"Tutto quel che faccio, è un modo di passare il tempo, nulla a che vedere con l'arte o la letteratura. E' un'attività particolare poco più eleborata di quella delle formiche e dei ragni. Non potrei immaginare per un solo istante che ciò che faccio è un lavoro. La parola lavoro mi fa orrore”. In questo modo descrive se stesso Marcel Mariën (1920-1993) poliedrico artista belga, allievo di René Magritte.
Poeta, saggista, filosofo, fotografo, storico, disegnatore, Marcel Mariën fu una delle figure più intriganti del movimento surrealista di André Breton, che "si fonda su visioni oniriche, sul recupero della prolifica immaginazione infantile, sulla malattia mentale come rivelatrice di verità, sull'abolizione della logica in favore dell'automatismo".
Per usare parole semplici, il surrealismo è un escamotage per materializzare qualunque fantasia, anche la più malata, confezionarla ad arte, metterci magari un bel fiocchetto, e spacciarla per qualcosa di talmente colto e geniale da non poter venire intesa che da pochi magnifici adepti. Ammetto che la mia affermazione possa sembrare riduttiva e sono certo che avrò fatto storcere il naso a qualcuno. D'altra parte lo confermano le parole dello stesso Mariën, che ho citato qui sopra in apertura di post, e sono certo che decine di artisti o pseudo-tali abbiano sposato il surrealismo proprio per non dover essere costretti a spiegare i propri lavori o per giustificare quelli venuti male.