi morire?

Pom, sei sicuro che Chaba sia quella che ha rapito i bambini? Ne sei sicuro? Sembra così fragile. Riesce a malapena a camminare.
Ci fu un fatto di cronaca, uno di quelli che fece parlare per diverso tempo stampa e televisione. A quel tempo diversi bambini scomparvero senza lasciare traccia nella piccola comunità di xxxxx, in Thailandia. Per lungo tempo le ricerche degli investigatori si rivelarono infruttuose. Diverse piste furono seguite. Prima tra tutte si indagò, come è uso fare in queste occasioni, negli ambienti familiari, ma l’ipotesi venne a cadere ben presto quando, dopo l’ennesima sparizione, divenne evidente a tutti che si trattava di qualcosa di ben più spaventoso. Non c’erano indiziati. Nessuno aveva notato facce nuove in città da diversi mesi e, tra i concittadini, non c’era nessuno che potesse anche vagamente corrispondere alle caratteristiche tipiche di un predatore. Nelle settimane e nei mesi successivi le abitudini delle famiglie si adeguarono alla nuova realtà: alcuni genitori si organizzarono e a turno, volontariamente, prima affiancarono le forze dell’ordine nelle ricerche e poi, quando il nervosismo crebbe, alcuni presero a seguire nuove piste autonomamente. Fu proprio in questo modo che il caso alla fine venne risolto, anche se non felicemente come molti si auguravano.

domenica 8 settembre 2013

L'ultimo show di Mary

Se siete amanti degli animali forse è meglio che vi avverta sin da ora: la tragica storia dell’elefantessa Mary, che andrete tra poco a leggere in questo blog, vi lascerà con l’amaro in bocca. Non ci credete? Diciamo che oggi, nell’era di internet e con il rapido diffondersi dei canali social, le notizie a proposito dei maltrattamenti sugli animali si sono moltiplicate a tal punto che molti addirittura se ne sono assuefatti e non ci fanno più caso, per cui è probabile che questa storia vi potrà sembrare solo una delle tante. Che assurdità, però. Ci pensate? Siamo in grado di abituarci davvero a tutto. Forse è proprio per questo che la nostra società sta andando a rotoli. E pensare che non c’è nulla di più odioso di un’inutile e crudele atto di violenza nei confronti di chi, senza colpa alcuna, è costretto suo malgrado a condividere questo merdoso pianeta con una delle razze più spregevoli, più superbe, più egoiste che nemmeno il più folle scrittore di fantascienza avrebbe mai potuto immaginare. 
Non so descrivere quello che ho provato quando sono venuto a conoscenza di questa storia, avvenuta ormai quasi un secolo fa a Erwin (Tennessee). È passato un sacco di tempo, potrà obiettare qualcuno, perché andare a rivangare così lontano? Come dargli torto completamente? Credo però che riportare alla luce queste vecchie storie dimenticate possa servire a noi, abitanti del XXI secolo, a farci riflettere. Non mi aspetto di cambiare il mondo con un blog, per me sarebbe già un successo se almeno un visitatore, anche occasionale, capitato magari qui per colpa di un click sbagliato, possa fermarsi un momento a riflettere e magari, se ne ha uno, allungare la mano sotto il tavolo e dare una carezza o una palpatina al proprio “scodinzolante” da parte mia.

martedì 3 settembre 2013

Il frutto della conoscenza

Non ci sarebbe stata alcuna battaglia tremenda fra la luce e le tenebre, quando Dio avesse riconosciuto la sua presenza. Non ci sarebbe stata nessuna battaglia perché lei era già stata sconfitta, giudicata e punita in un colpo solo. Non c'era alcuna gloria, solo quell'insopportabile desiderio, una fame spirituale più insaziabile di qualsiasi fame che la carne potesse mai provare, per l'uomo che non avrebbe più avuto.
Così si delinea il destino di Lilith nell’immaginazione di Catherine Lucille Moore, una delle migliori scrittrici di fantascienza di tutti i tempi (1911-1987): americana, cominciò a pubblicare le sue opere nel 1933 sulla rivista Weird Tales firmandosi come C. L. Moore, e grazie a questo espediente poté nascondere al pubblico di essere una donna per lunghissimo tempo (all'epoca una donna che scrivesse storie di fantascienza sarebbe stata una stranezza e la Moore, che naturalmente lo sapeva, da persona intelligente non esitò a spacciarsi per un uomo pur di farsi prendere sul serio).

Il racconto da cui è tratta la citazione riportata qualche riga fa è “Il frutto della conoscenza” (Fruit of Knowledge, 1940) dove, per la verità, più che nella fantascienza, si entra in pieno in territorio fantasy. È considerato un racconto minore nella non molto estesa produzione della scrittrice, ma non per questo è privo di interesse, perché l'Autrice lo usa come pretesto per rileggere a modo suo il mito di Lilith e della creazione, tratteggiando un personaggio (sembra un paradosso, ma non lo è) dai tratti profondamente umani, punito atrocemente per il suo breve “soggiorno nei cinque sensi” come prima donna nel Giardino dell'Eden, persino prima della stessa Eva.

giovedì 29 agosto 2013

La perduta Carcosa

Lungo la spiaggia onde di nubi si frangono, i Soli gemelli s’affondano nel lago, le ombre si allungano in Carcosa. Strana è la notte in cui sorgono stelle nere e strane lune ruotano nei cieli. Ma ancora più strana è la perduta Carcosa. Canzoni che le iadi canteranno, là dove s’agitano i cenci del Re, muoiono inascoltate nell’oscura Carcosa. Canto dell’anima mia, la mia voce è spenta. Anche tu muori, mai nato, come una lacrima mai pianta s’asciuga e muore nella perduta Carcosa.
Sono trascorsi ormai oltre cent’anni dal giorno in cui il nome di Carcosa è riemerso dall’oblio. Carcosa, la città dimenticata, la città sulle rive dal lago Hali, il lago dove si riflettono i Soli gemelli, dove la notte è rischiarata da strane lune e il cielo è punteggiato da stelle nere. Mari d’inchiostro sono stati versati, fino ad oggi inutilmente, per svelarne i misteri. Giorni e notti sono trascorsi nella vana ricerca della perduta Carcosa. Notti e giorni sono stati spesi nel vano tentativo di incrociare una parola, una frase rivelatrice, di scovare la pagina che si nasconde nella vasta letteratura che è giunta fino a noi.

sabato 24 agosto 2013

Saint Conan's Kirk (Pt.2)

Dal chiostro si accede direttamente, di fronte, alla cappella di St. Conval, il cui nome rimanda nuovamente a Inchinnan: San Conval (detto “il Confessore”) nacque in Irlanda e sbarcò in Scozia proprio in quella città, ufficialmente a bordo di una nave ma, in base alla leggenda, trasportato su una grossa pietra piatta che miracolosamente fluttuava sulle acque! Questa cappella conserva le spoglie mortali di Walter e Helen Campbell e sulla pietra tombale è raffigurato proprio Walter Campbell, mentre l'epigrafe recita “And the Lord spake saying, let them make me a sanctuary that I may live among them”, ovvero “E mi facciano un santuario perch'io abiti in mezzo a loro” (Esodo, 25, 8), frase senza dubbio molto calzante.

Sul soffitto vicino all'abside è stata ricavata una piccola finestra a forma di stella dalla quale, si dice, la luce del sole che sorge penetra e va a centrare l'effige di Campbell. Allo stesso modo, in occasione del tramonto, dalla stessa apertura è visibile il pianeta Venere (the evening star). Noi non abbiamo potuto verificare la veridicità di questa affermazione, ma non era certo l'ora adatta...

martedì 20 agosto 2013

Saint Conan's Kirk (Pt.1)

Credo che mai come questa volta uno dei miei post sia stato più prevedibile. La Scozia! Come non parlare della Scozia? Almeno fintantoché i miei ricordi sono ancora così vividi, lasciatemelo fare. Ma almeno per oggi non vi tedierò narrandovi delle solite location turistiche, dei magnificenti castelli e degli scenari mozzafiato, né vi ammorberò con i soliti luoghi comuni su Nessie e sul Sacro Graal, perché alla fine non saranno probabilmente queste le cose che ricorderò più a lungo. Quello che più mi ha colpito dell'antica Scozia in realtà è una costruzione che nella sua forma attuale ha meno di cent'anni.
Se la Saint Conan's Kirk negli ultimi anni ha acquisito una certa fama, almeno localmente, questo è dovuto di certo anche alla sua meravigliosa posizione proprio a ridosso del Loch Awe, nella regione dell'Argyll. Io però ne ignoravo del tutto l'esistenza: è stato solo per caso se qualche giorno fa, guidando in direzione di Oban, attraversando il villaggio di Lochawe ho notato una costruzione a lato strada e, resomi conto che si trattava di una chiesa, ho deciso d'impulso di fermarmi ed entrare a dare un'occhiata. Oltre le sue mura mi attendeva una piacevole sorpresa.

domenica 18 agosto 2013

Back to the Blog!

Laddove c’è un inizio, per forza di cose deve esserci anche una fine. Se quello che c’è in mezzo è poi particolarmente bello e piacevole, allora ecco che per uno strano fenomeno i due estremi si avvicinano. E così è stato per le mie vacanze, volate in un attimo e ormai irrimediabilmente scomparse alle mie spalle. Ho girato la Scozia in lungo e in largo, macinando migliaia di chilometri e scattando migliaia di fotografie. Ho conosciuto un sacco di persone interessanti e ho visto un sacco di posti incantevoli. Ho anche fatto il pieno di “junk food”, senza nemmeno sentirmi troppo in colpa visto che spesso non c’era altro che quello. Sono stato alla ricerca del Graal nella piccola cappella di Rosslyn e ho trascorso ore scrutando la superficie del Loch Ness. Sarò riuscito nel mio intento? Lo saprete presto (non so se lo saprete oggi, ma sarà comunque presto).
Da domani sarà ancora lavoro, ma non voglio pensarci adesso: voglio godermi le mie ultime “ore d’aria” dedicandomi a una delle cose che mi sono mancate di più nelle ultime due settimane, vale a dire il blog. E non sto parlando solo di questo blog, trascurato come mai prima era stato trascurato, ma anche di tutti i blog che seguo normalmente e che, nonostante alcuni sporadici tentativi di connessione, ho dovuto lasciar andare per la loro strada. La connessione infatti non è mai stata il massimo da quelle parti. Sarà un po’ per colpa di questo maledetto smartphone, ma solo negli ultimi due giorni ad Edimburgo sono riuscito ad agganciarmi ad un wifi abbastanza decente: il resto è stato silenzio-radio. 

martedì 30 luglio 2013

Scottish Mood

Il mese di luglio è ormai agli sgoccioli. Il caldo è opprimente. L’aria condizionata ha smesso di funzionare ormai da molto tempo ed io mi ritrovo a vagare per casa in mutande, mentre lancio i dadi per decidere se mettermi a scrivere queste righe, infilarmi nuovamente sotto la doccia, oppure aprire la porta del frigorifero, agguantare una birra gelata e sbattermi sul divano a cazzeggiare con lo smartphone. Ancora una settimana di lavoro e poi finalmente potrò mettermi alle spalle una stagione tra le più dannatamente difficili da quando ho iniziato a fare il mestiere che faccio. Il mio capo si è già levato dai maroni e per le prossime settimane dovrebbe rimanersene sdraiato a prendere il sole, avanti e indietro in barca tra l’Elba e la Capraia. Ovviamente il suo ultimo giorno non ha fatto eccezione: c’è stato il solito immotivato alterco quotidiano, evidentemente necessario per poter soddisfare quel  suo ego smisurato. “Ad Ovest niente di nuovo”, disse tanti anni fa Erich Maria Remarque. Io invece oggi posso dire: “Sulla Ovest niente di nuovo”. E infatti sulla Ovest c’è ancora il solito casino. A rendere il tutto ancora più stressante c’è il fatto  che la “mia” azienda abbia appena traslocato, generandomi chilometri extra di tangenziale di cui davvero non sentivo il bisogno. Ma non è il caso di preoccuparsene adesso. Ancora pochi giorni e mi metterò in standby pure io e con me andrà in pausa pure il blog perché, come si dice, quando ci vuole ci vuole.

mercoledì 24 luglio 2013

La ricerca dell’immortalità

Di mummie ho già scritto in precedenza su questo blog, e se ci torno su nuovamente è perché trovo l’argomento molto interessante, e più prosaico, e meno orrorifico (o meramente orrorifico, se preferite) di quanto di primo acchito si possa pensare. Ora qualcuno storcerà il naso, forse. Se così fosse, spero di contribuire a farlo ricredere… complice un vecchio dossier sull’ormai scomparsa rivista "Hera" che mi ha dato l’idea di addentrarmi nel seguente excursus nel poco esplorato mondo delle mummie.
Se il binomio mummia/Egitto è ormai idea radicata, la mummia non è certo prerogativa unica di quell’area geografica, né di quella cultura o di quell’epoca. Ci sono mummie che invece di pochi millenni hanno solo pochi secoli, o pochi decenni… mummie su suolo europeo, o asiatico… mummie “religiose” e mummie “politiche”… Non c’è praticamente luogo al mondo che non abbia le sue mummie, perché la conservazione del corpo, in primis, non è che un tentativo di raggiungere simbolicamente l’immortalità, cosa che, prima ancora che appannaggio dei potenti (come i faraoni) era prerogativa di un’altra categoria di eletti, gli artisti, che con i loro versi o pitture immortali, eccetera eccetera, si assicuravano un posto duraturo nella memoria dei posteri, nella storia dell’umanità. Sto parlando di conservazione volontaria del corpo, ovviamente, e non di quei casi in cui le condizioni climatiche unite al caso hanno permesso ad un corpo di mantenersi integro, invece che deteriorarsi come natura vorrebbe.

venerdì 19 luglio 2013

Secchiate di rosso a 170Hz

Credo che per poter cogliere appieno anche le più sottili sfumature di questo film olandese, dal curioso titolo di “170 Hz”, bisognerebbe immedesimarsi completamente nei suoi due protagonisti. Bisognerebbe in primis avere un’età vagamente “tardo-adolescenziale”, se mi passate il termine, e in secondo luogo avere alle spalle una famiglia discretamente alto borghese, in modo da potersi permettere, senza grosse ripercussioni, uno spensierato atteggiamento da “rebel without a cause”. Su quest’ultimo punto non posso esprimermi, visto che provengo da una famiglia operaia (anche se l’idea di fare il ribelle è balenata nella mente anche a me ad un certo punto, un po’ come a tutti, senza tuttavia risultare credibile nemmeno a me stesso). Sul primo punto mantengo pure qualche riserva: è vero che un “tardo-adolescente” lo sono stato anch’io qualche tempo fa, ma è anche vero che ho trascorso quegli anni meravigliosi a zonzo nelle periferie di Milano, anziché in una moderna e disinibita città del Nord Europa. Ah, dimenticavo… e in terzo luogo bisognerebbe essere sordomuti, come Evy e Nick, i due teenager di cui sopra. Queste sono le premesse.

lunedì 15 luglio 2013

Full Moon Madness

Milano, marzo 2007. Rainbow Club. È lunedì sera e nel locale semibuio ci sono sì e no una cinquantina di persone. O di più, forse anche molte di più ed è la mia memoria che m'inganna, ma cambia poco: il locale, già di suo non grandissimo, è semivuoto. Quando parte la musica, però, i più sfegatati si accalcano davanti al palco saltando, pogando e gridando a squarciagola le parole delle canzoni. Io mi tengo un po' in disparte, sullo sfondo, ma sono ipnotizzato da quello che sta succedendo a pochi metri da me. Alla fine il concerto sarà memorabile. Sarà perché sono portoghesi, ma i Moonspell sono un gruppo, a dir poco, malinconico. Non di quella malinconia cupa e spesso rabbiosa tipica delle terre del nord, no, di una malinconia un po’ più pacata, ma forse anche più disperata.

venerdì 12 luglio 2013

Certi... concerti

Quella che vado a presentare oggi è una nuova rubrica fissa che ho deciso di inaugurare su questo blog a partire da questo 2013. È la prima volta che da queste parti appare qualcosa di vagamente simile ad un appuntamento fisso (se non contiamo “Luoghi incredibili” e le sezioni dedicate al cinema e alla letteratura), più che altro perché non mi piace prendere impegni che non sono certo di poter mantenere. Mi riservo pertanto di assegnare alla rubrica una periodicità variabile, in modo che possa permettermi di ignorarla allegramente, anche per mesi, nel caso mi dovessi rendere conto che l’entusiasmo iniziale dovesse scemare. Ho voluto intitolare questa rubrica “Certi Concerti”, il che già dice parecchio su ciò che ho in mente. Si parlerà sicuramente di musica dal vivo, quindi, ma non solo di questo. Ma prima di continuare è necessario raccontare un piccolo antefatto...

lunedì 8 luglio 2013

L'altra parte (Pt.2)

Nella seconda parte del romanzo il Regno del sogno comincia a sgretolarsi, implodendo in un processo di decadimento così rapido che, più che del sovrannaturale, ha dell'apocalittico; questo mentre le ultime illusioni circa la vera natura del Regno del sogno vengono a cadere e un ricco fabbricante di carne in scatola americano, Ercole Bell, si scontra con Patera. 
Era un oceano di sangue che si estendeva laggiù, fin dove spaziava il mio sguardo. I flutti purpurei e bollenti salivano sempre più in alto, i miei piedi erano lambiti dalla spuma rosata della risacca. Un sentore nauseabondo mi penetrò il naso. Il mare rosso si ritirò e imputridì davanti ai miei occhi; il sangue divenne sempre più denso, più scuro, più nero, con dei riflessi, ogni tanto, che avevano tutti i colori dell’arcobaleno. Più volte il liquido denso si aprì, rendendo visibile il fondo di quel mare, che era ricoperto di un limo molle ed esalava miasmi pestilenziali. Patera e l’americano si attanagliarono in una massa informe: l’americano era divenuto ormai un corpo solo con Patera. Un corpo mastodontico che era impossibile abbracciare con lo sguardo e che si rotolava in tutte le direzioni. Quell’essere senza forma possedeva la natura di un Proteo: sulla sua superficie si formavano milioni di piccoli volti cangianti, che parlavano, cantavano e gridavano tutti insieme e poi si disfacevano.

venerdì 5 luglio 2013

L'altra parte (Pt.1)

Si dice che le persone più creative siano anche quelle più inquiete, irrisolte. Questa definizione calza a pennello ad Alfred Kubin (1877-1959), dei più grandi disegnatori del '900, divenuto famoso in Italia a seguito di una mostra del 1952 inaugurata dalla Biennale di Venezia, ma poi più o meno caduto nell'oblio. Disegnatore fantastico, sapeva mettere su carta “tutte le sensazioni possibili”, trasformandole in un immaginario morboso: amore, morte, disperazione e così via. Per farlo attingeva ai suoi sogni, ai suoi incubi, ma anche, certamente, ai suoi ricordi.
Nel 1909, appena trentunenne, Kubin pubblicò “L'altra parte”, il suo unico romanzo compiuto, considerato il primo romanzo espressionista della storia, o più spesso definito pre-espressionista, a voler sottolineare lo spirito pionieristico del suo autore nell'affrontare e sviscerare un certo tipo di tematiche. All'epoca Kubin era già un illustratore di una certa fama, anche se la sua consacrazione avvenne più tardi, con la maturità artistica, ma alla morte del padre, l'anno precedente, aveva reagito malissimo; al padre lo legava un complesso rapporto di amore-odio e, come se ciò non bastasse, il lutto era sopraggiunto nella sua vita al culmine di un periodo di profonda prostrazione psicologica e di crisi creativa. Forse per questo Kubin, non riuscendo ad esprimersi con il disegno come desiderava, affidò le sue emozioni a questo romanzo cupo e bellissimo nel quale è possibile leggere il suo disagio interiore, la sua sofferenza. Un romanzo che passato il primo, e poi il secondo dopoguerra, con l'arrivo di tempi meno cupi avrebbe facilmente potuto cadere nel dimenticatoio, e invece è sopravvissuto all'usura del tempo mantenendo inalterata la sua dirompente forza.

lunedì 1 luglio 2013

Issun-bōshi

Come forse vi ho già detto, amo le fiabe e leggo volentieri tutti i tentativi di interpretazione (psicologica, antropologica o esoterica che sia) che se ne fanno. Mi affascina soprattutto vedere come dalla stessa matrice possano prender vita storie che parlano della realtà da angolazioni molto diverse (è lo stesso con i miti della religione, se è per quello); del resto siamo umani e tendiamo, con buona pace di Galileo, a mettere noi stessi e ciò che ci circonda più da vicino sempre al centro dell'universo.
Per esempio, sapevate che la storia di una creatura alta appena un pollice è diffusa in molte varianti un po' in tutto il mondo? La fiaba “Tom Pouce” di Charles Perrault del 1697 (ripresa dai fratelli Grimm nel 1800) in italiano si chiama “Pollicino”,  in inglese “Tom Thumb”, in tedesco "Daumesdick”, in spagnolo “Pulgarcito”, in portoghese “O Pequeno Polegar”, e poi ci sono varianti in danese, polacco, russo, olandese…  persino vietnamita. E il Giappone? Di certo non poteva mancare all’appello, anzi quella di cui vi parlerò oggi è proprio la storia del Pollicino del Sol Levante, Issun-bōshi (一寸法師): “Issun-bōshi from OtogizōshiIssun-bōsh”.

venerdì 21 giugno 2013

Giugno '73

Sì, avete letto bene. Lo so. Lo so che è il 2013. Volevo proprio scrivere “Giugno ‘73”. Il fatto è che da qualche giorno, così casualmente, suona ininterrottamente nella mia testa (e nel mio lettore CD) quella vecchia canzone di Fabrizio De André. Ho improvvisamente realizzato che sono passati esattamente 40 anni da quel lontano mese di giugno cantato da Faber, e allora mi sono sentito salire dentro l’idea di questo post, di questo ultimo post di giugno (me ne andrò infatti qualche giorno in vacanza sperando di ritrovarvi tutti a luglio)
Fabrizio De André scrisse questa canzone qualche anno dopo, esattamente nel 1975, e la inserì nel suo album Volume VIII”. Io a quei tempi ero piccolino: ci avrei messo molti anni ancora per innamorarmi delle canzoni del Grande Genovese e questa “Giugno ‘73”, in particolare, è una di quelle che ho sempre preferito. Il fatto è che è impossibile non lasciarsi trasportare da quella voce così malinconica, da quelle note di una semplicità quasi imbarazzante e da quelle parole così intense e ricche di significato. Ecco, appunto, l’interpretazione di “Giugno ‘73” è praticamente lo scopo del post di oggi. Non sarà per nulla facile: molte parole sembrano buttate lì a caso, senza uno scopo apparente. Ci sono solo alcuni passaggi abbastanza chiari che lasciano poco spazio al dubbio, ma la maggior parte del testo è davvero criptica. Ho letto in rete diverse opinioni circa il significato di questo testo, che riporterò laddove necessario, ma qui cercherò di  fare qualche passo in più. Perlomeno questo è il mio proposito: non è nemmeno detto che ci riesca.

lunedì 17 giugno 2013

Pareti d'ossa

Sì! tale sarete, o regina delle grazie,/ dopo gli ultimi sacramenti,/ quando andrete sotto l'erba e i rigogliosi fiori,/ a marcire tra le ossa. (Charles Baudelaire, Una carogna, I fiori del male, 1857/61).
Diversi mesi fa, proprio all’inizio di gennaio, accennai in un post a quelli che avrebbero dovuto divenire i contenuti di Obsidian Mirror nel 2013. Sono passati quasi 6 mesi, ho pubblicato nel frattempo un’abbondante trentina di post, ma ancora non ho mosso un passo per realizzare quei propositi originali. Oggi però ho deciso di fermarmi un attimo e ritornare su quanto promesso in quella sera d’inverno e che, i più attenti se ne saranno accorti, ho ripromesso qualche giorno fa nella sezione “Oltre lo specchio”. A quel tempo scrissi, testuali parole: “Un’altra iniziativa nasce dall’analisi dei contenuti fino a qui inseriti nel blog. Mentre realizzavo l’indice degli argomenti, mi sono reso conto che ho parlato tanto di cinema ma, paradossalmente, poco di quegli argomenti che facevano parte della mia idea iniziale di “The Obsidian Mirror”: vale a dire leggende e misteri. Andremo insieme quindi a visitare luoghi affascinanti, magari qualche castello, qualche chiesa o qualche cimitero, perché no? Armato di macchina fotografica mi lancerò alla ricerca di storie da raccontare, partendo magari dalla mia stessa città, Milano, città che offre un sacco di spunti ma che, per chi ci vive tutti i giorni, è dannatamente difficile fermarsi ad osservare con gli occhi curiosi del turista.”
Eccoci qui quindi con la prima puntata di una rubrica che intitolerò “Luoghi incredibili”. Ma la prima domanda a cui rispondere è "perché questo titolo?".

mercoledì 12 giugno 2013

Cosa vedi quando chiudi gli occhi?

Coscienza: la consapevolezza di far parte del mondo ma di avere anche un’individualità, e di riconoscere le individualità altrui. Un prodotto dell’evoluzione che ha permesso all’uomo di differenziarsi dal regno animale e sopravvivere in un ambiente ostile.

Intelligenza artificiale: dalla coscienza deriva in massima parte l’intelligenza, come possono quindi le macchine, esseri senza coscienza per antonomasia, essere davvero intelligenti? Come instillare la coscienza in qualcosa di inanimato?

Intelligenza emotiva: l’abilità di percepire, valutare ed esprimere un’emozione, di accedere ai sentimenti e/o crearli quando facilitano i pensieri, di capire l’emozione e la conoscenza emotiva, di regolare le emozioni per promuovere la crescita emotiva e intellettuale. Include l’apprendimento attraverso la consapevolezza e il dominio di sé, la motivazione, l'empatia, l'abilità sociale.

Questa recensione non poteva che cominciare dal fondo. Vi dico subito che il film è “Eva” (2011) di Kike Maíllo, e che il tema è l'intelligenza artificiale, ma chi l'ha già visto l'avrà intuito subito: è infatti quasi alla fine di questo film che il protagonista Alex pronuncia la domanda riportata là in alto, nel titolo, è con quella domanda che  di fatto il cerchio si chiude.

domenica 9 giugno 2013

La nona porta

De Umbrarum Regni Noven Portis, Venetiae, apud Aristidem Torchiam. MLCLXVI. In-folio. 160 pag. compr. Frontespizio. 9 illustrazioni legno fuori testo. Di eccezionale rarità. Solo tre esempl. Conosciuti. Biblioteca Fargas, Sintra, Portogallo (vedi illustrazione). Bliblioteca Coy, Madrid, Spagna (mancante della tavola 9). Biblioteca Morel, Parigi, Francia. Esemplare privo di ex-libris e di annotazioni manoscritte. Completo secondo il catalogo asta della collezione Terral-Coy (Claymore, Madrid). Errore in Mateu (8 tavole invece di 9 in questo esemplare). 
Vi sono libri che non esistono e libri che invece esistono ma non dovrebbero essere mai esistiti. Fa parte della prima categoria (psudobiblium), per esempio, l’esecrando “Necronomicon”, uscito dalla fantasia di H.P. Lovecraft. Fa invece parte della seconda categoria il “De Masticatione Mortuari in Tumulis” del tedesco Micheal Ranft (di cui ho parlato molto tempo fa proprio qui sul blog). “Le nove porte del Regno delle Ombre” (De Umbrarum Regni Novem Portis), scritto e stampato nel 1666 da tale Aristide Torchia, un non meglio definito esoterista veneziano, processato e condannato al rogo dalla Santa Inquisizione, è un po’ l’uno e un po’ l’altro. È un libro che, a quanto pare, esisterebbe solo nella fantasia di Arturo Pérez-Reverte, che nel 1993 ne parlò in un suo romanzo (Il club Dumas), o forse è un libro che ne citerebbe un altro, molto più antico, scritto dalla mano di Lucifero in persona. Le nove porte, se esistono veramente, bisognerebbe quindi tenerle ben chiuse. Ma voi penserete che io sia pazzo e probabilmente non avete tutti i torti.

martedì 4 giugno 2013

Luci ed ombre nella Tempesta

Tra i tanti artisti che hanno lasciato un segno indelebile nel Rinascimento italiano, vale a dire il periodo storico a cavallo del XV secolo, troviamo una figura che ho sempre ritenuto essere particolarmente affascinante. Di lui non sappiamo molto, se non ciò che ci è stato tramandato da quei pochi scritti che sono giunti fino a noi e che ne testimoniano la presenza  nello scenario veneziano di quegli anni. Il suo nome era Giorgio Gasparini, ma forse è meglio chiamarlo qui con lo pseudonimo con il quale è meglio conosciuto, vale a dire Giorgione.
Nonostante l’ enorme popolarità, la sua è una delle figure più enigmatiche della storia della pittura: non se ne conoscono le origini, non si hanno notizie sugli anni della sua giovinezza e non se ne conosce l’educazione. È come si fosse materializzato improvvisamente su questa terra, come fosse giunto dal nulla e, nel giro di pochi anni, sia riuscito a dipingere alcuni tra i capolavori più ricercati, capolavori che tuttora occupano un posto d’onore nei più importanti musei del mondo. Dopodiché egli scompare, poco più che trentenne, si dice a causa dell’epidemia di peste che infuriò a Venezia nel 1510. In realtà, le opere a lui attribuite sono solo frutto della deduzione degli studiosi, visto che Giorgione non firmò nessuno dei suoi quadri, il che aggiunge un pizzico di mistero ad una figura di per sé già profondamente misteriosa. Ma non è tutto: i soggetti rappresentati sui dipinti a lui attribuiti sono tra i più criptici dell’epoca e, per secoli, sono stati oggetto  di innumerevoli tentativi di interpretazione. Tra le tante, l’opera più enigmatica è senza dubbio un olio su tela, di datazione incerta, conservato nelle Gallerie dell'Accademia a Venezia: la celeberrima “Tempesta”. Lo scopo di questo articolo è cercare di leggerne il significato nascosto e per fare questo ho chiesto aiuto alla mia collega blogger Marcella, che già in passato mi ha seguito con entusiasmo in un altro progetto simile a questo.

venerdì 31 maggio 2013

Il diabolico barbiere di Fleet Street

Davvero pensavate che la mia irruzione nel mondo di Sweeney Todd potesse limitarsi alla sola analisi del film di Tim Burton? Da curioso indagatore di leggende metropolitane, non posso non ammettere che è il personaggio che si cela dietro la finzione cinematografica quello che mi affascina maggiormente. La domanda fondamentale che mi sono fatto (e che si saranno fatti i migliaia di fan di Sweeney sparsi per il globo) è: il “barbiere tagliagole”, il boogeyman inglese per eccellenza, fu un personaggio reale? Ricominciamo quindi dall’inizio.
Londra, 1784: un barbiere assassino compare ufficialmente negli annali grazie ad un articolo del periodico “The London Chronical”. Lì si riportava, infatti, la notizia di un omicidio perpetrato da un barbiere ai danni di un suo cliente in un impeto di gelosia. Pare che la vittima si fosse vantata di una conquista amorosa con l'uomo, il quale, convintosi chissà come che l'altro stesse parlando di sua moglie, per vendicarsi lo sgozzò con il suo rasoio.

domenica 26 maggio 2013

Sweeney Todd

In principio ci fu il dramma teatrale di George  Dibdin Pitt, che debuttò al teatro Britanna ad Hoxton nel 1847. Poi, nel 1978, ci fu il musical  di Stephen Sondheim e Hugh Wheeler con Lou Cariou e Angela Lansbury. Seguirono poi innumerevoli versioni cinematografiche: la prima è un film perduto del 1926, di George Dewhurst, con G.A. Baughan come principale interprete, poi venne quella che probabilmente resterà per sempre la più famosa, vale a dire la pellicola di George King del 1936: qui il protagonista, Tod Slaughter, è lo stesso attore che prestò il volto a Sweeney Todd a teatro per oltre quattromila volte nel corso di una carriera durata una cinquantina d'anni.
“Sweeney Todd: Il diabolico barbiere di Fleet Street” di Tim Burton (2007) è un film di cui progettavo di parlare qui nel blog, prima o poi, ma quale migliore occasione del compleanno della coprotagonista Helena Bonham Carter per tener fede ai miei buoni propositi? Eh sì, perché il personaggio di Mrs. Lovett, nell’economia della storia, è importante quanto quella del protagonista maschile, e per certi versi anche di più... quindi, buon compleanno Helena!! A proposito, non l’ho ancora detto ma lo dico ora: oggi si festeggia alla grande su questo e altri blog! Oggi è l’HBCD (Helena Bonham Carter Day), un piccolo omaggio alla bella attrice britannica nel giorno delle sue 47 candeline!!! In fondo al post ho messo l’elenco dei blog partecipanti all’iniziativa: su ciascuno di essi oggi troverete la recensione di un suo film, scelto pescando a caso nella sua sterminata filmografia. Andate e cliccate, quindi! (magari però solo dopo aver passato qualche minuto del vostro tempo qui da me).

martedì 21 maggio 2013

Work(d)s in progress

Il lungo viaggio attraverso il mondo di Lovecraft e della sua mitologia si è appena concluso. È stato questo l’ennesimo post monumentale che, come potrete immaginare, mi ha assorbito una quantità indicibile di tempo e di energia. Oltretutto “Il culto di Lovecraft” giungeva subito dopo due articoli come “Hankechi” e “La cura Mesmer”, la cui redazione non è stata per niente un gioco da ragazzi. È giunto quindi il momento di tirare un po’ il fiato e di dedicarsi a qualche post un po’ più “leggero”, come questo o come quelli che seguiranno a ruota nelle prossime settimane. Anche perché, correggetemi se sbaglio, ho la sensazione che se da un lato post come quelli sopra citati danno una grande soddisfazione a chi li scrive e contribuiscono a consolidare il legame con i followers storici, dall’altro lato potrebbero intimorire chi su questo blog finisce per caso o senza troppa convinzione, attirato da un link o da una condivisione che qualcuno mi ha regalato da qualche parte. Il post di oggi è banalmente una chiacchierata, una specie di riempitivo tra un post e l’altro al quale ho assegnato la mia solita etichetta “comunicazioni di servizio”, tipica di quei post dove non si parla pressoché di nulla.
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