Vi capisco, beninteso. Ci vuole del coraggio per battezzare un’opera con un titolo come questo e altrettanto per leggere la storia di un individuo del genere, uno che comunemente è percepito come un pervertito, un malato, un pazzo. Però mi piace la dichiarazione d’intenti dell’Autrice, che non fa sconti e sceglie, fin dal titolo, di presentarci un tema difficile senza girarci attorno, ma nella sua nuda e cruda verità.
Del resto la Wittkop, al secolo Gabrielle Ménardeau (1920-2002) non si è mai tirata indietro davanti ad argomenti scabrosi, macabri, tanto che le sue opere spesso incentrate sul sesso, l’identità di genere e il senso di straniamento sono state accostate a quelle del marchese De Sade, di Auguste de Villiers de L'Isle-Adam, di Lautréamont, di Edgar Allan Poe e anche di Marcel Schwob. Anche la sua vita, coerentemente, fu vissuta in totale libertà, dal matrimonio con Justus Wittkop, un disertore tedesco omosessuale e di vent’anni più anziano di lei conosciuto nella Parigi occupata dai nazisti, all’ammissione della sua stessa omosessualità, fino ad arrivare alla morte forse avvenuta per suicidio (anche se in molti affermano che il cancro ai polmoni la sconfisse prima che potesse attuare i suoi propositi suicidi).
Il titolo del libro è un vero pugno nello stomaco, però se “Il necrofilo” è un libro erotico è anche, sottilmente, un libro filosofico e un dramma psicologico ed esistenziale, quello di un uomo votato agli amori impossibili: "L’amore necrofilo, il solo che sia puro, in quanto anche l’amor intellectualis, questa grande rosa bianca, aspira a essere corrisposto."
Se non c’è nulla di più triste di un amore a senso unico, allora il necrofilo è sicuramente condannato alla tristezza eterna. Un tema ripreso anche nelle Note all’edizione italiana, dove l’Autrice ribadisce il concetto, e poi prosegue dicendo: "Il lettore che venisse turbato dal mio testo non avrebbe dunque colto l’indissolubile legame tra la vita e la morte, e l’impossibilità di vivere felicemente rifiutando con ostinazione l’idea di dover morire."
Tra Eros e Thanatos, questo è un racconto che, anche se in modo del tutto peculiare, parla d’amore e solitudine, ma certo non è facile superare secoli di condizionamenti psicologici e abbracciare un punto di vista così, diciamo, socialmente sovversivo… Basta davvero cogliere l’indissolubile legame tra la vita e la morte per comprendere la necrofilia?
Ma facciamo un passo indietro. La macabra storia che mi accingo a raccontarvi, che nel romanzo ha la forma di un diario, è quella di Lucien N. Di professione antiquario, Lucien è un individuo solitario, refrattario al contatto con l’esterno, e non potrebbe essere altrimenti, perché è anche un necrofilo e questa sua passione non è qualcosa di cui si può parlare a voce alta. Ad appena otto anni di età egli perse la madre e durante la veglia funebre, osservando il suo corpo che giaceva sul letto e ritrovandosi a pensare che stentava a riconoscere sua madre “in quella donna che sembrava infinitamente più bella, più alta, più giovane, più maestosa di come gli era sempre apparsa”, Lucien provò i primi guizzi di dell’insano desiderio che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Sul suo diario Lucien riporta minuziosamente la sua continua ricerca di cadaveri freschi, muti compagni dei suoi giorni e delle sue notti. Questa ricerca per lui è un vero e proprio rito: dalla scelta del corpo – di donna, uomo o fanciullo che sia – alla sua sottrazione dal cimitero subito dopo la sepoltura, fino al trasporto, nel costante pericolo di venire scoperto, nel suo appartamento. È lì che Lucien vive i suoi amori, dei quali non ci viene risparmiato neppure il più piccolo, nauseabondo particolare: la sua lussuria spesso incontrollata, l’odore di bombice sui corpi, l’aspetto e gli umori (e i rumori) sempre meno “umani” dei cadaveri che perdono la freschezza, l’aria dell’appartamento di Lucien che si fa sempre più irrespirabile. Metaforicamente, per Lucien "i morti hanno l’odore del ritorno al cosmo, dell’alchimia sublime e […] nulla è più pulito di un morto, e lo diviene sempre più con il trascorrere del tempo, fino alla purezza finale della grande bambola d’avorio dal sorriso silenzioso, dalle gambe eternamente aperte, che è in ciascuno di noi."
Nella pratica, però, nonostante l’uso del ghiaccio e di altri accorgimenti per ritardare la putrefazione, prima o poi arriva il momento di disfarsi dei corpi, che egli ripone con cura in un sudario improvvisato e getta nel fiume per consegnarli all’eterno abbraccio delle acque “da cui tutto proviene e a cui tutto ritorna”. E quando quel momento arriva, per Lucien è tragedia: lui vive ogni separazione come un lutto, e un’angoscia terribile lo prende fino a che non trova un nuovo, temporaneo compagno. Un nuovo amore. Pensate forse che una storia simile possa avere un epilogo felice? No, vero? E infatti il destino di Lucien appare segnato: non può esserci requie per colui che ama la morte, e la sua esperienza umana è una parabola discendente che al lettore appare chiara fin dal principio. La libertà individuale finisce dove cominciano le regole dettate dal sentire comune, e colui che non le rispetta non può far parte della società.
È evidente che un’opera del genere si pone del tutto aldilà della morale corrente, ma vi dirò che, sebbene di primo acchito alcuni dettagli mi abbiano schifato, non sono rimasto così sconvolto dalla lettura come mi sarei aspettato. Non credo che sia perché che sono un soggetto dallo stomaco forte, ma piuttosto perché l’Autrice non ci mostra solo le brutture della morte, ma arricchisce il racconto di sottesi psicologici e di particolari commoventi, come il modo in cui Lucien parla ai cadaveri, la cura con cui li lava e li profuma o la delicatezza con cui li maneggia. Piccole attenzioni che ci mostrano come per lui quei corpi morti siano soggetti e non oggetti; la prova di una delicatezza d’animo che sembrerebbe stridere con l’esteriorità, a tratti bestiale, del suo comportamento.
Non sono uno psicologo e non posso che azzardare ipotesi molto blande, ma la mia impressione è che da un lato quest’uomo talmente impossibilitato a relazionarsi con persone vive da preferire la compagnia dei cadaveri non faccia, in fondo, del male a nessuno, a parte forse se stesso, e dall’altro viva nella ricerca costante della madre perduta troppo presto. Per colpa della sua stessa natura, Lucien rivive costantemente la ferita dell’abbandono, e si consuma nell’attesa dell’amore perfetto che non potrà mai avere: Lucien che di sé dice “solo la morte - la mia- mi libererà della disfatta, dalla ferita che ci infligge il tempo” non ha un posto nel mondo, alla luce del sole, e l’Amore gli sfugge inesorabilmente e per sempre.
Eh... difficile concepirlo un libro del genere, difficile scriverne e difficile pure da commentare. Però, ti dirò, io capisco quel che hai voluto dire e perché lo definisci interessante (l'hai detto, no?).
RispondiEliminaProvando a scavalcare il lato materiale (e abbastanza inquietante) del racconto credo si possa parlare molto dei risvolti psicologici di un uomo che ripone il suo amore verso soggetti che non potranno mai ricambiare; è quasi come un voler fallire di proposito, come se i corpi (e sto facendo un altro grosso sforzo di immedesimazione) passassero in secondo piano; veicoli un'apparente appagamento che in realtà è solo un rimbalzare da un'infelicità ad un'altra.Interessante, sì. Quasi quasi mi hai messo curiosità.
E ora, ad immedesimazione terminata, torno nel mio corpo e penso... MA QUALCHE LETTURA MENO MACABRA NO??? ;)
Ahahahah! Si, in effetti qualche lettura meno macabra ogni tanto ci starebbe bene, giusto per spezzare la monotonia. In realtà più che macabro lo definirei triste: in fondo se ci pensi bene l'argomento di questo libro non è molto diverso da quello delle
EliminaBelle Addormentate che ho recensito il mese scorso.
Direi che il testo potrebbe allontanare molti lettori, però come dice un grande scrittore: "un autore che si auto censuri fa solo cattiva letteratura"
RispondiEliminaHo paura che lo stesso stia accadendo anche qui sul blog. Ma viste così poche visite come per questo articolo...
EliminaArgomento scabroso, poco ma sicuro. L'autrice deve avere una penna formidabile per riuscire a far superare il disgusto e a rendere percepibile l'immensa tristezza che, per forza di cose, soggiace a una storia del genere...
RispondiEliminaIn vita mia ho partecipato solamente a due veglie funebri, e devo dire che Lucien doveva avere un complesso edipico profondamente radicato in sé, per ritrovarsi a pensare certe cose al funerale della madre. Il desiderio dev'essere intenso e teso a livello parossistico per riuscire anche solo a toccare, per non dire altro, un corpo morto.
Temo che, anche cogliendo "l'indissolubile legame tra la vita e la morte", rimarrei un po' turbata da questo libro. Amen, subirò la disapprovazione dell'autrice dall'aldilà :)
Anche solo il toccare con un dito un corpo morto è veramente orrendo. Così freddo, quasi di cartapesta. Non ci posso pensare. Complesso edipico? Non lo so. In realtà non c'è niente in un corpo molto che ricordi quello che era stato prima. E Lucien stesso lo conferma quando dice che "stentava a riconoscere sua madre in quella donna".
EliminaHo letto questo libro qualche anno fa. Confesso che in uno o due punti ho dovuto sospendere la lettura per qualche istante, ma nel complesso la scrittura è talmente elevata, se così posso esprimermi (non sono un critico letterario), il registro è così alto (e dire che l'ho letto in traduzione italiana), che questo "emancipa" una materia così scabrosa. Contrariaramente a quanto si potrebbe credere, non c'è traccia di morbosità, o di compiacimento - solo uno o due passaggi sono forse un poco "estetizzanti" (e forse sono quelli che mi hanno dato più fastidio di tutto il resto...).
RispondiEliminaGrazie per il contributo. Cominciavo a pensare di essere l'unico ad aver letto "Il necrofilo"....
EliminaQualcuno lo vende Il Necrofilo? :)
RispondiEliminaLa copia che ho io era stata pubblicata dalle Edizioni SE, ma per quanto ne so potrebbe anche essere oggi fuori catalogo.
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