venerdì 17 agosto 2012

Nevermore (Pt.1)

L’esistenza è un ciclo: si nasce, si vive, si muore (eccetera eccetera, a seconda dei punti di vista...). Questo riguarda le persone e tutta la sfera delle attività umane: progetti, idee e quant’altro nascono e muoiono con chi li ha creati. Se c’è qualcosa però che può aspirare all’immortalità, perlomeno nel senso terreno del termine, quella è l’arte. Ancora oggi noi possiamo ammirare opere d’arte concepite e realizzate centinaia, migliaia di anni fa. E le macchine e le banche dati oggi a nostra disposizione permetteranno di preservare ancora meglio le opere contemporanee, o perlomeno quelle di tra esse che possono essere digitalizzate perché totalmente immateriali. Come la musica. Finché esisterà il mondo così come noi lo conosciamo, o in una forma più evoluta come mi auguro, l’arte umana potrà sopravvivere ai propri creatori.
Con questo pensiero nella mente, e decisamente in ritardo, mi sono finalmente deciso a lasciare nella blogosfera il mio piccolo tributo ai Nevermore, gruppo thrash-power-prog di Seattle da molti anni tra le mie band preferite, che si formò nel lontano 1992 e si è sciolto nel 2011 tra recriminazioni varie. 

L’anno scorso il chitarrista Jeff Loomis e il batterista Van Williams hanno lasciato la band, e pare che dietro a questa decisione ci siano le solite questioni di soldi e (dis)equilibri interni. Ma di questo non voglio parlare più di tanto; in fondo non mi importa appurare chi ha ragione e chi torto in questa vicenda (anche se un’idea me la sono fatta), sono solo molto triste per quello che è accaduto.
Il cantante Warrel Dane e il bassista Jim Sheppard continueranno l’attività del gruppo anche se, diciamocelo, non sarà più la stessa cosa. Nessun gruppo può sopravvivere indenne al forfait di metà dei propri membri e allora penso sarebbe più onesto cambiare anche nome. Ma tant’è.
A me piacerebbe che chi ancora non l’ha fatto si desse l’opportunità di conoscere non soltanto la musica di questo incredibile gruppo, ma anche la sua poetica – ovvero la sua espressione nella forma più completa.

Come molti altri, ho approcciato i Nevermore per la prima volta con “Dead Heart in a dead world”, per poi ascoltare a ritroso anche i loro lavori più vecchi. Fin da subito, oltre naturalmente alla musica, hanno assunto molta importanza per me anche le tematiche. Mi sono trovato più volte a rileggere ossessivamente i testi di Warrel Dane, accorgendomi spesso che le mie canzoni preferite erano anche quelle con i testi più strani.
In questa sede non considererò né i testi della produzione solista di Dane, né quelli del periodo pre-Nevermore (Dane e Sheppard militarono entrambi nei Sanctuary); e non perché non li apprezzi, ma perché non li ritengo rilevanti, o comunque determinanti, ai fini del mio discorso.

Dando una rapida scorsa alle canzoni dei Nevermore, è evidente che ci sono vocaboli che ricorrono spesso: mind, dream, world, god, time, life… Questo perché vi si parla di cose che hanno più a che fare con la sfera della mente che con quella fisica… o spesso si possono leggere a entrambi i livelli.
Tutto si può dire, tranne che questi siano testi di facile fruizione… Dane spesso è volutamente criptico e per sua stessa ammissione molte delle sue liriche sono una commistione di fatti reali e pura poesia, con dentro molta filosofia (derivante dai suoi studi in materia) e le teorie più disparate. In questo modo, però, riesce a non essere mai banale. I suoi sono testi ricchi di sfaccettature, spesso tristi o rabbiosi, perfetti per essere valorizzati dalla sua voce versatile e ricca di pathos. Mi domando però come avrei reagito se, invece che in inglese, essi fossero stati scritti in italiano.  Il fatto che l’inglese non sia la mia lingua permette alle parole delle canzoni di non raggiungermi davvero, se non mi ci concentro: e talora questo può essere un sollievo. Rabbia, tristezza, dolore sono cose da cui talvolta si desidera staccare, per quanto intelligentemente ci vengano proposte.

Una delle prime cose che salta all’occhio è la venerazione di Dane per Timothy Leary. Come saprete Leary fu una delle icone degli anni ’60: laureato e con un dottorato in psicologia, dopo essere stato assunto come ricercatore ad Harvard condusse degli esperimenti su volontari con gli allucinogeni, che considerava un metodo per innescare esperienze trascendentali da decodificare utilizzando come guida le “religioni” orientali, e in particolare l’Induismo. Egli bramava l’illuminazione dello spirito. Così facendo si attirò le ire dei benpensanti e delle autorità fino al licenziamento avvenuto poco più tardi, nel 1963. Cosa che peraltro non gli impedì di continuare nelle sue ricerche, e lo portò a trascorrere gran parte della vita in prigione - per reati relativi all’uso di droga - dove morì nel 1996.

Al “neuronauta” guru dell’LDS Dane ha dedicato l’omonima canzone del primo disco della band, “Nevermore”, datato 1995 (e ben più di questo, come vedremo). Timothy Leary comincia così: “A wise man came across the sea / In search of LSD philosophy / With open heart and open mind / To find the goodness in mankind / Bare your soul and you're saved / Believe the chosen that dreams in rage […]” e questo è il ritornello: “Timothy Leary, where are you now / The world needs you, we're going down”.

Nel caso non l’aveste notato, quando questo disco fu pubblicato Leary era ancora vivo. È vero, essendo egli da tempo affetto da una malattia conclamata (un tumore), non ci voleva un indovino per capire che la sua fine era prossima, ma questa circostanza è quantomeno bizzarra. Più che alla scomparsa dell’uomo Leary, probabilmente, Dane si riferiva al fatto che le sue idee fossero state affossate, senza trovare la diffusione sperata, e che quindi la sua influenza sulle nuove generazioni di americani stesse scomparendo.

Ma questo disco contiene anche altre tematiche che saranno riprese e ampliate in seguito, come una visione cinica e disillusa della vita, della natura umana e dei rapporti umani, e una profonda sfiducia (se non vera e propria avversione) nel governo istituzionalizzato, nella religione, nella scienza e nella tecnologia.
“They say that we're in the final days / Religion is power / Because most of us feel like rats in a maze / Do you worship me? / I'm a bastard saint, I'm a sycophant / A parasite that lives for just one goal / Mind control / Send your money to Jesus Christ / Mail order your eternal life / Bend your mind, make you turn around / Don't believe it when they tell you / That even god needs money / God needs money from you” (Godmoney)

Ed eccola qui, la prima grande contraddizione. Dopo l’aperto attestato di stima, subito si nota un parziale distacco da Leary. Leary infatti era tutt’altro che un nichilista, anzi aveva una profonda fiducia nella vita e nelle possibilità umane e nei suoi ultimi anni divenne anche un pioniere della cybercultura. Per lui la cibernetica era un mezzo altrettanto valido delle droghe (e forse anche superiore) per arrivare all’illuminazione; chissà come si sarebbe esaltato nel constatare che al giorno d’oggi Internet viene utilizzato per scopi solo pochi anni fa inimmaginabili, e che per molti è il fulcro (se non proprio lo scopo) della vita. Al contrario, Dane è decisamente più pessimista del suo mentore circa le possibilità di evoluzione dell’umanità, soprattutto se continuerà ad essere assoggettata agli attuali sistemi di governo e religione istituzionalizzati, e circa i benefici che la tecnologia le può apportare. Egli è un degno figlio dei nostri tempi, cinici e disillusi dalla mancata realizzazione delle enormi prospettive ventilate dalla Beat Generation, poi dai Figli dei Fiori, ecc. Come dargli torto? Bisogna ammettere che quanto profetizzato da Leary per ora si è realizzato solo in minima parte, e l’umanità è ancora molto lontana dall’illuminazione.

Dopo “Nevermore” fu la volta di “In Memory”, EP datato 1996. Nei brani le parole mostrano bene l’attitudine del loro autore, come in questi esempi: “If you want to change the world, forget it / The future's not in our hands / If you want to change the world, forget it / The pigs already set in” (Optimist Or Pessimist) “Earth Mother, life giver, we can't live without her / So foolish, men who say they don't care / They'll be gone anyway” (Matricide)
L’ultima canzone del lotto è "The sorrowed man" ed esordisce così: “Take me away to the quiet land / Where the doors of perception open wide...” e così via. Come saprete “The Doors of perception” (Le porte della percezione) è il titolo di un famosissimo saggio di Aldous Huxley del 1954 che verte sulle esperienze dell’autore con la mescalina. La canzone, dall’incalzare onirico, sembra la reminescenza di un trip di acido.

Lo stesso anno i Nevermore pubblicarono l’album "The Politics of Ecstasy” che nel titolo, oltre che nella grafica del CD, cita esplicitamente l’opera omonima di Leary del 1968. Se volete leggerla dovrete farlo in inglese, non mi risulta che sia mai stata tradotta in italiano.
In questo disco, ipertecnico ma forse ancora un tantino immaturo dal punto di vista musicale, in quanto a tratti musica e testo sembrano non perfettamente amalgamati, si trova già tutta la summa del Dane-pensiero. A quanto pare, la maggior parte dei critici ha trascurato questo aspetto per concentrarsi solo su quello musicale e ciò dev’essere stato molto frustrante per lui, che pure evidentemente aveva profuso molti sforzi nello spiegare concetti molto profondi, e lontani (con tutto il rispetto) dai soliti cliché del metal. Ciò purtroppo si è ripetuto anche con i successivi lavori dei Nevermore.

Nel capitolo primo di "The Politics of Ecstasy” ,“The Seven Tongues of God”, Leary descrive la sua esperienza a Cuernavaca con i funghi sacri come “the deepest religious experience of my life”. Nelle sue intenzioni il libro doveva servire a diffondere informazioni sugli allucinogeni, i “cibi psichedelici” che attivano il cervello a livello cellulare, e danno pieno accesso alle sue infinite potenzialità risvegliando la nostra coscienza, la memoria atavica contenuta nel nostro DNA (il “seme” di Dio); e, in definitiva, aprono la mente umana permettendo a chiunque di godere di esperienze mistiche che nelle società antiche erano esclusivo appannaggio di sciamani e guaritori, e in tempi più recenti, essendo state bandite dalla religioni ufficiali - in Occidente e altrove – solo di persone ai margini della società come artisti, bohemien ecc. Leary predicava “Start your own religion”, motto che Dane ha fatto suo ripetendolo anche in qualche intervista. Ma che cosa significa il titolo del libro e cosa sono le sette Lingue di Dio?

Leary non utilizzò il termine “politics” a caso: egli voleva concentrare l’attenzione sulle implicazioni culturali e sociali dell'esperienza psichedelica, e considerava l'esperienza religiosa la scoperta soggettiva ed estatica delle risposte alle sette domande spirituali fondamentali. Le sette Lingue di Dio sono i sette livelli di energia della coscienza (atomica, cellulare, somatica, sensoriale, socio-mentale, stupore emozionale, nulla), ovvero i sette livelli di consapevolezza, i farmaci che li inducono e le scienze e le religioni che studiano ogni livello. Le religioni che si basano sulla paura, quelle che tengono i propri fedeli nell’ignoranza e nella superstizione, permetterebbero di raggiungere appena il sesto livello. Solo Buddismo e Induismo darebbero accesso ai livelli più alti di coscienza. Secondo lui l’uso di LSD, nell’ambito di un percorso di illuminazione sorretto dalla fede nell’armonia e nella saggezza della natura, permetterebbe di avere accesso a tutti i e sette i livelli.

Leary definiva la vita “the Game”, intendendo con questo che la paragonava ad un gioco con regole sociali che non è possibile eludere. Egli era consapevole che nessuno che non sia un asceta in volontario esilio sulla cima di un monte potrebbe vivere in un perenne stato di estasi. Per questo ideò il famoso motto Turn on, Tune in, Drop out. Turn on significa distaccati dalla parte materialistica della vita e focalizzati sui tuoi sensi e sull’energia che scorre in te. Scegli il tuo sacramento e usalo per cominciare il viaggio. Viaggia dentro te stesso. Prega. Tune in significa torna indietro alla tua vita di tutti i giorni, ma fa’ che il seme dentro di te ti risvegli, che inneschi la trasformazione. Cambia te stesso e ciò che ti circonda. Piccoli cambiamenti, purché testimonino del viaggio che hai intrapreso. Drop out significa vivi la vita tenendoti fuori dalle regole del gioco, pacificamente. Crea la tua religione, e una tua comunità con cui condividerla.

Tornando ai Nevermore, "The Seven Tongues of God" è anche la prima traccia del disco: il ritornello recita “The seven tongues of god are in my mind, they speak to me in ancient DNA design” e il brano si conclude con le parole “To see the light is the purest form of reward”.
Il disco prosegue su questo tono quasi per intero: “There's no constraint when the walls cave in, the neuron turn on, the game begins to fade away / Maybe none of us know, maybe none of us want to hear, never push against the flow aimlessly / Feel the flow and let all thought fade, we shall be one / For this sacrament has begun” (This Sacrament). Per Leary il sacramento era l’LSD, similmente a come nell’Eucaristia l’ostia consacrata è il Divino Sacramento. Da notare anche la citazione dei Beatles e l’acronimo celato nei versi successivi “Lucy in the sky with diamond eyes, Long Since Dark, I wear her disguise of light”
“Choking on the puke of their industry, regurgitated propaganda ministry / Freedom's never free, the politics of ecstasy are these….. / Freedom's never free, these are the politics of ecstasy…..” (The Politics of Ecstasy)
“To swim these sentient seas, windows into eternity, never afraid to scale the wall / The lunatic never falls […] Remember in the end, such a long strange trip it's been, so I sing this song / For the lost one / Why should I come down? From here I can see forever...” (Lost)
“I am throes of my denial, logic in me crumbles, I take this fateful ride / Through my mind” (42147)
“When man and machine become one, innocence is lost, a new age begun / This raises a question of philosophy / Should machines be considered a conscious entity? / When man and machine become one, innocence is lost, a new age begun / Machines are still learning to feel / When I have awakened the world will never be the same / And my time is soon at hand” (The learning)
Questo è indubbiamente il disco più politico dei Nevermore. Dane si scaglia contro i mali della società (nella title-track utilizza anche la parola “pigs” di mansoniana memoria, non per la prima né per l’ultima volta); il suo malcontento sfocia nel pessimismo più nero, ed egli a tratti mette anche in dubbio l’utilità della realtà così come noi la conosciamo.

Successivamente, nel 1999, i Nevermore pubblicarono “Dreaming Neon Black”, il loro disco più anomalo, dal punto di vista delle tematiche, ma anche quello in cui il lirismo delle canzoni tocca il suo apice. Non mancano i soliti temi cari a Dane, come per esempio in "Beyond within": “Tension, delirium, growing everyday / Another suicide shocks the world again […] Can I bring you down again, can I make you feel? / Can I lift you up into the dreaming trip surreal? / Can I taste the future shock, spit out all the games?” (“Future Shock” è un libro del 1970 del futurologo Alvin Toffler.)
Allo stesso tempo, però, questo è un concept album in cui si racconta della sofferenza di un uomo che ha perso la donna che ama, il tutto narrato in prima persona. La storia è in parte autobiografica: una ex fidanzata di Dane ad un certo punto abbandonò tutto per seguire una setta, svanendo letteralmente nel nulla. Se si riflette su questo non è difficile capire la radice del suo astio verso la religione…

Anche senza addentrarsi troppo nelle liriche, è sufficiente dare una rapida occhiata all’introduzione dei brani per rendersi conto della triste parabola discendente del narratore: egli passa dal dolore e dal senso di vuoto alla disperazione più totale, si aggrappa alla dimensione del sogno nella quale può ancora reincontrare la sua amata, prova rabbia verso il mondo e verso Dio, per poi infine cedere alla pazzia e perdere completamente la voglia di vivere.
"Welcome to the fall" (Beyond Within)
"Time has no meaning for me. She is gone, and the void speaks to me" (The Death Of Passion)
"The darkwave came again last night. I want it all to end, I want the world to end" (I Am The Dog)
"Again it poured over me in waves. When she left with them she said I must break free from the dark. I tried to tell her of their poison, she chose not to hear. She was never seen again" (Dreaming Neon Black)
"My perfect reflection swims through the drowning pool. The sky is gone. My world is in deconstruction." (Deconstruction)
"Sometimes bitterness is all you can hold on to, and within the bitterness I realized my weakness" (The Fault Of The Flesh)
"Why is this happening to me? Why have I been forsaken? Nothing numbs the pain any longer......please....I'm slipping away" (The Lotus Eaters)
"I know what it wants now...the void has swallowed the light and the machine wants my soul." (Poison Godmachine)
"I know she can hear me still. I know she can feel me. The velvet sleep has stilled her, for they are feeding, while time is ever shifting." (All Play Dead)
"And I will build this in her name. The dream will not allow failure, only servitude, for I am it's slave." (Cenotaph)
"For some there are no choices." (No More Will)
"What has been put asunder shall again be whole" (intro) "As the curtain calls, and the cast recedes
I am all that ever was and all that ever will be. In wither and repose this frayed chapter now does close, and fade into neon black." (chiusura in dissolvenza) (Forever)

...continua...

La seconda parte di questo post è pubblicata qui.

3 commenti:

  1. Interessante. I Nevermore li conosco solo di nome, ma non li ho mai ascoltati. Mi hai incuriosito! Tra l'altro, hai fatto una bella analisi in retrospettiva. Io ai testi non sempre faccio caso. Un po' perché alcuni gruppi cantano di tematiche "semplici", un po' perché di altri gruppi, più sofisticati, non ho particolare interesse ad approfondire, un po' per superficialità mia.
    Il fatto che il testo inglese consenta in qualche modo di mantenere un certo distacco, che può anche essere totale, assimilando così la voce a uno strumento come gli altri, è un'arma a doppio taglio. A volte penso a come suonerebbero (!) alcune delle mie canzoni preferite in italiano. Avevo letto in un'intervista al cantante dei Fiaba (gruppo prog/folk/rock) che la scelta della lingua influisce sulla metrica del testo e sulla linea vocale. Sembra un'ovvietà, ma se ci pensi vuol dire che la musica che stai ascoltando non sarebbe possibile in Italia, senza adottare l'inglese. Ok, forse è un po' forzato, ma se penso al rock (o al metal) italiano, o almeno i gruppi che conosco, riconosco che c'è qualcosa di diverso. Il cantante dei Fiaba non parlava delle liriche, ma è ipotizzabile che ci sia anche lì una differenza, se non nei contenuti nelle modalità, al di là, naturalmente, delle ovvie diversità culturali ai diversi angoli del globo.
    Questa digressione, lo ammetto, non era prevista, ma sono scattati un paio di collegamenti nel mio cervello stanco!

    RispondiElimina
  2. A dire la verità nemmeno io faccio spesso caso ai testi. Quando lo faccio, specialmente se in maniera approfondita come in questo caso, è solo perché l'artista che ho davanti mi interessa particolarmente. In sostanza devi essere davvero un fan per metterti a fare una cosa del genere. Oppure, come mi è capitato in passato, devi avere sotto mano un concept-album e, anche se non sei un fan, vuoi cercare di capire cosa ci sta dietro (come mi è capitato quando ho recensito questo disco).
    L'inglese, hai perfettamente ragione, è un grosso vantaggio per chi scrive testi. L'inglese ha il dono della sintesi: riesce ad esprimere concetti complessi in poche parole e si adatta molto bene alla struttura della maggior parte delle canzoni. L'italiano tuttavia è la nostra lingua e certe sfumature, forse per la nostra limitata conoscenza dell'inglese, le possiamo cogliere solo in italiano. Mi vengono in mente le canzoni di un De Andrè, di un De Gregori, di un Conte, tutta roba a sua volta inaccessibile per chi non è italiano di nascita. Ma questo, come mi farai notare, non è rock. Dei "Fiaba" conosco il disco "I racconti del giullare cantore", che mi ha portato in casa la mia ragazza. Lo definirei "interessante".
    Grazie per il tuo commento. E' stata una piacevole sorpresa. Mentre scrivevo davo per scontato che nessuno mai si sarebbe azzardato a commentare questo post. Il metal già di suo è un genere di nicchia; al suo interno il thrash è ancora più di nicchia e, last but not least, questo blog è ancora più di nicchia...
    Spero di ritrovarti qui quando sarà pronta la seconda parte di questo post (dove, tra l'altro spiegherò perché l'ho intitolato "Uno specchio di ossidiana").
    Grazie anche agli amici che hanno cliccato sul +1. Siete fantastici!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. ...eppoi ripensandoci il titolo di questo post non mi piace più. Lo cambio in un più semplice e diretto "Nevermore"..

      Elimina

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...