martedì 25 dicembre 2012

Tarli Natalizi (senza cornici)

E’ Nato! E’ nato! Proprio pochi secondi fa, a mezzanotte in punto di oggi 25 dicembre, Gesù Bambino è venuto alla luce dal ventre di Maria. A quest’ora i suoi primi inconfondibili vagiti staranno già rompendo il silenzio di quell’ormai leggendaria grotta in Betlemme, nella Giudea. Di questo bambino si farà un gran parlare nei duemila (e più) anni successivi. Si parlerà del suo ministero, dei suoi miracoli e delle sue battaglie. Si parlerà della sua vita e della sua morte. Si parlerà ampiamente anche di tutti i personaggi che incroceranno il suo cammino, amici e nemici, a partire dalla Vergine che lo concepì, fino ad arrivare a Pilato che ne sentenziò la morte. In mezzo a loro una quantità impressionante di personaggi, più o meno importanti, che non starò qui a citare, visto che non è di questo che volevo parlare oggi. Per una volta lasciate che in questo Natale si possa spezzare una lancia per una figura che è stata troppe volte, ingiustamente, dimenticata dai vangeli canonici: quella di Giuseppe, il falegname, sposo di Maria e padre putativo di Gesù. Un personaggio di cui ci ricordiamo solo a Natale, quando sistemiamo la sua statuina in un angolo di seconda fila dei nostri presepi, rilevante nella scena né più né meno di un bue o di un asinello. Giuseppe: lontano anni luce dall’immensità della gloria che sarà concessa all’altro genitore. Giuseppe: sovrastato dalla potenza simbolica della Vergine Maria. Giuseppe: dimenticato in quella grotta, come una statuina non più necessaria, quando tutti se ne saranno andati. Dimenticato nello stesso modo in cui un orribile incubo viene scacciato dalla nostra mente al sorgere del sole.

mercoledì 19 dicembre 2012

L’invisibile potere del suono (Pt.2)

"La concezione fondamentale dell'universo è la forza che si manifesta nelle relazioni ritmiche [...] Non vi è alcuna divisione tra materia e forza in due termini distinti, in quanto entrambi sono la stessa cosa. La forza è la materia liberata. La materia è la forza in schiavitù. La materia è energia legata e l'energia è materia liberata”. (J. Keely).  Quando Keely annunciò al mondo di aver scoperto un principio per la produzione di energia in base alle vibrazioni musicali di diapason, affermò in pratica che la musica potesse entrare in risonanza con gli atomi o con l'etere. Egli riteneva però che non fosse il suono di per sé, ma le frequenze dissonanti a disturbare o alterare l’equilibrio armonico delle masse. Egli inoltre era convinto che il suono potesse essere usato per curare il corpo. Niente di tutto ciò è sua invenzione, si tratta anzi di concetti antichi, antichissimi.
Gli antichi possedevano una conoscenza del potere delle frequenze e delle forme che è stata messa da parte, dimenticata, per lunghissimo tempo. In tutte le culture antiche, e non soltanto nelle più famose come quella greca, indiana o egizia, il mondo era concepito come luogo essenzialmente acustico da cui solo in seguito si era sviluppata la luce; in pratica la luce derivava dal suono, e la parola o la voce erano attributi del suono, mentre gli strumenti musicali erano un veicolo per esso e come tali simboleggiavano la creazione, ed è per questo che molte divinità venivano associate alla musica o addirittura raffigurate nell’atto di suonare uno strumento, o comunque con uno strumento musicale vicino a sé (vedesi la dea indù Sarasvati oppure Apollo, il dio greco del sole e della musica, tra le altre cose).

venerdì 14 dicembre 2012

L’invisibile potere del suono (Pt.1)

Un tuono può squassare il cielo, un urlo rompere il cristallo: ecco l’invisibile potere del suono (S.B.) - Il progresso (o ciò che definiamo tale) ha avuto tra i suoi effetti collaterali un eccessivo razionalismo che ha portato molti a credere solo a ciò che si può toccare con mano, o quasi. Tuttavia, in prossimità della fine dell’attuale era, complici le scoperte della scienza moderna, molti sono riusciti a uscire da questo circolo vizioso, recuperando concetti vecchi di millenni come la vera essenza del suono.Si tratta di scienziati, filosofi, musicisti e liberi pensatori che hanno compreso che in natura il silenzio non esiste, che ogni essere vivente emette vibrazioni tramite le proprie parole, azioni, persino tramite i propri pensieri e sentimenti. E stanno cercando di esplorare l’essenza, l’armonia del suono, quella che viene detta eufonia, come chiave di conoscenza della realtà, incluso il proprio microcosmo fisico e psichico, del divino e della spiritualità. I fisici, in particolare, stanno cercando di ascoltare i rumori dei corpi celesti, delle galassie, dell’universo, per cercare di scoprirne la storia e, con essa, il segreto delle nostre origini. È nata la “cosmologia acustica”. Ma prima di parlare di tutto questo, vorrei spiegare brevemente la ragione di questo post ed esporre l’argomento che ne è stata la genesi.

domenica 9 dicembre 2012

Tears of Kali

Quando guardiamo un film, talvolta esso ci colpisce per la sua qualità intrinseca: la scenografia, la luce, la musica, perfino (inutile negarlo) la bellezza degli attori… Talvolta, invece, è la storia che prevale: tecnicamente il film ha dei difetti, ma la trama è così avvincente che tutto il resto rimane in secondo piano. Quando la messa in scena e la storia sono ottime e ottengono esattamente il risultato che ci si era prefissati, ecco che abbiamo un prodotto superiore alla media (un film dell’orrore che non fa paura non può dirsi riuscito, così come un film drammatico che non fa piangere, ecc.). Se poi a tutto questo, al posto della filosofia spicciola che purtroppo quasi sempre impera, si aggiungono riflessioni profonde sul mondo, sulla vita e sull’animo umano, allora parliamo di capolavoro. Poi ci sono quei film che toccano determinate corde dentro di noi, o che semplicemente ci fanno vedere le cose in una luce diversa dal solito. È per questo principalmente che mi è piaciuto “Tears of Kali” (Lacrime di Kali), film indipendente del 2004 del regista tedesco Andreas Marschall. Spiegherò qui per quali motivi questo film, non un capolavoro assoluto, si è conquistato un posto permanente nella mia memoria. La prima ragione è che contiene immagini di rara crudezza, perlomeno al di fuori del genere splatter o torture (si vede poco, ma anche quel che si intuisce soltanto è difficile da sostenere). La seconda è che parla sì di fantasmi, ma di fantasmi “carnali”, sanguigni, non solo agli antipodi rispetto alle eteree e decadenti apparizioni occidentali, ma anche da quelle canoniche della cinematografia asiatica; sono spiriti che ti possiedono e ti fanno marcire dentro, oppure ti uccidono… e non per la paura, o sottraendoti la tua energia vitale (anche…), ma nutrendosi della tua carne con denti e artigli affilati. Sono come belve feroci, ma molto peggio: non hanno requie né pietà, non gli puoi sfuggire. La terza e più importante è il formarsi e svilupparsi della trama da premesse del tutto originali, ovvero la religiosità indiana con il suo pantheon di divinità e tutto ciò che vi gira intorno, dai culti autoctoni alle sette fondate da occidentali con la presuntuosa ambizione di poterla padroneggiare senza comprenderne anche il potenziale negativo e distruttivo. Il risultato è qualcosa che mischia le atmosfere dei film giapponesi di fantasmi alla saga di “Hellraiser” senza però somigliare davvero a nessuno dei due. 

martedì 4 dicembre 2012

Un premietto di inizio dicembre


Solo pochi giorni dopo aver ricevuto il premio UNIA ecco di nuovo bussare alla mia porta un’ennesima testimonianza di apprezzamento per questo blog. Questa volta devo ringraziare Lady Ghost di Pensiero Spensierato, che mi ha insignito del tanto bramato premio I LOVE YOUR BLOG, con la seguente motivazione: “perché le tematiche che tratta sono davvero belle ed è un blog completo, sotto molti aspetti”.
Sono davvero commosso. Quando ho iniziato a scribacchiare qui sopra non avrei mai pensato che così tante belle parole si sarebbero un giorno sprecate per questo mio piccolo “passatempo”. Tra l’altro una delle clausole citate nel regolamento per poter rientrare tra i candidati al premio così recita: “essere dei blog che, oltre ad essere interessanti e ricchi di spunti creativi, sono anche racconti di vita di belle persone, piacevoli e divertenti da leggere".
Sono particolarmente felice di essere considerato una bella persona, se questo era l’intento. Essere blogger mi porta inevitabilmente a parlare di me stesso, al di là delle tematiche affrontate nei post, ma solo chi  mi segue assiduamente può cogliere quelle sfumature che ai visitatori occasionali sono precluse. Di conseguenza ringrazio doppiamente Lady Ghost che, oltre ad essere una delle mie prime storiche follower, ha più volte dimostrato attenzione per quello che scrivo.

venerdì 30 novembre 2012

Un premietto di fine novembre

Ringrazio innanzitutto la simpatica Romina Tamerici che qualche giorno fa mi ha insignito dell’ambito Premio UNIA, un premio il cui significato si perde nella notte dei tempi. Di cosa si tratta? In buona sostanza è un meme, uno di quei virulenti passaparola che di tanto in tanto si affacciano senza preavviso nella blogosfera. Il Premio UNIA è però anomalo rispetto allo standard, in quanto non costringe chi lo riceve a fare salti mortali per inventarsi delle domande diverse da porre alle sue eventuali vittime. In questo caso si tratta semplicemente di rispondere a sette semplici domande su un argomento, tra l’altro molto interessante: il proprio rapporto con la letteratura. Accetto di buon grado l’invito a partecipare a questa kermesse ed andrò a rispondere qui di seguito tra pochi istanti. Prima però mi piacerebbe capire cosa significa UNIA. Sembrerebbe un acronimo, il che mi fa temere che chi se lo è inventato avesse in mente qualcosa di ben preciso. Faccio quindi una rapida ricerca su Google: UNIA potrebbe essere un’università andalusa (poco probabile), potrebbe essere un album dei Sonata Arctica (difficile), un sindacato svizzero (men che meno), un’organizzazione panafricanista (ma dove?), un villaggio della Polonia centrale (sì, e poi?). Provo quindi a risalire la corrente, di blog in blog, per vedere se riesco a raggiungere la sorgente. Impresa quanto mai lunga e complessa, mi rendo subito conto. Sono riuscito a risalire fino allo scorso mese di marzo, dopodiché tutti i miei tentativi si infrangono contro blog chiusi e ormai inaccessibili. L’unico indizio è il nome del suo ideatore che veniva citato dai primi partecipanti al meme: Korè. Provo a cercare un blogger che risponda a tale nome ma senza successo: anche Korè sembra svanito nel nulla. Che faccio? Alla fine rinuncio e passo a rispondere alle domande. P.S.: Lo dico subito a scanso di equivoci, non nominerò nessuno alla fine del post. 

domenica 25 novembre 2012

Chilam Balam (making of)


Kukulkàn è il nome che i Maya davano al dio Serpente. Egli lasciò la sua gente per intraprendere un viaggio verso i luoghi dai quali proveniva: prima di andare promise che sarebbe tornato. I Maya attesero il suo ritorno per oltre cinque secoli finché, un venerdì santo dell'anno 1519, non arrivò dal mare un uomo dalla barba bianca. I Maya lo accolsero come il loro tanto atteso Messia, e lo adorarono. Il suo nome era invece Hernán Cortés: un equivoco che finì per distruggere la  loro civiltà.
Se qualcuno ha avuto la pazienza di leggere tutte le cinque parti del racconto Chilam Balam, appena giunto alla sua conclusione, non avrà potuto fare a meno di farsi delle domande. Moltissime sono infatti le cose lasciate volontariamente in una sorta di sospensione forzata, una specie di limbo.  Cercare di dare delle spiegazioni a tutto, a mio parere, significava banalizzare eccessivamente la trama. Diciamo quindi che ognuno può elaborare la propria interpretazione della storia. Che cos’era quel luogo oltre la soglia? Qual è il significato dell’invecchiamento precoce del protagonista? Ma soprattutto chi era davvero colui che si faceva chiamare Kukulkàn, per quale motivo egli trascina il suo giovane amico in un’avventura del genere per poi, apparentemente, cambiare idea e abbandonarlo? Qual è il ruolo dei Maya in questa storia? È solo un caso che il mio racconto appaia su questo blog solo poche settimane prima del tanto annunciato evento relativo alla fine del calendario Maya? In questo “making of”, ve lo dico già da subito, non avrete risposte.

sabato 24 novembre 2012

Chilam Balam (Pt.5)

Seguivo il mio uomo a prudente distanza lungo il sentiero, ben attento a non farmi notare. La salita era ripida e faticosa, ma la mia volontà di procedere era più forte. Quella mattina mi ero alzato di buon’ora e mi ero appostato ad un angolo della piazza con la precisa intenzione di attendere Kukulkàn al varco. Qualunque cosa avesse in mente, qualunque cosa avesse intenzione di fare, io sarei stato la sua ombra. Non gli avrei permesso di dileguarsi nuovamente. Lo avrei seguito con discrezione e, solo al momento giusto, avrei rivelato la mia presenza. Indossavo un giaccone scuro che un precedente inquilino aveva dimenticato nella stanza dove alloggiavo. La fortuna sembrava avesse deciso di restarmi accanto: con quel giaccone addosso avrei meglio potuto nascondermi ai suoi occhi. Non dovetti attendere molto: nemmeno mezz’ora e il portone verde si spalancò e quel viso apparve sulla soglia. Eccolo. Era proprio lui, Kukulkàn o come diavolo si chiamava. Lo vidi esitare qualche secondo, guardarsi in giro e, dopo essersi sollevato il cappuccio sul capo, incamminarsi. Io gli tenni dietro. 
Prese la strada che, uscendo dal paese, portava (a quanto dicevano le indicazioni) al sito archeologico. Mi unii ad un gruppo di turisti che aveva la stessa meta: così mescolato ad un gruppo di persone avrei dato meno nell’occhio. Il sentiero prese a salire sempre più ripidamente. La fatica dopo un po’ cominciò a farsi sentire, ma il mio uomo continuava a procedere di buon passo, senza dare alcun segno di incertezza, ed io non potevo essergli da meno. Per fortuna anche buona parte dei turisti ai quali mi ero unito riusciva a tenere un buon passo, per cui potevo continuare a rimanere nel gruppo.

venerdì 23 novembre 2012

Chilam Balam (Pt.4)


Mi aggiravo per il paese con aria smarrita. La sera doveva essere calata già da qualche ora. I pochi passanti che incrociavo passavano via veloci, forse erano gli ultimi ritardatari che si affrettavano verso le loro case dopo una dura giornata. Solo pochi negozi avevano ancora le saracinesche sollevate, prevalentemente dei bar. Come potevo essere stato così stupido? Due giorni di viaggio, due interi giorni su quella maledetta corriera ed eccomi qui, completamente solo in un luogo sconosciuto, senza la minima idea di cosa fare, senza nessun posto dove andare. Quel maledetto individuo si era dileguato senza una parola. Dove era andato? A quale fermata era sceso? Che diavolo. Se non voleva avermi tra i piedi, tanto valeva che non si facesse trovare l’altra mattina alla fermata. Perché trascinarmi in un viaggio senza senso fino a qui? Già, qui… ma che posto era questo? Non avevo nemmeno la minima idea di dove mi trovassi. Maledizione.
Ad ogni modo non potevo continuare per molto ad agire passivamente. Tra poche ore anche l’ultimo bar avrebbe chiuso ed io dovevo prima di tutto risolvere il problema della notte incombente. Non avevo preventivato l’ipotesi di dover passare la notte all’addiaccio. In questo paese doveva senz’altro esserci una locanda o qualcosa di simile in cui cercare ospitalità fino alla mattina seguente, e quale miglior posto di un bar per ottenere le informazioni che mi servivano? Mi affacciai su quella che aveva tutta l’aria di essere la piazza principale. C’erano diversi bar lungo il perimetro, alcuni coraggiosi avventori conversavano comodamente seduti sui tavolinetti posti all’esterno, ogni tanto si sentivano delle risa. Questo paese non era poi così morto come in un primo momento mi era sembrato.

giovedì 22 novembre 2012

Chilam Balam (Pt.3)


All'inizio del XX secolo gran parte della giungla che circondava Palenque, una delle città più importanti della regione centrale del territorio appartenuto ai Maya, ritornò alla luce, con lo splendore dei suoi monumenti, dopo più di un millennio di abbandono. All’interno del sito archeologico il ritrovamento più importante fu senza dubbio quello della tomba del re K'inich Janaab' Pakal (Pacal il grande). La tomba, un sarcofago di pietra rossa, era chiusa da un'enorme lastra rettangolare ricoperta di incisioni intricate. Sollevandola, fu rinvenuto un tesoro di manufatti d'arte Maya. Il viso del defunto era protetto da una splendida maschera a mosaico di giada, con gli occhi di conchiglia e le iridi di ossidiana. La mummia indossava orecchini e gioielli ed era alta 1.73 cm, fatto che suscitò una grande sorpresa, dal momento che l'altezza media dei Maya contemporanei a Pacal era di 1.50 cm. Gli archeologi registrarono un'ulteriore stranezza: era usanza dei Maya schiacciare il cranio dei neonati perché si riteneva che la forma allungata fosse un attributo estetico di grande valore, ma il corpo nel sepolcro non presenta questa deformazione nel cranio. In altre parole, il corpo di Pacal non corrispondeva a quella che era la fisicità dei Maya e quindi Pacal non era evidentemente un Maya come tutti gli altri. Ma un particolare ancora più singolare era rappresentato dalla lastra che copriva il sarcofago: al centro di essa era raffigurato un uomo in una strana posizione. Le sue mani e i suoi piedi sembravano impegnati a manovrare pedali e manopole, la testa pareva essere appoggiata su un supporto, nel naso un qualcosa dalla forma triangolare che a molti ricordava un inalatore. L'uomo era inserito in una struttura molto simile a un razzo; a rendere più marcata la somiglianza con un razzo sono le fiamme chiaramente disegnate sul retro.

mercoledì 21 novembre 2012

Chilam Balam (Pt.2)

Quella notte la trascorsi in bianco. La mia mente continuava a ritornare agli avvenimenti occorsi il pomeriggio precedente. Come poteva quell’uomo essere sparito nel nulla? E che fine aveva fatto il libro sul quale era stato chino fino a solo poche ore prima? Ma soprattutto, qual era il segreto racchiuso in quelle pagine, segreto che quell’uomo dava la netta impressione di conoscere? Qual era infine il significato delle parole che mi aveva rivolto? Fu solo verso l’alba che la stanchezza mi vinse e finalmente mi addormentai. Quando mi svegliai il sole aveva già compiuto oltre la metà del suo compito quotidiano: a giudicare dalla luce che filtrava dalla piccola finestra della mia stanza, doveva essere infatti già tardo pomeriggio. Mi misi seduto, mi stropicciai gli occhi e mi guardai attorno. La stanza in cui vivevo in quegli anni non si poteva certo definire una reggia: si trattava di un pertugio di tre metri per due ricavato a lato di un vecchio fienile. Il contadino che mi ospitava era un vecchio amico di mio padre e, per affetto nei suoi confronti, acconsentì di ospitarmi in cambio solo di qualche piccolo lavoretto. Oltre alla brandina dove dormivo c’era solo una sedia e, accanto alla finestra, una piccola scrivania dove passavo il mio tempo a studiare. Non ci volle molto prima che i fatti appena vissuti mi tornassero alla mente, ed ero ora più che mai convinto di dovermi recare nuovamente in biblioteca. In cuor mio conservavo la speranza che l’incontro con quello strano individuo si fosse rivelato nient’altro che un brutto sogno. Mi gettai sul sentiero e, camminando di buona lena, giunsi ben presto in città. La piazza antistante la biblioteca era semideserta. Mi guardai un po’ in giro nel tentativo di riconoscere qualcuna delle facce a me note, ma senza successo. Le prime ombre della sera facevano capolino e pertanto decisi di non indugiare oltre e di infilare rapidamente la porta dell’edificio.

martedì 20 novembre 2012

Chilam Balam (Pt.1)

I fatti che sto per narrare potrebbero sembrare frutto della fantasia di un folle. Sinceramente io stesso non posso escludere che lo siano. Ciò di cui sono stato testimone la notte scorsa è talmente fuori da ogni logica che ho creduto subito opportuno annotarne le parti salienti in questo mio diario, affinché ne possa rimanere traccia allorché la mia vita su questa terra giungerà alla sua conclusione. Il mio corpo è precocemente invecchiato e sento che quell’anelito di vita che è rimasto in me si sta, ora dopo ora, sempre più affievolendo. Devo scrivere in fretta, prima che sia troppo tardi. Dio solo sa cosa ne sarà di questa mia povera anima dopo il trapasso! Quando la mia intera esistenza verrà giudicata, non potrò non rendere conto dei segni incancellabili che i recenti avvenimenti hanno causato alla mia anima.
Mi chiamo Manuel Mendoza e ho 23 anni. Solo fino ad un paio di settimane fa la mia vita fu quella di un normalissimo giovane dall’animo puro e ingenuo che intendeva abbracciare la fede cattolica e farne lo scopo della propria esistenza. Nonostante ciò, la mia mente era molto aperta e curiosa e dedicavo buona parte del mio tempo non solo alla lettura dei testi sacri, ma anche a quei polverosi quanto affascinanti volumi che di tanto in tanto prendevo a prestito dalla biblioteca dell’Università, qui a Città del Messico. Mi appassionava in particolar modo un manoscritto dal significato oscuro proveniente da una non meglio precisabile epoca lontana. Non ne riporterò qui il titolo perché credo sia meglio che quel libro si perda nell’oblio: solo adesso mi rendo conto infatti di quanto terribili fossero quelle pagine, se interpretate nel modo corretto. 

mercoledì 7 novembre 2012

Lupus in Canada

Rivisto a diversi anni dalla sua uscita, "Licantropia Evolution" (Ginger snaps) fa ancora un certo effetto. Questo piccolo film canadese del 2000 non è affatto un teen-movie, come di primo acchito si potrebbe pensare. Anch’io ho creduto questo trovando il DVD in un cestone a pochi euro, comprandolo senza troppe aspettative e approcciandolo con le stesse, minime, pretese. Bisogna dire che in tal senso il titolo non aiuta: in inglese suona bene, non si discute, ma sembra un po’ puerile e inoltre si confonde facilmente con Ginger Snaps: Unleashed, il titolo del secondo capitolo della storia datato 2003. Incredibile a dirsi, in italiano siamo riusciti a fare di peggio: Licantropia evolution non solo è anonimo, ma si confonde altrettanto facilmente con "Licantropia Apocalypse", il titolo scelto per il film successivo. Dato che una traduzione decente di Ginger snaps in italiano sarebbe stata impossibile, sarebbe forse stato il caso di lasciare i due titoli in lingua originale… Comunque se di teen-movie si tratta, lo è esclusivamente nella misura in cui i protagonisti sono tutti adolescenti e la trama associa in maniera molto originale la trasformazione in licantropo al passaggio alla pubertà della protagonista, la Ginger del titolo; siamo ben lontani dalle atmosfere ridanciane di Voglia di vincere , tanto per fare un esempio: qui la messa in scena è veramente inquietante e il sangue scorre a fiumi. Inoltre si introduce qualche elemento di novità non disprezzabile. Dimenticatevi tutti i luoghi comuni che conoscete: in questo film la licantropia non è una condizione temporanea, ma una trasformazione che diventa permanente con il sorgere della prima luna piena e che modifica la vittima non soltanto nel fisico, ma anche nell’indole. Dimenticatevi anche i proiettili d’argento: per uccidere un licantropo qui basta davvero molto poco. Inoltre lo sceneggiatore accenna ad una cura, anche se provvisoria, per la licantropia, ripresa pari pari dalle credenze popolari. Questa’idea nella filmografia licantropica ha già almeno un precedente: mi viene in mente "Il lupo mannaro di Londra" (Werewolf, 1935) in cui l’antidoto era però il fantomatico fiore Marifasa (Mariphasa lupina lumina) originario del Tibet, e probabilmente ci sono chissà quanti altri esempi che al momento non mi sovvengono. Ma come al solito ho divagato e torno quindi a Licantropia evolution

venerdì 2 novembre 2012

On the Eating of Books

“Some books are to be tasted, others to be swallowed, and some few to be chewed and digested.” (Francis Bacon) -  “Quel libro è stato davvero avvincente: l’ho divorato.” Quante volte abbiamo sentito pronunciare una simile frase? Quante volte l’abbiamo pronunciata noi stessi? L’atto del divorare un libro è qui visto naturalmente in senso figurato: se il contenuto di un libro è particolarmente interessante non è improbabile che lo si riesca a portare a termine in breve tempo, che si possa venire coinvolti a tal punto che diventa quasi impossibile staccarsi dalla lettura, escludendo la realtà e immergendosi profondamente nell’universo immaginario descritto in quelle pagine. Esiste un’altra espressione idiomatica che così recita: “Quel libro è proprio difficile: faccio fatica a digerirlo”. Ecco quindi che per meglio assorbire i contenuti di un testo ci vediamo costretti non solo a mangiarlo, ma pure a portare a compimento il ciclo digestivo. Bizzarro, no? 
C’è invece chi i libri li divora per professione, costretto a scrivere recensioni di due o tre romanzi alla settimana, oppure chi è incaricato da una casa editrice di selezionare le migliori tra le migliaia di proposte giunte da una moltitudine di aspiranti scrittori o sedicenti tali. In questo caso divorare un libro è più una necessità che un piacere. Si dice che esistano dei metodi di lettura veloce che i più esperti non esitano ad applicare per poter sopravvivere. Uno di questi è la lettura in diagonale: si legge la prima parola di un rigo, la seconda parola della riga sottostante, la terza di quella sotto ancora e così via. Teoricamente, una volta giunti alla fine del testo, dovrebbe rimanere, in qualche angolo remoto del cervello, abbastanza da poterci scrivere sopra una recensione. La ricetta? Condire il tutto con due note biografiche sull’Autore, aggiungere un pizzico di contesto storico, mescolare il tutto ed ecco sfornata la recensione. 
Una recensione di cui nessuno potrà contestare l’esattezza, perché tanto i lettori sono rimasti in pochi e quei pochi non andranno certo a verificare, dopo aver letto il libro in questione, cosa ne aveva scritto quel tizio su quella rivista.

lunedì 29 ottobre 2012

Parasite Eve

“Il maschio è un incidente, la donna sarebbe stata sufficiente.” (Rémy de Gourmont) - Ho sempre amato la biologia. Per me non è una serie di nozioni aride e spesso noiose, ma il mondo delle possibilità, la terra delle scoperte, paradiso e inferno insieme. Talvolta mi chiedo se a qualche livello primordiale le nostre cellule non siano consapevoli del macrocosmo che le contiene (il corpo umano), e se l’umanità non sia altro che una cellula del macrocosmo pianeta terra, il pianeta terra una cellula del nostro universo, e infine se l’universo stesso non sia una cellula del corpo di un qualche Dio di questa dimensione e così via…
Quando guardo un cielo stellato, spesso è in questi pensieri che mi perdo, ma c’è davvero da diventare matti… Meglio allora concentrarsi su qualcosa su cui c’è almeno qualche possibilità di osservazione, ovvero il microcosmo cellulare. Non essendo io uno scienziato, ovviamente il mio approccio alla materia non sarà scientifico; stavolta ho scelto quello del lettore di fumetti giapponesi, anche se un po’ inconsueto. Perché inconsueto? Perché se si parla di fumetti ci si aspetterebbe anche delle valutazioni tecniche, che però io non farò perché non mi interessa farne e perché non è la mia materia… Dei fumetti mi interessano principalmente gli argomenti e il modo in cui vengono sviluppati, se poi accanto a ciò c’è anche un bel disegno - bello secondo i miei canoni - meglio, altrimenti non ne faccio un cruccio. Mi fa molto più piacere leggere una bella storia, anche se non è disegnata in maniera eccelsa, piuttosto che il contrario.

lunedì 22 ottobre 2012

Straker è tornato

La notizia sta rimbalzando come una trottola attraverso la rete. Una delle serie televisive di fantascienza più amate di tutti i tempi sta tornando alla luce sotto forma di uno speciale che i fantastici ragazzi della redazione de "Il futuro è tornato" hanno deciso di proporre a partire da domani, 23 ottobre, per un'intera settimana. Potevo io esimermi dall'amplificare il tam-tam? Certo che no, per cui eccomi qui.... e mi perdoneranno tutti coloro che sono stati già bombardati dalla stessa notizia nelle ultime ore. D'altra parte l'evento non è assolutamente cosa da poco: stiamo per reimmergerci nelle incredibili atmosfere di UFO! Chi era un bambino negli anni Settanta avrà modo di tornare ad emozionarsi, sentendo pronunciare nuovamente  nomi allora familiari come quelli del comandante John Straker o del colonnello Paul Foster, oppure sentendo nuovamente citare gli avveniristici mezzi con i quali la SHADO (Supreme Headquarters Alien Defence Organisation) cercava di far fronte alla minaccia aliena: gli Interceptors, gli SkyDivers, la ShadoMobile... Per chi invece negli anni Settanta non c'era ancora, beh, ecco servita la migliore occasione per scoprire un mondo che ha fatto sognare un'intera generazione.

venerdì 19 ottobre 2012

Holocaust 2000

Vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo. Le fu permesso di far guerra contro i santi e di vincerli; le fu dato potere sopra ogni stirpe, popolo, lingua e nazione. L'adorarono tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto fin dalla fondazione del mondo nel libro della vita dell'Agnello immolato. Vidi poi salire dalla terra un'altra bestia, che aveva due corna, simili a quelle di un agnello, che però parlava come un drago.  Essa esercita tutto il potere della prima bestia in sua presenza e costringe la terra e i suoi abitanti ad adorare la prima bestia. Chi ha intelligenza calcoli il numero della bestia: essa rappresenta un nome d'uomo. E tal cifra è seicentosessantasei. 
Era il 1977 quando il regista romano Alberto De Martino fece uscire nelle sale la sua personalissima visione dell’olocausto. Di quale olocausto stiamo parlando? Ma di quello nucleare, naturalmente. Alla fine degli anni Settanta (giusto per inserire il tutto in un minimo di contesto storico) il mondo era particolarmente attento al nucleare: la crisi energetica del 1973 aveva portato l’Occidente alla ricerca di nuove fonti di energia alternative al petrolio, come il gas naturale e l'energia atomica, per cercare di limitare l'uso del greggio e quindi anche la dipendenza energetica dai Paesi appartenenti all'Opec. Il concetto di energia atomica non poteva però non richiamare, agli occhi dell’opinione pubblica, l’immagine delle bombe sul Giappone e dei test nucleari compiuti nell’immediato dopoguerra presso l'atollo di Bikini, nelle isole Marshall. È in questo contesto che si inserisce Holocaust 2000, capostipite di un filone cinematografico anti-nucleare che raggiungerà il suo culmine due anni dopo con il masterpiece Sindrome cinese (The China Syndrome) di James Bridges, con Jane Fonda, Jack Lemmon e un giovanissimo Michael Douglas. 

lunedì 15 ottobre 2012

On the Eating of Blood

Per più di duecentocinquanta anni, fra il 1607 e il 1865, i vampiri hanno popolato le ombre degli Stati Uniti d’America. Pochi umani credevano alla loro esistenza. Abramo Lincoln è stato tra i più zelanti cacciatori di vampiri del suo tempo, e di questa lotta ha tenuto per tutta la vita un diario segreto. Le dicerie sull’esistenza del diario appassionano da tempo gli storici e i biografi di Lincoln. I più ritengono che si tratti di una leggenda. Si tratta in realtà del romanzo "La leggenda del cacciatore di vampiri" (Il diario segreto del presidente) di Seth Grahame-Smith. già autore considerato di culto grazie al fortunatissimo "Orgoglio e pregiudizio e zombie" con il quale aveva riscritto il classico di Jane Austen in chiave splatter. Ma non è di questo che avevo intenzione di parlare oggi.

L’argomento di oggi (e ringrazio Niels Petersen di Magia Posthuma per avermelo ispirato) potrebbe sembrare uno dei miei soliti tentativi di trovare del mistero laddove non c’è davvero nulla di misterioso. Probabilmente è così. Anzi certamente è così. Quando avrete sarete arrivati al termine del post non potrete fare a meno di chiedervi se sono impazzito o cosa. Non sono impazzito, mi sto solo divertendo a costruire castelli. D’altra parte come non restare affascinati da un vecchio manoscritto risalente a tre secoli fa nel quale sono presenti parole che appaiono essere completamente fuori luogo se si pensa a chi si dice le abbia scritte? Cosa c’entrano alcuni passi della Bibbia con un semisconosciuto matematico inglese? Perché un foglio manoscritto, un singolo foglio, appare in vendita sul sito di una libreria americana alla tutt’altro che modica cifra di 350 dollari? Cosa spinge uno scienziato, quindi una mente presumibilmente aperta, ad occuparsi di argomenti che tanto ricordano le vecchie superstizioni sui vampiri? Qual è il ruolo del Giano Bifronte in tutta questa storia? Per mettere insieme tutti gli indizi occorre procedere con ordine.

mercoledì 10 ottobre 2012

Il Qilin e gli occhi del drago


Due sono le figure che la protagonista sceglie di tatuare sul proprio corpo nel romanzo “Serpenti e piercing”, recensito su questo blog pochi giorni fa: uno è il Qilin, ovvero l’unicorno della mitologia cinese, l’altro è un enorme drago senza occhi. Approfondire entrambe le figure, incredibilmente affascinanti, è lo scopo del post di oggi. Ma prima di tutto: voi credete alle coincidenze? Qualche mese fa stavo trascorrendo qualche giorno di vacanza in Giappone quando, complice una pioggia torrenziale, decisi di trovare rifugio per qualche ora nelle sale del museo nazionale di Tokyo. In particolare, uno degli ambienti situati proprio vicino all’ingresso non mancò di attirare la mia attenzione, in quanto dedicato ad uno strano essere dal bizzarro nome di Qilin, che avevo visto molte altre volte ma di cui non conoscevo il nome. Scattai le fotografie che vedete qui attorno, a corredo del testo, con il pensiero ad un eventuale post che, ne ero certo, prima o poi ne sarebbe scaturito. Passò il tempo e, come spesso succede, coinvolto in mille progetti, me ne dimenticai.  Poi ecco “Serpenti e piercing”, ed ecco il Qilin che ritorna. Un post a questo punto è quasi d’obbligo.

venerdì 5 ottobre 2012

Serpenti e piercing

“Le cose che pensavo in quel momento, quello che avevo davanti agli occhi, la sigaretta che tenevo tra l’indice e il medio, niente sapeva di reale. Ebbi la sensazione di essere da un'altra parte, che mi guardavo da lontano. Non posso credere a niente.  Non posso sentire niente. Gli unici momenti in cui riesco a percepire chiaramente di essere viva è quando provo dolore fisico. Io il mio futuro non lo vedo, non so nemmeno se ne ho uno, di persone care non ne ho, e della vita, perennemente sbronza come sono, che ne posso sapere?“ 
Quanti di voi hanno un tatuaggio, magari una semplice farfallina su una spalla? Quanti di voi hanno un piercing, magari un semplice orecchino? Sono sicuro che siete in tanti. Vi siete mai fermati a pensare quanto può essere lontano il limite al quale possiamo arrivare? Ho appena terminato il romanzo Serpenti e piercing di Hitomi Kanehara, e da questo prendo spunto per parlare di  body art, e più in generale del contesto in cui la narrazione si svolge, ovvero il Giappone, il paese che più di ogni altro la gente ama e allo stesso tempo odia (e io non faccio eccezione alla regola).

lunedì 1 ottobre 2012

Non spingete quel bottone

Eccomi di nuovo qua! Sono mancato una settimana dal blog per via di una delle mie solite e frequenti trasferte di lavoro che, questa volta, mi ha visto calpestare le strade di Monaco di Baviera. La scusa della trasferta era la partecipazione ad un meeting internazionale, uno di quei megaincontri tra gente di tutti i tipi e tutte le razze organizzati con lo scopo principale di fare del “Team Building”. Per chi non ha mai lavorato in una multinazionale vale la pena precisare che quando si parla di team building si intende un’attività che poco ha a che fare con il lavoro. Infatti i giorni scelti per questa trasferta non sono stati affatto casuali: mai sentito parlare dell’Oktoberfest? Ecco… avete capito. Una cosa importante ho imparato: la regola del litro all’ora. Dovete sapere che il trucco che usano i tedeschi per non finire la serata ubriachi sotto una macchina è quello di saper sapientemente dosare i tempi in cui ingurgitare il primo boccale da litro: esso deve essere centellinato al punto che non può terminare prima che la lancetta dei minuti abbia completato un intero giro. Così ho fatto: per il primo litro ci ho messo un’ora; per il secondo cinque minuti. Ma non è di questo che volevo parlarvi oggi, miei piccoli lettori. Sono passati solo pochi giorni da quando ho tirato le somme di un anno e mezzo di blog, raccontando fasti e nefasti dei miei primi cento post. Con l’occasione, lo ricorderete, ho voluto citare alcuni dei miei post preferiti ma, forse un po’ per scaramanzia, ho volutamente evitato di menzionarne uno molto importante che è apparso qui la scorsa primavera. 

martedì 25 settembre 2012

Cento!

E con questo sono cento! The Obsidian Mirror festeggia oggi il suo centesimo post! Sembra quasi incredibile. Se ripenso adesso a quel vecchio primo post, timidamente scritto in un lontano e piovoso pomeriggio di aprile, quasi mi commuovo. In realtà non sono sicuro che fosse pomeriggio, e nemmeno che fosse piovoso, ma scritto così suona decisamente meglio.... È giunto il momento di tirare un po' le somme, quindi. E per farlo occorre guardarsi un attimino alle spalle. Fare un salto indietro nel tempo di 18 mesi (tanto è il tempo che ci ho messo a scrivere 100 post). Cos’è cambiato in un anno e mezzo? Wow! Direi tanto. Io sono sicuramente una persona diversa. Credo di essere cresciuto molto in questo lasso di tempo. Il blog mi ha permesso di ritagliarmi uno spazio tutto mio, dove ho potuto coltivare i miei interessi. Sono molto più curioso oggi. Guardo il mondo da un diverso punto di vista. Tutto quello che guardo, leggo, incontro, scopro, lo filtro attraverso gli occhi di un blogger curioso. Penso “Ehi, come potrei raccontare questa cosa in un post?”. Scrivere articoli è un modo di conservare i pensieri in un diario digitale che rimarrà lì ad uso e consumo mio e dei miei posteri, fintanto che il mondo non finirà o perlomeno fintanto che il contenitore che mi contiene non cesserà di esistere. Scrivere articoli è un modo per migliorare me stesso, il mio modo di scrivere, il mio modo di interpretare il mondo e di interagire con esso. Tanto è cambiato da quei primi vecchi post buttati giù in quei primi piovosi pomeriggi. Basta un’occhiata per rendersene conto: erano scritti in un linguaggio più grezzo, meno personale, non avevo capito ancora le potenzialità di gestire uno strumento come questo. Oddio, non che adesso io abbia raggiunto l’illuminazione, ma un pochino meglio sono in grado di muovermi.

giovedì 20 settembre 2012

Scarpette rosse

Danzerai con le tue scarpette rosse fino a che non diventerai come un fantasma, uno spettro, finché la pelle non penderà sulle ossa, finché di te non resteranno che visceri danzanti. Danzerai di porta in porta per tutti i villaggi, e busserai tre volte a ogni porta, e quando la gente ti vedrà, temerà per la sua vita.
Da bambino, come tutti i bambini, amavo le storie. Le amavo così tanto che non mi accontentavo di sentirne soltanto una la sera prima della buonanotte, e fu questo che convinse ben presto i miei genitori a comprarmi dei 45 giri con favole e fiabe di ogni tipo, e naturalmente un giradischi a supporto.
Ebbene, da bambino avevo questo giradischi rosso, di quelli con la maniglia e i buchetti sopra che ora si trovano solo nei mercatini dell’usato, simboli impolverati del tempo che fu, e che quando li vedo mi viene una nostalgia feroce per la mia infanzia. In seguito non avrei mai più avuto dei giradischi, ma soltanto degli impianti stereo… perché la lingua nel corso degli anni si è evoluta almeno quanto la tecnologia. 
Il mio giradischi rosso aveva due rotelline sul davanti, una per regolare il volume, l’altra per regolare i toni (che non ho mai capito bene cosa volesse dire); era dotato di cavo, ma funzionava anche a pile, così potevo portarlo con me ovunque, all’occorrenza anche in cortile. Avevo anche della musica, generalmente cose da bambini, tipo Rita Pavone e Cochi e Renato, ma avevo anche Iannacci, Gaber e molto altro che ormai faccio fatica a ricordare.

martedì 18 settembre 2012

Il Demone di Dio


Curvando intorno ad un’alta montagna al centro della pianura che si stendeva davanti ai loro occhi, scorreva un fiume, le cui acque bianche brillavano come latte; a quel fiume sarebbe stato dato il nome di Acheronte. I fuochi nel cielo lo facevano sembrare un nastro di rame sospeso nella nebbia. Scure sagome di chiatte da carico e il passaggio casuale di qualche Demone Volante di tanto in tanto offuscavano il suo splendore. Se non fossero stati consapevoli che il fiume era pieno di pesanti lacrime lo avrebbero potuto confondere con un fiume di lava, tanto era brillante. Decisamente evocativa è l’immagine con cui Wayne Barlowe, affermato illustratore statunitense, dipinge l’Inferno nel suo esordio letterario intitolato “Il demone di Dio” (God’s Demon). Sembra banale, se non falso, dire che questo libro è capitato tra le mie mani per caso. In effetti dal mio punto di vista è stato un puro caso. Meno casuale è stata forse la scelta di questo libro da parte della mia amica Leggivendola che, giusto un paio di mesi fa, me lo ha spedito. Se vi siete persi il mio post precedente sulla catena di lettura estiva 2012, vi invito ad andare a darci un’occhiata adesso. In caso contrario andate avanti a leggere, perché cercherò oggi di scrivere qualcosa a proposito di questo libro.

giovedì 13 settembre 2012

La donna di sabbia

Gli anni 50 e 60 del secolo scorso furono testimoni di cambiamenti epocali per il mondo in generale e per il cinema in particolare. Ci eravamo appena lasciati alle spalle gli anni bui del secondo conflitto mondiale, i paesi erano frantumati, lacerati, la situazione economica era tra le più disastrose e tuttavia, in questo scenario, erano ancora i sentimenti di speranza e riscatto che tenevano i nostri padri attaccati alla vita. Il cinema, dal canto suo, non poteva che essere lo specchio di quell’epoca. Mentre in Italia si andava affermando il cinema neorealista dei Fellini, dei Visconti, dei Rossellini e dei De Sica, in Francia si respirava aria di Nouvelle Vague, quella degli Chabrol, dei Godard, dei Rohmer e dei Truffaut. La condizione delle classi disagiate era il tema ricorrente: chi non ha mai sentito almeno nominare Ladri di biciclette, Roma città aperta o Riso amaro? Ambientazioni familiari, istantanee di paesi resi poveri e desolati che però riuscirono a catturare in pieno la vera anima delle cose. Anche in Giappone si stava sviluppando un fenomeno simile a quello europeo. La Nuberu Bagu (ヌーベルバーグ, new wave) fu una corrente cinematografica che partiva dagli stessi presupposti ma che si sarebbe evoluta in una forma decisamente più critica nei confronti del sistema costituito. Tra i suoi protagonisti più noti è impossibile non citare Nagisa Oshima (Ecco l'impero dei sensi) e Shohei Imamura (The Insect Woman), quest’ultimo recensito su questo blog più o meno un anno fa. Fu proprio nell’ambito della Nuberu Bagu che si fece strada un giovane regista allora sconosciuto, Hiroshi Teshigahara (勅使河原 宏, 1927-2001).

lunedì 10 settembre 2012

Nevermore (Pt.2)

Continua oggi la nostra esplorazione dell'universo Nevermore, iniziata il mese scorso. Per chi se la fosse persa, la prima parte di questo post è disponibile qui. Dopo “Dreaming…” venne “Dead Heart in a Dead World”. Era ormai il 2000. Per molti questo disco rappresenta il picco creativo della band; io non sono del tutto d’accordo, ma ammetto che si tratta una pietra miliare della loro discografia. Sicuramente si tratta del loro disco più melodico e “radiofonico”, se mi permettete l’azzardo; e include anche una cover di “The sound of silence” di Simon e Garfunkel, ma così stravolta da sembrare una vera e propria canzone dei Nevermore. Anche in “Dead heart…” le tematiche più prettamente filosofiche si mischiano a quelle politiche e ad amare osservazioni sulla realtà e sulle (mancate) qualità intrinseche dell’umanità. In tal senso, il titolo del disco è abbastanza esplicativo… "How did it come to this, Narcosynthesis" (Narcosynthesis) Il disco si apre subito con una decisa presa di posizione contro la nostra società (la narcosintesi, o narco-ipnosi, consiste nell’uso psichiatrico di sostanze stupefacenti, in genere scopolamina o barbiturici, combinate con tecniche di ipnosi, per curare disturbi da stress post-traumatico, ma anche casi di schizofrenia ed ossessione. L’efficacia di tale pratica è ancora dibattuta, per non parlare dei suoi aspetti etici).

mercoledì 5 settembre 2012

Megera e le altre

Negli ultimi giorni si è parlato un po’ di mitologia sui blog qui attorno. Ha iniziato Orlando che ha incautamente citato Medusa in un suo post, poi si è passati a citare Parche e Grazie e, da qui, attraverso un mio vecchio post, alle Graie e alle Muse e sulla questione del loro numero, chiarito definitivamente sul blog di Argonauta Xeno. È evidente che l’argomento affascina parecchio, per cui ho deciso di rincarare e la dose, complice un vecchio film Hammer che ho visto proprio un paio di sere fa.
Che belli erano questi vecchi film della Hammer: scenografie inquietanti e musica dall’incedere incalzante fin dai titoli di testa, come una promessa di brivido immediato e senza tregua.
“Gorgon – Lo sguardo che uccide”, anno 1964, comincia proprio così, con sullo sfondo l’immagine di un goticissimo castello abbandonato, ma sempre maestoso, nell’Europa centrale dei primi del ‘900. La regia è di Terence Fisher che girò, tra gli altri "Dracula il vampiro" (1958), "La maschera di Frankenstein" (1957), "Il mostro di Londra" (1960), "Le spose di Dracula" (1960)...

Il sipario si apre all’interno di una casa dove un uomo e la sua amante discutono. Lei è incinta e lui le dice che si prenderà le sue responsabilità, anzi andrà subito in paese per parlare con il padre di lei. Lui è Bruno Heitz (Jeremy Longhurst), un pittore, e lei Sascha Cass (Toni Gilpin). Quando Bruno esce di casa, lei lo insegue per cercare di fermarlo, ma rimane indietro, da sola nel bosco, come nella più classica delle fiabe dei fratelli Grimm. Nel bosco, immobile nella notte, buio e virato di verde, l’unica nota di colore è il suo vestito azzurro. Non appena la telecamera inquadra la luna piena, seminascosta dalle nuvole, in un cielo troppo chiaro per essere un cielo notturno, sentiamo che qualcosa sta per accadere. Un urlo. La donna grida in preda all’orrore guardando qualcosa – o qualcuno – che è fuori campo e noi non possiamo vedere: Sascha si porta le mani al volto, poi cade riversa. Quando viene ritrovata la polizia pensa che sia stata uccisa da Bruno e scatena una caccia all’uomo, ma viene ritrovato anche lui cadavere, impiccato.

sabato 1 settembre 2012

Carta velina intinta nella porpora


Come un papavero tra le pagine di un libro, il piccolo libro di Marcella Andreini ha la stessa essenza della carta velina intinta nella porpora. Delicata ma allo stesso tempo sanguigna. Apparentemente fragile e innocua, ma sgocciolante di spunti e riflessioni che solo una profonda passione per la vita può trasmettere. Sono affascinato da quante righe mi sono scoperto a leggere e rileggere più volte, per cercare di capire, per fare miei i pensieri di un’altra persona. Sono inciampato per caso nel blog dell’Autrice e da allora non me ne sono più allontanato. Tanti pensieri, apparentemente slegati l’uno dall’altro, ma accomunati da un unico comun denominatore: la curiosità.
Ho ricevuto “Volevo solo essere adorata” in omaggio. Graditissimo omaggio, posso confermare oggi a posteriori, dopo averlo letto. Urge quindi scrivere un post prima che ne svaniscano i sapori. Da che parte cominciare? Direi dalla trama che, così come la leggo sulla quarta di copertina, è davvero semplice: due studentesse che abitano nella stessa strada si conoscono perché le loro finestre sono l’una di fronte all’altra. In breve tempo nasce un’amicizia profonda, ed è soprattutto Emilia ad arricchire il rapporto, grazie ad un’intelligenza vivace, a una geniale vena artistica, a uno spirito ricco ma incapace di adeguarsi a una vita mediocre. Una quarta di copertina che non rivela quindi nulla del contenuto del libro. Ma non potrebbe essere altrimenti, dico io. Questo non è un libro che si può riassumere in due parole, non è nemmeno un libro che possiede una trama nel senso comune del termine. Accadono, questo è vero, delle cose che messe in fila una dietro l’altra si potrebbero superficialmente definire con il termine “trama”, ma non è questo il punto. Il punto è che “Volevo solo essere adorata” è un libro nel libro: la trama è un espediente per mettere nero su bianco i propri pensieri, le proprie emozioni, i propri dolori, le proprie perdite, la propria solitudine.

martedì 28 agosto 2012

La fiaba del coniglio sulla Luna

C’era una volta una foresta in cui abitavano, tra gli altri, una scimmia, una lontra, uno sciacallo ed un coniglio. Un giorno un anziano pellegrino giunse nella foresta, e lì si fermò per riposarsi. Quando i quattro amici passarono e videro il vecchio, gli si avvicinarono per rassicurarsi sulle sue condizioni ed egli disse loro: "Ho viaggiato molto e sono stanco, potrei avere qualcosa da mangiare?" E così i quattro si misero immediatamente alla ricerca di cibo.
La scimmia, grazie alla sua agilità, riuscì ad arrampicarsi sugli alberi dove colse dei frutti, la lontra in quattro e quattr’otto pescò del pesce, lo sciacallo scelse la via più facile e rubò del cibo da una casa incustodita. Il coniglio invece andò su e giù per la foresta per tutto il giorno, ma essendo privo di particolari abilità non riuscì a procurarsi altro che dell'erba e la sera si presentò al viandante mortificato e a… zampe vuote. "Non ho niente. Che cosa posso fare?" Poi ebbe un'idea. Raccolse della legna e accese un fuoco. Il coniglio quindi si rivolse così al pellegrino: "Mi faccio arrostire e tu potrai avere un buon boccone da mangiare!". Appena finito di dire queste parole il coniglio si gettò nel fuoco. Il pellegrino a quel punto si rivelò essere un Dio travestitosi da uomo per poter osservare il mondo da vicino. Commosso dal gesto di estremo altruismo del coniglio, il Dio disegnò la sua immagine sulla superficie della Luna perché fosse ricordata da tutti, e potesse illuminare con il suo esempio di sacrificio il mondo intero. Si dice che l'immagine lunare sia ancora avvolta nel fumo che si alzò quando il coniglio si gettò nel fuoco. Nelle notti serene durante la luna piena si può vedere il coniglio che dorme sul petto della luna, simbolo di generosità. Non è una storia commovente??

mercoledì 22 agosto 2012

Hell's Bells


Il tempo non fu mai clemente in quella lontana estate del 1968. Il cielo sopra Scotswood, il quartiere dove vivevo, era spesso coperto. Grossi nuvoloni carichi di pioggia nascondevano ai miei occhi, per buona parte del giorno, la vista del sole. Un’estate così non era tuttavia cosa rara nel mio paese. Non ho mai potuto godere di una vera estate così come la vedevo descritta nelle riviste. Ma a me tutto sommato non importava. Non ho mai sopportato il caldo. Solo mi auguravo che smettesse di piovere. La pioggia rende difficoltose le normali attività quotidiane, specie se non si possiede un ombrello. I capelli bagnati, le scarpe fradice, non sono sensazioni piacevoli. L’oscurità, quella sì, invece mi piaceva. No, non sto parlando della notte, mi riferisco a quella particolare oscurità che solo una spessa coltre di nubi può provocare. Niente sole negli occhi, niente riflessi sui vetri. Con la pioggia però tutto è meno, come dire, romantico. La gente si affretta per le strade, senza badare al prossimo, nessuno si perde in saluti, magari un breve cenno col capo e poi via ad inseguire le proprie faccende. Newcastle era una città sporca. Non per niente deve la sua notorietà alle proprie miniere di carbone, che ne permisero lo sviluppo a partire dal secolo scorso. Tra tutti i quartieri della città, Scotswood era forse quello più degradato. Qui si installarono le famiglie dei minatori, prima, e quelle degli operai del cantiere navale in seguito, quando le miniere si esaurirono. La gente era povera, disperata. Si sopravviveva a stento, spesso si ricorreva ad espedienti non esattamente legali. E poi c’erano le prostitute...

martedì 21 agosto 2012

Two Earths

Lo specchio. Ogni immagine riflessa in uno specchio, anche se apparentemente uguale, viene distorta: la parte destra diventa la sinistra e la realtà si trasforma in realtà illusoria, in un mondo rovesciato. Ma quale dei due mondi è davvero rovesciato? Quello che vediamo nello specchio o il nostro?  Chi sono veramente gli abitanti della realtà che si trova dall’altra parte dello specchio? Chi è quell’individuo a noi gemello, colui che guardiamo negli occhi tutte le mattine quando ci radiamo o ci laviamo i denti? Potrebbe essere qualcosa di più rispetto ad una semplice immagine di noi stessi? E se fossimo noi a vivere dalla parte sbagliata dello specchio? Se fossimo noi l’immagine riflessa di un’altra realtà? Quante volte questo pensiero si è affacciato alla mia mente. Lo specchio mi ha sempre lasciato una strana sensazione di inquietudine. C’è qualcosa che non capisco e che quasi ho paura a capire.  Ma non è di questo che volevo parlare oggi. Almeno, non solo di questo. Volevo parlare di una singolare teoria che qualcuno mi ha proposto quando ero bambino, che sembra non c’entri nulla ma…

venerdì 17 agosto 2012

Nevermore (Pt.1)

L’esistenza è un ciclo: si nasce, si vive, si muore (eccetera eccetera, a seconda dei punti di vista...). Questo riguarda le persone e tutta la sfera delle attività umane: progetti, idee e quant’altro nascono e muoiono con chi li ha creati. Se c’è qualcosa però che può aspirare all’immortalità, perlomeno nel senso terreno del termine, quella è l’arte. Ancora oggi noi possiamo ammirare opere d’arte concepite e realizzate centinaia, migliaia di anni fa. E le macchine e le banche dati oggi a nostra disposizione permetteranno di preservare ancora meglio le opere contemporanee, o perlomeno quelle di tra esse che possono essere digitalizzate perché totalmente immateriali. Come la musica. Finché esisterà il mondo così come noi lo conosciamo, o in una forma più evoluta come mi auguro, l’arte umana potrà sopravvivere ai propri creatori.
Con questo pensiero nella mente, e decisamente in ritardo, mi sono finalmente deciso a lasciare nella blogosfera il mio piccolo tributo ai Nevermore, gruppo thrash-power-prog di Seattle da molti anni tra le mie band preferite, che si formò nel lontano 1992 e si è sciolto nel 2011 tra recriminazioni varie. 

domenica 12 agosto 2012

Corpus Imperfectum

Anche dopo il trionfo di “The Artist” all’ultima edizione degli Oscar, chi continua a trovare noiosi i film muti alzi la mano. Scommetto che là fuori siete in tanti. E vi capisco, davvero. In quest’era in cui la tecnologia permette di ottenere risultati strabilianti a livello audio e video, con girati che sembrano più veri del vero, mi rendo conto che i film muti non sono per tutti. Eppure, se amate le atmosfere gotiche non potete prescindere da alcuni classici come, tanto per fare i soliti nomi, “Il gabinetto del Dr. Caligari” e il “Nosferatu” di Murnau. E naturalmente come “Golem - Come venne al mondo” (Der Golem, wie er in die welt kam di Paul Wegener, 1920), considerato un capolavoro dell’espressionismo tedesco nonostante il parere del suo stesso regista, che lo descrisse piuttosto come un film naturalista.
E pensare che da qualche anno a questa parte i registi fanno a gara a realizzare film visivamente “poveri” - i cosiddetti PoV - e che di recente addirittura è stato completato il primo film interamente girato con un iPhone… Immaginate invece cosa avrebbe potuto fare Wegener del suo film se avesse avuto a disposizione i mezzi odierni… Ma no, non ha senso ragionare in questi termini: il fascino dei film di quell’epoca sta principalmente nella loro aria vintage, nella loro diversità e anche in quello che hanno in meno, e non in più, rispetto ai film moderni. 

giovedì 9 agosto 2012

Angeli caduti

Diavolo di una Leggivendola! Che superba idea! Poco più di un mese fa, la mia cara amica e collega blogger, per festeggiare adeguatamente il duecentesimo follower del suo inimitabile blog, ha lanciato una simpatica iniziativa di “divulgazione letteraria”. Una catena di lettura, se vogliamo chiamala col suo vero nome, che in buona sostanza equivale a dire che quel simpatico diavoletto ha mandato alcuni dei suoi libri a trascorrere le vacanze a casa di altri bloggers sparsi qua e là per lo stivale.
Sebbene sia ancora ben lungi dall’aver terminato il mio compitino (quello di leggere il libro), a causa di svariati impegni familiari e di lavoro che non sto qui ad elencare, ho pensato di scrivere un post di aggiornamento. Glielo devo alla fanciulla. Mi sento un po’ in colpa per questo mese di silenzio. Potrebbe pensare che il sottoscritto (ed il suo libro con me) sia sparito nel nulla… Tutt’altro: eccomi qua. Purtroppo, visti i tempi, ho paura che questo ramo della catena finirà laddove è iniziato. Non avrò tempo di inviare il libro che ho ricevuto a qualche altro blogger. A meno che la sua proprietaria non decida di prolungare oltre il termine prestabilito di agosto/settembre, sarà a lei che lo restituirò. 

lunedì 6 agosto 2012

Danza Macabra

Let me tell you a story to chill the bones, about a thing that I saw. Il mio primo incontro con la “Danza Macabra” (o Totentanz, che dir si voglia) risale a qualche anno fa. Credo fosse il 2005 o il 2006. Avevamo deciso di trascorrere, io e la mia lei, qualche giorno in un posticino romantico, lontano dallo stress di tutti i giorni, e la nostra scelta era ricaduta su Lucerna, nella Svizzera centrale. L’idea di Lucerna mi ronzava nella mente da molti anni, dal giorno in cui, primo giorno della mia prima classe elementare, ammirai sulla copertina del mio primo quaderno la foto di un affascinante ponte coperto che, si leggeva in una nota in basso, era sito proprio a Lucerna. Quel ponte, simbolo della città, altro non è che il famoso Kapellbrücke (Ponte della Cappella), uno dei più antichi ponti di legno d’Europa risalente al 1365 che, con i suoi 204 metri, unisce la parte settentrionale della città con quella meridionale. Ricordo come se fosse oggi il momento in cui il Kapellbrücke apparve improvvisamente ai miei occhi dopo una curva. Di fronte a me l’immagine della mia infanzia, esattamente così come l’avevo vista centinaia di volte su quel quaderno (che, per inciso, ancora conservo gelosamente). Ma chi avrebbe mai detto che sarebbe stato un altro ponte, lo Spreuerbrücke (Ponte del Mulino) quello che mi avrebbe sorpreso ancora di più. Lo Spreuerbrücke sorge un chilometro più a monte ed è caratterizzato da una serie di dipinti in stile medievale sulla peste del XVII secolo. Tali dipinti ritraggono varie condizioni di uomini e donne, sacerdoti e guerrieri, principi e contadini, dai personaggi più umili ai più potenti, tutti raffigurati in balia della morte. Tutti gli uomini sono quindi uguali di fronte alla Morte, è il messaggio. Memento mori! (Ricordati che devi morire!) Scheletri danzanti si fanno beffe delle loro vittime, invocanti pietà, inutilmente piene di rimorso e disperazione. Had I danced had I pranced had I sung with them / All had death in their eyes / Lifeless figures they were undead all of them / They had ascended from hell / As I danced with the dead / my free spirit was laughing and howling down at me / below my undead body / just danced the circle of dead (Dance of Death, Iron Maiden, 2003). Ecco quindi fare il loro ingresso in scena le Danze Macabre: da quel giorno le avrei notate un po’ ovunque nel corso delle mie peregrinazioni: l’ultima a Berlino, nella Marienkirche, al cui interno  è affrescata una “Dance of Death” alta 2 metri e lunga 22.

giovedì 2 agosto 2012

Gloomy Semenov

Primi giorni di agosto immerso nell’implacabile caldo milanese. Le prospettive per questo mese che sta iniziando non sono le più allettanti: lavoro, lavoro e soltanto lavoro. Fortunatamente una buona parte dei miei concittadini ha già preso la via del mare e ciò mi permette, se non altro, di andare e venire dall’ufficio in tempi decenti, libero di sfrecciare a mio piacimento sulla Vigevanese, solitamente più simile ad un girone infernale che ad una semplice strada statale. Questo è uno dei vantaggi per chi, come me, sceglie di staccare la spina nei periodi dell’anno meno classici.
Purtroppo il caldo non è il miglior ingrediente per la realizzazione di buoni post. Le idee non mi mancano, intendiamoci. Quello che mi manca è la voglia (o la forza) di mettermi qui la sera a picchiettare sui tasti del mio laptop. Ad ogni modo mi ero ripromesso di non mollare e non ho intenzione di farlo proprio adesso che il mio blog ha iniziato, dopo oltre un anno di solitudine, a dare i suoi frutti in termini di followers. Non moltissimi per la verità, qualcuno potrebbe obiettare, ma per adesso mi va bene così: dopotutto non sono qui per collezionare followers come fossero figurine. Tra l’altro credo che il numero di followers (e il numero di commenti) vadano di pari passo con il livello di interesse che quello che si scrive riesce a suscitare. Di conseguenza sono io l’unico che può portare questo blog verso il successo o verso la rovina. Mi auguro davvero che si avveri la prima ipotesi, non tanto per la mera ambizione di divenire uno dei cosiddetti “influencer blogger” (non aspiro a tanto e nemmeno ne potrei sopportare le responsabilità), quanto perché credo sia più soddisfacente scrivere non solo per se stessi ma anche per gli altri. Sbaglio? Ditemelo voi… Ad ogni modo mi accorgo che mi sto perdendo in chiacchere. Oddio, a me le chiacchere piacciono anche, ma forse non sono queste le cose che cercano gli occasionali visitatori del mio blog (o si?).

sabato 28 luglio 2012

Sirius, cane maggiore

Sirius e Plaxy sono cresciuti insieme e si amano profondamente, ma in questo mondo non c’è posto per il loro amore. Le differenze tra loro, così grandi da aver persino diviso le loro strade per lungo tempo, non gli permetteranno di vivere questo amore alla luce del sole, e la censura della società si abbatterà su questo sentimento, stroncandolo per sempre.
Descritto così “Sirius”, romanzo di fantascienza anomalo e bellissimo di Olaf Stapledon, scrittore e filosofo britannico scomparso nel 1950, sembra quasi un libro d’amore. Ma in “Sirius” c’è molto, molto più di questo.

Sirius (Alfa Canis Majoris, in greco antico Σείριος, Seirios, ovvero "splendente”), conosciuta anche come Stella del Cane o Stella Canicola, è una stella bianca della costellazione del Cane Maggiore; è la stella più brillante, osservabile da tutti i punti della terra anche ad occhio nudo. Presso molte culture, la stella è stata spesso associata alla figura di un cane, ed è spesso indicata come foriera di sciagure. I Romani celebravano il tramontare eliaco di Sirio intorno al 25 aprile, sacrificando un cane, accompagnato da incenso, vino e una pecora alla dea Robigo in modo che le emanazioni nefaste della stella non causassero danni al raccolto del grano di quell'anno (Fonte: Wikipedia). Sirius è anche il nome del protagonista di questo romanzo. Quale nome, d’altronde, sarebbe più adatto per un cane? Avete capito bene, ho detto proprio “cane”. Romanzo incentrato sui rapporti personali, spesso fallimentari, “Sirius” è notevole anche per la personale rilettura del mito di Frankenstein. Fu pubblicato nel 1944 e, che io sappia, finora non ha mai goduto di molta notorietà, perlomeno qui da noi.

giovedì 26 luglio 2012

Uzumaki: il potere della spirale

Curioso esperimento “Uzumaki”: film dell’orrore con brevi momenti-commedia, siparietti che “solo in un film giapponese”, che trovo a tratti fuori luogo ma che tuttavia, stranamente, non impediscono alla trama di divenire inquietante al momento opportuno. Finale irrisolto, non mi ha soddisfatto. Il film comunque merita una visione, se non altro perché ha una trama molto originale e in molti sensi, direi, visionaria.
Il merito però non è del regista Higuchinsky (giapponese, ma originario dell'Ucraina), poiché il film altro non è che la trasposizione cinematografica dell’omonimo manga di Junji Ito (伊藤潤二 Ito Junji) . Solo il finale è diverso, perché quando il film uscì, nel 2000, il fumetto era ancora in corso di pubblicazione.
Uzumaki racconta della cittadina di Kurouzu i cui abitanti a poco a poco divengono preda di quella che ha tutte le caratteristiche di una vera e propria possessione, anche se molto anomala, e finiscono per suicidarsi o comunque per perire in modi orribili per colpa della spirale. Dapprincipio, la cosa si manifesta con un improvviso, morboso interesse delle persone verso qualsiasi oggetto abbia una forma a spirale, ma ben presto degenera nell’insopprimibile desiderio di divenire essi stessi una spirale, plasmando i propri corpi di conseguenza ove la trasformazione non avviene naturalmente, e di rendere il mondo intero e il genere umano una spirale.

mercoledì 25 luglio 2012

E Dio disse a Caino...

Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra. Cos’hanno in comune un passo della Genesi, un film western e il presente blog che, almeno così si direbbe, rappresenta una piccola antologia del gotico? Ebbene sì, ci voleva una calda notte di luglio perchè Obsidian Mirror, dopo un attento esame di coscienza, decidesse di tornare a solcare il suo percorso originale. Sto parlando del gotico, ovviamente, che ormai da un anno abbondante viene citato là in cima, nel sottotitolo del blog, ma che per un motivo o per l’altro non ha vantato che poche sporadiche apparizioni da queste parti. E’ ora quindi di porre rimedio a questa lacuna e iniziare a parlare un po’ di gotico. Da che parte iniziare, però? La risposta è semplice: dal cinema italiano di genere, quello che ormai da anni rappresenta un buon 80% della mia ormai vasta collezione di DVD. Ma parafrasando la domanda iniziale: qual è il comun denominatore tra Genesi, western e gotico? In una sola parola: Antonio Margheriti, in arte Anthony M. Dawson. Tra i più grandi maestri del cinema di genere non si può non citare Margheriti, tra i suoi contemporanei secondo forse solo a Mario Bava, ma senz’altro di tutti il più eclettico, in grado di spaziare dal western all’horror, dalla fantascienza al poliziottesco, senza batter ciglio. “E Dio disse a Caino“ (Satan Der Rache) è un esempio pressoché unico di “western-gotico”, per alcuni una sorta di contaminazione di generi, ma più probabilmente una perfetta miscela tra due atmosfere diametralmente (in questo caso, solo apparentemente) opposte.
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