domenica 1 luglio 2012

Dell'acqua sotto il ghiaccio

Oggi vi parlerò dell’acqua sotto il ghiaccio. Anzi, vi parlerò del suo silenzio. Un silenzio in senso figurato, però. Vi parlerò di cose non dette, quelle che di tanto in tanto affiorano dalle pagine del romanzo di Joseph Zoderer, scrittore altoatesino, classe 1935. Cose non dette che affiorano giusto il tempo di lasciarsi intravedere e desiderare, e poi scompaiono nuovamente, celandosi tra una riga e l’altra, in un mare di parole ove è facilissimo perdersi.
Prima però devo fare una premessa. Devo ammettere che, quando ho comprato questo libro, l’ho fatto esclusivamente per il suo titolo. Mi piaceva. Non ne avevo mai sentito parlare prima, non conoscevo il suo autore. E’ successo molti anni fa, era il 1990 quando venne pubblicata da Einaudi la sua prima edizione italiana all’interno della collana “Nuovi Coralli”.  Fu allora che vidi questo piccolo e simpatico volumetto in una libreria del centro e non potei fare a meno di averlo. Non lessi nemmeno le note in quarta di copertina, proprio per dirla tutta. Lo presi, passai alla cassa e corsi a casa. L’arte in fondo è l’unica porcata al mondo che sia bella.
Pochi titoli a mio parere hanno una tale capacità evocativa. Me ne vengono in mente solo altri due: “Alla ricerca del tempo perduto” e “Viaggio al termine della notte”, ma questa naturalmente è un’opinione personale. Anche perché, come è ovvio, conta molto la mano del traduttore: “La Researche” e “Voyage” rendono altrettanto bene anche in originale (sarà forse perché il francese si presta bene), mentre il titolo originale di questo, “Dauerhaftes Morgenrot”, è decisamente meno attraente e tra l’altro, scopro solo ora, ha pure un diverso significato.
Quando finii di leggerlo rimasi indeciso su quali sensazioni mi avesse davvero trasmesso. Avevo capito poco o nulla di quello che avevo letto. Fino a metà del libro, addirittura, mi era riuscito difficile delineare i contorni della trama, figuriamoci capire dove l’autore volesse andare a parare. La narrazione proseguiva a sprazzi, senza linearità temporale, al punto che era difficile stabilire quali fatti fossero reali, e quali invece non erano altro che allucinazioni o incubi del protagonista.
Questo libro era forse un capolavoro così grande che la mia piccola cultura di adolescente non era riuscito ad interpretarlo? Oppure era solo un libro scritto… non dico male, quello no…. ma un libro scritto di getto, dalla penna di un autore tormentato al punto d’aver reso il testo talmente introspettivo da non lasciare spazio ad alcuna possibile interpretazione da parte di altri? La storia è una storia di sofferenza, questo l’avevo capito, ma chi erano quegli strani personaggi che venivano nominati di tanto in tanto? Chi era il protagonista che sembrava essere quasi invisibile? Decisi che mi era piaciuto. Non sapevo perché, ma mi era piaciuto e lo avrei senz’altro riletto quando sarei stato in grado di capirlo. Il silenzio dell’acqua sotto il ghiaccio è rimasto sul mio scaffale, in mezzo agli altri libri, in una sorta di sospensione criogenica per oltre vent’anni. Adesso è giunto il momento di fare un nuovo tentativo. Probabilmente mi sono svegliato da me, per evitare lo spavento, oppure è stato lo spavento a svegliarmi, mi destai con un desiderio ardente di vita, volevo appartenere anch’io al mondo dei camminatori mattinieri dal sangue vigoroso, volevo vivere, una volta ancora, un’intera giornata, e fosse anche una fredda giornata di novembre.
Trovo qua e là delle parti sottolineate. Evidentemente la mia sensibilità di adolescente aveva trovato qualcosa di interessante. Forse qualche frase che avrei voluto riutilizzare in qualche modo e che ora, finalmente, posso inserire qua e là in corsivo all’interno di questo post. Evidentemente il destino ha voluto che non sottolineassi invano. La pelle di Lukas schiacciava perle di sudore su quella di lei, s’erano rotolati nella sabbia, le bocche congiunte, finché le ginocchia di Lukas non si divaricarono sul ventre di lei e lui non vide sotto di sé le labbra aperte di Livia e i suoi capelli nella sabbia e i granelli di sabbia nei suoi capelli, man mano che insieme affondavano nella sabbia. Dopo risero di quelle gocce di sale cadute dai rami sulla pelle di lei, che in un primo momento avevano scambiato per resina.
Di cosa parla questo libro, quindi? Se proprio devo esser diretto lo posso spiegare in una parola sola: questo libro non parla di NIENTE.

In qualche modo concordo con quelle (poche) recensioni che ho trovato qua e là per il web, ma voglio cercare di dare una definizione a quel “niente”, e superare il limite che si sono dati i vari recensori che hanno impietosamente commentato il lavoro di Zoderer. Parlare “di niente” non ha in questo caso una valenza negativa. L’autore ci parla di niente ma ci trasmette tanto. Sono le parole non dette il valore letterario del “Silenzio”: in sostanza siamo tutti coautori di questo libro. Zoderer getta le fondamenta e saremo poi noi lettori, con il nostro bagaglio di sensibilità e di esperienza, a costruire la storia. Forse tutto con Johanna sarà diverso, quando ci toccheremo, e s’appoggiò al muro del municipio. M’accorsi che lei non voleva difendersi, è vero che la vedevo esitare, ma notai anche quel suo lento allargarsi della bocca, lei aprì le labbra e permise che io avvicinassi il mio volto al suo.
Il protagonista del romanzo si chiama Lukas, un individuo qualsiasi, uno come tanti altri, uno come noi se vogliamo, visto che volenti o nolenti dovremmo identificarci con lui, sebbene ciò vada contro ogni logica.
Lo troviamo completamente ubriaco: dall’inizio alla fine del romanzo Lukas vagherà folle e ubriaco da un punto all’altro della città, senza meta, senza motivo alcuno se non quello di cercare di superare la notte e con essa i propri affanni. Accellerò il passo verso i vicoli che si facevano sempre più stretti e nei quali ora i raggi lattiginosi del sole cadevano radi, e poi rallentò il passo, posava le palme delle mani contro i muti: tutto era reale, alcune finestre erano state rotte, altre erano inchiodate con assi, vi erano finestre murate e finestre chiuse da inferriate. Quali affanni? Lukas è tormentato dal fantasma di Livia. La sua compagna di sempre, colei con cui ha diviso i momenti meravigliosi dell’innamoramento e i momenti devastanti dell’allontanamento, è più reale per Lukas quando è da solo che non quando sono insieme. E quella sera esclamò: è da tanto che ci conosciamo! O forse invece chiese: da quant’è che ci conosciamo? Come se avesse detto: incontrarci non merita tutta questa fatica, nulla ci incuriosisce, non vi è più nulla da scoprire. E per la prima volta lui tacque e non mentì: si, disse, e dopo un poco ripeté: si. Piangeva, perché non sapeva più se quella fosse la verità. Forse addirittura l’amava, quella persona che sapeva ogni cosa e restava coricata accanto a lui, disposta ad accettare il calore del suo corpo, probabilmente piangeva perché non scappava per sempre da quella casa. Dove stai andando? Da molto tempo ormai Livia non me lo domanda più, devo smetterla di inventare dei pretesti.
L’allontanamento tra Livia e Lukas è diventato qualcosa di inevitabile ad un certo punto, quando ormai la presenza opprimente di Johanna era entrata a far parte della vita di lui. A questo punto ci si chiede come si possa riuscire ad identificarsi con un marito fedifrago. Questo, lo ammetto, è un tantino difficile. Difficile per chi il tradimento lo vede da fuori, difficile per chi lo vive da dentro, nei panni della persona tradita, difficile per chi il tradimento lo vive nei panni del terzo incomodo, colui o colei che è causa (o conseguenza) della fine di un amore. Zoderer sa benissimo che Lukas è un personaggio negativo, per cui ha bisogno di qualcosa di più affinché possa il suo protagonista possa essere amato (o perlomeno capito o al limite compatito) dal suo pubblico. L’autore gli crea quindi attorno un ulteriore dramma. Io cercavo il tuo odore, nei primissimi tempi io cercavo il tuo odore, mi piacevano il tuo sudore e il tuo respiro. A dire il vero, lui temeva un incontro con Johanna, temeva un venir meno del sentimento, temeva anche un venire meno del sentimento da parte di lei, eppure in quel momento non desiderava nessuna cosa più di questo vuoto che lo stordiva con la sua violenza. Io potrei continuamente reinventarmi Johanna, anche la sua morte, proprio come sono continuamente capace di dimenticarla.

Non c’è futuro quindi, secondo Zoderer, nel tradimento. Se facciamo soffrire qualcuno, saremo destinati a nostra volta a soffrire. Lukas vaga per la città alla ricerca di una spiegazione. Da ubriachi è più facile. Si pensa e si ripensa ai propri errori, si cerca un modo per ricostruire la propria vita, al fianco dell’una o dell’altra non importa. Meglio se da soli, tuttavia. Non si torna mai indietro sui propri passi, specialmente in amore. Il male si ritorce contro chi lo ha fatto. Non c’è più futuro. Solo la morte può essere una via d’uscita. Tu, Livia, mi sei sopravvissuta, tu avevi altre cose da fare, mai in nessun modo hai condiviso le colpe della mia esistenza. Si pensa a chi si è lasciato indietro. Si cerca di guardare avanti, ma davanti c’è il nulla. Solo una fauna improponibile di personaggi bizzarri che, pagina dopo pagina, incrociano la strada di Lukas: una prostituta sdentata, un imbrattatele smargiasso, una gigantesca etiope, un losco portiere d’albergo, uno strampalato collezionista di fotografie. Un’umanità oscena e grottesca che sembra uscita direttamente da un racconto di Bukowski. Ma non serve a niente. E intanto la faccia occhialuta di Laura gli appariva davanti sempre più chiaramente nelle sembianza del volto familiare di Livia al momento dell’addio. A cosa può servire trascinarsi in giro, da un bar all’altro? A cosa serve incolpare il destino? Livia è la complice della mia infelicità, ma proprio per questo ho bisogno di lei, o forse è soltanto pietà. A cosa serve guardarsi indietro, se non a farsi del male? Lukas pensa, in un momento di lucidità: tu non mi fai paura, potrei amarti. Assurda impennata d’orgoglio di una persona perfettamente conscia che, se c’è una cosa che più di altre gli fa paura, quella è l’amore. Amore in cui lui ha fallito completamente.

Aveva tranquillizzato Livia dicendole: quel che abbiamo adesso, lo abbiamo, e ciò che abbiamo avuto, ormai nessuno ce lo potrà mai togliere. Belle parole che tuttavia non condivido. Avete presente quella canzone di Fabrizio De Andrè che ad un certo punto dice: “E’ stato meglio lasciarsi che non esserci mai incontrati”? Credo di non aver mai sentito niente di più discutibile. Ma queste sono ovviamente opinioni personali. E’ vero che, sforzandosi, si può trovare un aspetto positivo in tutte le cose, ma questo non significa che dobbiamo rimpiangere quegli aspetti, specialmente se il consuntivo è in rosso. Mi piace citare quella canzone di De Andrè (si tratta, per quei pochi che non la conoscessero, di “Giugno 73”, inclusa nel mitico “Concerto con la PFM”). Mi piace perché si sentono mille opinioni diverse in proposito. La maggior parte delle persone da me interpellate sostiene che, tutto sommato, comunque sia finita, è meglio essersi incontrati, perché le esperienze arricchiscono e contribuiscono alla nostra formazione. Se la guardo da questo punto di vista posso essere tentato di dar loro ragione. D’altra parte la vita è talmente breve che bisognerebbe invece, quando giungerà la fine, essere in grado di dire che si è vissuto al meglio ogni singolo giorno.

Lo scopo di questo post era inizialmente quello di recensire un libro. Non so se ne sono stato capace. Recensire libri non è il mio mestiere. Ultimamente tuttavia ho visitato diversi blog tematici di letteratura e mi è venuta voglia di provare. L’ho però fatto nel mio solito stile che, me ne sono accorto, parte da una cosa e finisce per approdare a tutt’altro. Questo sono io. Mi rende felice sapere che, nonostante tutto, ci sia qualcuno che apprezza quello che scrivo e come lo scrivo. A tutti gli altri potrei dire che è stato meglio lasciarsi… no dai, che stronzata, la smetto qui.
Nulla l’aveva tanto attratta quando il pensiero delle acque profonde sotto il ghiaccio, avrebbe potuto dire Johanna, l’immobilità della massa, oppure il continuo fluttuare di un elemento incolore, l’assenza di ogni parola già subito sotto la coltre di ghiaccio, anche sotto lo strato sottile di una pozza d’acqua, quell’incessante saper aspettare. Ma io non voglio, non voglio, aveva gridato lui, e Livia lo aveva svegliato scuotendolo. Nulla gli incuteva più timore del silenzio dell’acqua sotto il ghiaccio.

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