Danzerai con le tue scarpette rosse fino a che non diventerai come un fantasma, uno spettro, finché la pelle non penderà sulle ossa, finché di te non resteranno che visceri danzanti. Danzerai di porta in porta per tutti i villaggi, e busserai tre volte a ogni porta, e quando la gente ti vedrà, temerà per la sua vita.
Da bambino, come tutti i bambini, amavo le storie. Le amavo così tanto che non mi accontentavo di sentirne soltanto una la sera prima della buonanotte, e fu questo che convinse ben presto i miei genitori a comprarmi dei 45 giri con favole e fiabe di ogni tipo, e naturalmente un giradischi a supporto.
Ebbene, da bambino avevo questo giradischi rosso, di quelli con la maniglia e i buchetti sopra che ora si trovano solo nei mercatini dell’usato, simboli impolverati del tempo che fu, e che quando li vedo mi viene una nostalgia feroce per la mia infanzia. In seguito non avrei mai più avuto dei giradischi, ma soltanto degli impianti stereo… perché la lingua nel corso degli anni si è evoluta almeno quanto la tecnologia.
Il mio giradischi rosso aveva due rotelline sul davanti, una per regolare il volume, l’altra per regolare i toni (che non ho mai capito bene cosa volesse dire); era dotato di cavo, ma funzionava anche a pile, così potevo portarlo con me ovunque, all’occorrenza anche in cortile. Avevo anche della musica, generalmente cose da bambini, tipo Rita Pavone e Cochi e Renato, ma avevo anche Iannacci, Gaber e molto altro che ormai faccio fatica a ricordare.
Delle fiabe su disco, tra le mie preferite c’erano quelle di Hans Christian Andersen e, tra queste, l’indimenticabile Scarpette rosse (De Røde Skoe), del 1845, la prova assoluta che l’ossessione delle donne per le scarpe esisteva già nell’800 e non l’ha inventata Carrie Bradshaw. Tra l’altro non è un caso che nella fiaba le scarpe fossero rosse, perché il rosso è il colore della seduzione nonché quello che più di tutti attira l'attenzione. A proposito dell’ossessione per le scarpe, permettetemi di dedicare questo post alla mia Lei, una delle più implacabili “shoealholic” che abbia mai conosciuto. Chissà mai che le possa essere di spunto per una riflessione…
A parte gli scherzi, penso ricordiate tutti la storia, in caso contrario ecco qui un rapido riassunto: una bambina molto povera (l’alter ego dello scrittore, anche lui cresciuto in una famiglia disagiata e, come se non bastasse, con problemi relazionali), costretta a camminare sempre scalza, riceve in dono un paio di scarpette rosse fatte di stracci, che lei finirà per venerare, letteralmente, come un cimelio. In seguito, divenuta orfana, viene adottata da una vecchia e ricca signora che le dona nuovi abiti e scarpe, buttando via quelli vecchi, tra cui le amate scarpette. Crescendo la bambina diviene bella, ma anche molto vanitosa e, in occasione della cresima, approfittando del fatto che la sua benefattrice è quasi cieca e non distingue bene i colori, la induce a comprarle delle scarpe da ballo rosse; ma, indossandole in chiesa, la ragazzina provoca la riprovazione dei fedeli e così si fa scoprire. Nonostante il divieto di indossarle ancora in luoghi di culto, lei le mette di nuovo proprio per la cresima, e talmente forte è la sua ossessione per le scarpe che non riesce a pensare ad altro e non presta la dovuta attenzione alla cerimonia. Ed ecco il monito: proprio all'uscita della chiesa, la nostra protagonista si mette a ballare senza sosta e riesce a smettere solo dopo essersi tolta le scarpe. Eppure passato il momento decide di ignorare la prova che evidentemente si tratta di scarpe incantate, e le indossa un’altra volta, così comincia a ballare e ballando si allontana da casa: è qui che il terrore l’assale, perché si accorge che le scarpette hanno preso il sopravvento e lei non riesce né a decidere dove dirigersi, né a togliersele e quindi è destinata a ballare per sempre. Ad un certo punto, vagando e danzando, danzando e vagando, la ragazzina torna a casa, ma solo per scoprire che la sua benefattrice è morta di crepacuore. Quando i piedi la portano nei pressi della casa del boia, che si trova (guarda caso) nel bosco, la ragazzina lo implora di tagliarle i piedi con l'ascia e lui l’accontenta. Le scarpette rosse, con i piedi mozzati della ragazza, proseguono la loro corsa infinita, mentre il boia costruisce delle protesi in legno e due stampelle per consentire alla ragazzina di camminare. E ora la bambina era una povera storpia, e doveva farsi strada nel mondo andando a servizio da estranei, e mai più desiderò delle scarpette rosse.
Ancora oggi quando ripenso a questa fiaba mi coglie un brivido. Come giustamente dice una mia amica nel post introduttivo del suo nuovo blog, le fiabe contengono dei risvolti davvero horror e, tra tutte, Scarpette rosse è quella con la scena più splatter della storia. Ho ascoltato il disco fino consumarne i solchi, ma ricordo bene che quando il boia amputava i piedi della ragazza si sentiva distintamente un secco BAM BAM a cui io, pur aspettandomelo, puntualmente trasalivo. Indimenticabile anche il lungo, tetro silenzio che seguiva. Tuttavia, razionalmente, so che l’epilogo della storia non è così tragico come potrebbe sembrare. La mutilazione del fisico permette alla fanciulla di cambiare anche nell’animo e così, col tempo, la ragazza ottiene il perdono di Dio, in quel Paradiso dove senz’altro si perfeziona la preghiera per eccellenza “Non ci indurre in tentazione”.
Che dire, è molto probabile che la mia passione-ossessione per il lato dark delle cose, l’orrore, il macabro e il bizzarro sia cominciata anche da qui... Infatti, quando qualche anno fa il regista coreano Kim Yong-Gyun (김용균) ne ha riproposto la storia in chiave horror, non mi sono lasciato scappare l’occasione di vedere il film. Tra l’altro lo scopo che mi prefiggevo era quello di soddisfare una mia irresistibile curiosità: capire in che modo l’Oriente avesse potuto recepire uno dei nostri classici per l’infanzia. Naturalmente il film di cui parlo è The Red Shoes (분홍신, Bunhongsin, 2005), anche se poi (e lo si vede benissimo anche nella locandina!) le scarpe nel film sono fucsia e non rosse (salvo poi diventare metaforicamente rosso sangue con lo svolgersi degli eventi). La scelta di censurare il colore rosso non è affatto casuale: solo un anno dopo la fine della guerra di Corea (1950-1953), fu infatti distribuito nel paese asiatico un famoso film inglese del 1948, vincitore di due premi Oscar (questo) in cui una ballerina, divisa fra l’amore e la danza, identifica la sua arte e il suo successo con le scarpette e finisce per danzare fino a morirne (un dramma morale chiaramente ispirato ad Andersen, quindi). Il titolo del film, allo scopo di evitare eventuali ripercussioni socio-politiche, fu localmente cambiato in “Pink Shoes”. Le scarpe fucsia in questo film sono evidentemente nient’altro che la piccola citazione di un passato meno sereno (sempre che si voglia definire “serena” la situazione coreana attuale, sempre in bilico tra progresso e regresso).
Ho quindi visto il film e devo dire che l’unico elemento che ricollega il film di Kim Yong-Gyun alla fiaba di Andersen è il tema dell’avidità (simboleggiato appunto dalle scarpe, delle quali chiunque le veda brama il possesso) e dell’infausta sorte, la “punizione”, che tocca a chi cede a questo sentimento.
Esteticamente The Red Shoes è un’esperienza unica: colori dalle tinte forti, molto contrastati, nero, blu, ma soprattutto rosso. A partire dal titolo, dal tenue rosso fucsia delle scarpe, fino al rosso più scuro del sangue nelle scene più gore, che Kim Yong-Gyun non esita a offrirci generosamente.
La storia che sta alla base di The Red Shoes è molto semplice e ricalca perfettamente tutti i canoni del K-horror (quelli della saga dei Whispering Corridors, per fare un esempio, o del The Eye dei fratelli Oxide e Danny Pang) e dei vicini J-Horror (su tutti Ju-On di Takashi Shimizu, The Ring e Dark Water di Hideo Nakata): un paio di scarpe “maledette” viene ritrovato nei pressi di una stazione della metropolitana, scarpe che porteranno sfortuna (per usare un eufemismo) a tutti coloro che le indosseranno. Protagoniste della vicenda una giovane donna, moglie e madre, Seon-Jae, e la di lei figlioletta Tae-Soo. Ci sono a mio parere anche altri elementi vagamente fiabeschi, per prima cosa la contrapposizione tra madre e figlia quando entrambe vengono possedute dalle scarpe (ma non sono matrigna e Cenerentola dato che nessuno è buono, in questo film) e, seconda cosa, la condizione della donna che nel momento esatto in cui dà alla luce la figlia del proprio marito-padrone viene degradata dal ruolo di moglie a tutto tondo al semplice ruolo di tata, mentre il marito va a soddisfare il proprio piacere in letti meno “usurati”. Quindi la scarpa diviene la metafora del desiderio di rivalsa femminile, il rosso è il colore del rancore, catalizzatore di aggressività repressa, ma anche il colore del sangue e il colore della crescita, debolezza umana tutta femminile (particolarmente disturbante la visione del flusso di sangue che sgorga da sotto la gonna della bambina).
In altre parole il film va molto oltre il film stesso: il tema delle scarpette e il rapporto madre-figlia (che ricorda molto le protagoniste del già citato Dark Water) sono un’enorme metafora. Distinguiamo chiaramente una precisa accusa alla società contemporanea, ma anche la sofferenza di un paese diviso, che ha vissuto 35 anni di dominio giapponese e ancora oggi vive in silenzio l’incubo di un conflitto nucleare. Perché l’origine delle scarpette rosse (narrata in un flashback) viene contestualizzata nella Corea del 1944 occupata dai giapponesi? Un tardo tentativo di sottolineare l’equivalenza Corea/moglie-offended e Giappone/marito-offender? Sebbene originale nello spunto, qui The Red Shoes inizia a mostrare qualche segno di debolezza (ovvero, la maledizione deriva un fatto accaduto in passato e non dall’animo dei personaggi, e qui la morale della fiaba si perde) ma bisogna dire che è maledettamente efficace e coinvolgente, specialmente per alcune trovate visive come la neve rosso sangue, e non lesina in sangue e cattiveria, oltre che essere “confezionato” e recitato bene.
Le fiabe hanno molte valenze nascoste, pensiamo solo alle versioni piú antiche di Cappuccetto Rosso giunte fino a noi, senza alcun finale consolatorio.
RispondiEliminaRiguardo al contrasto Corea- Giappone visto nel film penso che potrebbe trattarsi di un modo per storicizzare o interpretare un trauma per loro ancora molto vivo.
D'altra parte anche noi abbiamo ambientato molti dei nostri film negli scenari della nostra guerra....
EliminaSto preparando un post proprio su Andersen e, a questo punto, aspettati il link, anche se mi hai preceduto, grazie! Tagliare i piedi, il contatto con la terra materiale, porta "inevitabilmente" ad elevarsi (forse anche a far spuntare delle ali e a far prevalere la parte spirituale); il sangue che se ne va, che scorre via, porta rinnovamento. Il giradischi rosso dalle tue parti, o solo dalle mie, si chiamava anche mangiadischi?
RispondiEliminaSi, si, hai ragione. Mangiadischi rosso marchio Penny. C'è pure un fantastico video dimostrativo sul tubo.
EliminaTi ho anticipato? Mi dispiace x_x
Ma dai, tanto il tuo post sarà tutta un'altra cosa...
In realtà mi era passato per la testa di proporti di fare un nuovo post a due mani proprio su Andersen (questo un paio di giorni fa) però non avevo ben chiaro in mente come e su cosa, e così mi hai risposto con questo post. Da non credere! Comunque materiale gotico e fiabesco si incontrano spesso, quindi, magari ci sarà un'altra occasione. Ora vado a vedere il video sul mangiadischi (pensavo fosse una versione toscanaccia di giradischi).
EliminaNo, sono proprio due concetti diversi. Con il giradischi eri tu che spostavi il braccio e appoggiavi la puntina sul solco; con il mangiadischi non facevi altro che spingere il disco in un buco (facendoglielo "mangiare" in buona sostanza). Attendo con impazienza il tuo post su Andersen. Ma tu pensa i casi della vita...
EliminaBel post. Andersen è sempre Andersen! Le fiabe in origine non erano testi destinati ai bambini e qualche retaggio di questo loro passato direi che si vede ancora.
RispondiEliminaAltroché! Io non riuscirei mai a parlare di piedi mozzati ad un bambino...
EliminaCiao Obsidian! Anche io, leggendo il tupo post, ho provato una certa nostalgia verso il mio fantastico giradischi arancione :,) mi mancaaaa!!!
RispondiEliminaQuesta fiaba di cui parli la ricordo molto vagamente, per me le scarpette rosse saranno sempre associate a Doroty ed il mondo di Oz :D
Se ami il lato un po' oscuro delle fiabe ti consiglio vivamente una serie che adoro, Once upon a time.
A presto ;)
Once upon a time? Mai sentita prima. Devo assolutamente rimediare...
EliminaHai mai letto "il mondo incantato"? di Bruno Bettelheim, un pedagogista che analizza le fiabe e le loro innumerevoli versioni... di Cenerentola ce ne sono più di 700....
RispondiEliminaBenvenuta da queste parti, innanzitutto! :) Il mondo incantato? No, non l'ho mai letto. Sembrerebbe davvero interessante. Grazie per il commento: non si finisce mai di scoprire cose nuove....
EliminaUn film che mi ha stregata. Mi annoiava quasi, ma il paradosso é che non riuscivo a togliere lo sguardo... Mi succede poche volte. Il suo stile mi ha catturata.
RispondiEliminaIn fondo in fondo è una fiaba. Truculenta, ma pur sempre una fiaba. Benvenuta sul blog :)
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