Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra. Cos’hanno in comune un passo della Genesi, un film western e il presente blog che, almeno così si direbbe, rappresenta una piccola antologia del gotico? Ebbene sì, ci voleva una calda notte di luglio perchè Obsidian Mirror, dopo un attento esame di coscienza, decidesse di tornare a solcare il suo percorso originale. Sto parlando del gotico, ovviamente, che ormai da un anno abbondante viene citato là in cima, nel sottotitolo del blog, ma che per un motivo o per l’altro non ha vantato che poche sporadiche apparizioni da queste parti. E’ ora quindi di porre rimedio a questa lacuna e iniziare a parlare un po’ di gotico. Da che parte iniziare, però? La risposta è semplice: dal cinema italiano di genere, quello che ormai da anni rappresenta un buon 80% della mia ormai vasta collezione di DVD. Ma parafrasando la domanda iniziale: qual è il comun denominatore tra Genesi, western e gotico? In una sola parola: Antonio Margheriti, in arte Anthony M. Dawson. Tra i più grandi maestri del cinema di genere non si può non citare Margheriti, tra i suoi contemporanei secondo forse solo a Mario Bava, ma senz’altro di tutti il più eclettico, in grado di spaziare dal western all’horror, dalla fantascienza al poliziottesco, senza batter ciglio. “E Dio disse a Caino“ (Satan Der Rache) è un esempio pressoché unico di “western-gotico”, per alcuni una sorta di contaminazione di generi, ma più probabilmente una perfetta miscela tra due atmosfere diametralmente (in questo caso, solo apparentemente) opposte.
Come nel più classico dei romanzi gotici abbiamo il castello come ambientazione principale, qui rappresentato dalla magione del latifondista Acombar, e abbiamo il fantasma che tormenta l’apparente serenità del castello. Il fantasma è qui rappresentato da Gary Hamilton, un Klaus Kinsky nel ruolo inedito del buono (che solo Margheriti poteva convincerlo ad interpretare), che viene graziato dai lavori forzati e riappare ad un incredulo Acombar, l'uomo che lo fece finire ingiustamente in galera e gli rubò la donna. Il film si svolge praticamente tutto in una notte, durante una tempesta che accompagna l'arrivo del vendicatore, il quale sazierà la propria sete di giustizia mietendo vittime, una dopo l’altra, senza essere visto, come un fantasma avvolto dalle tenebre, implacabile ed invincibile come la morte stessa.
I tirapiedi di Acombar, in preda ad un timore quasi religioso, sussurrano a mezza voce che Hamilton non è un uomo, ma un mostro dell’inferno… e del resto la tempesta “apocalittica” che oscura il cielo anzitempo, la campana che continua a suonare come posseduta, il prete che diventa agnello sacrificale, il fuoco purificatore e la luce del mattino che riporta con sé la calma sono tutti elementi di sapore biblico. Se mai ce ne fosse bisogno, è lo stesso Hamilton che ci offre un’ulteriore spiegazione per il titolo del film: egli è deciso a portare a termine la sua vendetta a qualunque costo, anche se Dio poi gliene facesse pagare il pegno, rendendolo un reietto come Caino. E difatti, dopo il più classico dei finali western che vede il buono e il cattivo a confronto, come Caino (e come una creatura della notte al sopraggiungere dell’alba) Hamilton si lascia dietro le spalle la sua casa, la “terra promessa” appena ritrovata, per il vasto mondo. E, forse, ricominciare.
Probabilmente nessuno, se non Klaus Kinski, avrebbe potuto incarnare meglio il personaggio di Gary Hamilton. Un Klaus Kinski particolarmente ispirato, che ha dato un volto che mai si era visto prima (e mai sarà visto dopo) al desiderio di vendetta. Quello di un uomo dall’animo pieno di luci ed ombre, eppure nonostante il risentimento onesto abbastanza da riconoscere che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli. Lasciate perdere Kill Bill, Lady Snowblood o la famosa trilogia del coreano Park Chan-Wook: la vendetta sta di casa negli occhi schizofrenici e psicopatici di Klaus Kinski!
Non c’è da stupirsi, considerata la bizzarra (per usare un eufemismo) vita dell’attore. Dopo un’infanzia triste e caratterizzata da precoci esperienze sessuali, sembra anche con la sorella, Klaus viene segnato, nel corso della seconda guerra mondiale, dalla terribile esperienza della prigionia. A ventisei anni viene ricoverato in manicomio, dove i medici lo definiscono un “pericolo pubblico”. Nella prima pagina della sua cartella clinica si legge: «Diagnosi temporanea: schizofrenia. Definitivo: psicopatia».
Il giovane attore durante l’internamento tentò il suicidio assumendo tre fiale di morfina. Sopravvisse, ma tre giorni dopo assunse nuovamente una dozzina di compresse di sonnifero. In seguito, affetto da una grave infezione alla gola, leggenda narra che se la estirpò da solo con il coltello per non pagare il medico. Anni dopo Klaus Kinski ebbe due figlie e con una di loro, l’attrice Nastassja, avrà si dice una relazione incestuosa.
Come nel più classico dei romanzi gotici abbiamo il castello come ambientazione principale, qui rappresentato dalla magione del latifondista Acombar, e abbiamo il fantasma che tormenta l’apparente serenità del castello. Il fantasma è qui rappresentato da Gary Hamilton, un Klaus Kinsky nel ruolo inedito del buono (che solo Margheriti poteva convincerlo ad interpretare), che viene graziato dai lavori forzati e riappare ad un incredulo Acombar, l'uomo che lo fece finire ingiustamente in galera e gli rubò la donna. Il film si svolge praticamente tutto in una notte, durante una tempesta che accompagna l'arrivo del vendicatore, il quale sazierà la propria sete di giustizia mietendo vittime, una dopo l’altra, senza essere visto, come un fantasma avvolto dalle tenebre, implacabile ed invincibile come la morte stessa.
I tirapiedi di Acombar, in preda ad un timore quasi religioso, sussurrano a mezza voce che Hamilton non è un uomo, ma un mostro dell’inferno… e del resto la tempesta “apocalittica” che oscura il cielo anzitempo, la campana che continua a suonare come posseduta, il prete che diventa agnello sacrificale, il fuoco purificatore e la luce del mattino che riporta con sé la calma sono tutti elementi di sapore biblico. Se mai ce ne fosse bisogno, è lo stesso Hamilton che ci offre un’ulteriore spiegazione per il titolo del film: egli è deciso a portare a termine la sua vendetta a qualunque costo, anche se Dio poi gliene facesse pagare il pegno, rendendolo un reietto come Caino. E difatti, dopo il più classico dei finali western che vede il buono e il cattivo a confronto, come Caino (e come una creatura della notte al sopraggiungere dell’alba) Hamilton si lascia dietro le spalle la sua casa, la “terra promessa” appena ritrovata, per il vasto mondo. E, forse, ricominciare.
Probabilmente nessuno, se non Klaus Kinski, avrebbe potuto incarnare meglio il personaggio di Gary Hamilton. Un Klaus Kinski particolarmente ispirato, che ha dato un volto che mai si era visto prima (e mai sarà visto dopo) al desiderio di vendetta. Quello di un uomo dall’animo pieno di luci ed ombre, eppure nonostante il risentimento onesto abbastanza da riconoscere che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli. Lasciate perdere Kill Bill, Lady Snowblood o la famosa trilogia del coreano Park Chan-Wook: la vendetta sta di casa negli occhi schizofrenici e psicopatici di Klaus Kinski!
Non c’è da stupirsi, considerata la bizzarra (per usare un eufemismo) vita dell’attore. Dopo un’infanzia triste e caratterizzata da precoci esperienze sessuali, sembra anche con la sorella, Klaus viene segnato, nel corso della seconda guerra mondiale, dalla terribile esperienza della prigionia. A ventisei anni viene ricoverato in manicomio, dove i medici lo definiscono un “pericolo pubblico”. Nella prima pagina della sua cartella clinica si legge: «Diagnosi temporanea: schizofrenia. Definitivo: psicopatia».
Il giovane attore durante l’internamento tentò il suicidio assumendo tre fiale di morfina. Sopravvisse, ma tre giorni dopo assunse nuovamente una dozzina di compresse di sonnifero. In seguito, affetto da una grave infezione alla gola, leggenda narra che se la estirpò da solo con il coltello per non pagare il medico. Anni dopo Klaus Kinski ebbe due figlie e con una di loro, l’attrice Nastassja, avrà si dice una relazione incestuosa.
Ma Kinski era davvero un pazzo oppure solamente un personaggio un po’ originale? I concetti di schizofrenia e di psicopatia sono tuttora molto vaghi. Spesso si ricorre a certi appellativi quando non si riesce a definire altrimenti alcuni comportamenti del paziente. Distacco emotivo, assenza di emozioni, incapacità di concentrazione, mancanza di motivazione sono alcuni sintomi che caratterizzano schizofrenia e psicopatia. Ho diversi colleghi che manifestano questi sintomi, ma da qui a definirli psicopatici ce ne passa. C’è inoltre da considerare il momento storico nel quale queste malattie furono riscontrate in Kinski. La seconda guerra mondiale è stata dura per tutti, molto di più evidentemente per chi ha sperimentato la prigionia. Inoltre quanto più spesso venivano liquidati come pazzi persone normalissime che l’inesperienza dei medici non riusciva a classificare diversamente? Non dimentichiamoci che pratiche criminali come la lobotomia sono state abbandonate quasi completamente solo all'inizio degli anni settanta, e alcuni paesi (Francia, Belgio, Regno Unito) hanno continuato ad applicarle, sebbene su scala ridotta, anche negli anni ottanta. Kinski era quindi probabilmente solo un solitario, una persona timida e riservata e, di conseguenza, spesso violenta ed irascibile. Spesso e volentieri i registi che si trovavano a lavorare con lui dovevano sottostare ai suoi capricci ed erano molti coloro che lo odiavano.
Per sua sfortuna Antonio Margheriti non gli era da meno. A proposito di questo film, Edoardo Margheriti, il figlio del regista, ci racconta: “La corda si spezzò dopo pochissimi giorni di riprese: stavano girando dentro delle caverne, quando Kinski ebbe una delle sue crisi da primadonna e stava per lasciare il set. Antonio non ci vide più dalla rabbia e cominciò ad insultarlo, arrivando anche a tirargli dietro uno dei fucili di scena. Curiosamente, questo gesto accrebbe smisuratamente il rispetto di Kinski per Antonio e tornò sul set docile come un cagnolino, completando il film senza dargli ulteriori fastidi. Klaus era un "animale" da cinema, e probabilmente voleva sentirsi "dominato" dalla persona preposta a dirigerlo. Infatti in seguito ebbe un rapporto straordinario con Antonio, lavorando in molti altri suoi film. Credo che Antonio Margheriti e Werner Herzog furono i soli due registi a creare un rapporto di superiorità, e conseguentemente di collaborazione e stima, con Klaus Kinski.“
Se c'è Kinski, merita!
RispondiEliminaInteressante come due mondi apparentemente lontani, western e gotico, possano dare vita a un film di questo tipo. Cercherò di recuperarlo.
Non fa male guardarsi un western ogni tanto. E se proprio cerchi un "western contaminato" è decisamente mille volte meglio questo del più recente "Cowboys & Aliens"
Elimina"Ci sono cose che è inutile sperare, nella vita."
EliminaBello! Alla fine l'ho visto e devo dire che vedere Kinski in versione buono fa uno strano effetto. Inoltre, è pieno di elementi particolari: l'uragano, il cimitero, il fantasma, gli specchi. La scena degli specchi mi ha fatto venire in mente Il mio nome è Nessuno.
La scena finale degli specchi, ha confessato Margheriti, è un omaggio a La signora di Shanghai di Orson Welles.
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