Dennis Stock - James Dean walking in the rain in Times Square New York - February 1955 |
Dopo circa un mese dal mio post precedente dedicato ai paesaggi naturali, eccomi di ritorno per ritentare lo stesso con paesaggi di tutt'altro tipo. Mi ricollego naturalmente all'articolo "I quadri, i romanzi e... i paesaggi artificiali" pubblicato qualche settimana fa dalla collega blogger Cristina Rossi de "Il Manoscritto del Cavaliere". Come già ebbi modo di dire, si tratta di un progetto molto più vasto che ha come comune denominatore i "vasi comunicanti", ovvero quei luoghi (o non-luoghi) dove un unico elemento fa da filo conduttore fra altri completamente diversi. In questo caso si tratta di individuare prima di tutto un paesaggio artificiale (reale o immaginario che sia) e quindi associare ad esso un libro, (romanzo, racconto, prosa, poesia) in cui l'autore abbia sfruttato al meglio le caratteristiche di tale paesaggio, vuoi per averne esaltato l'atmosfera, vuoi per averci costretto indissolubilmente i suoi personaggi. Anche in questo caso il secondo passo è quello di identificare un'opera d'arte (un dipinto, ma non necessariamente) che, sulla base del gusto di chi scrive, possa rappresentare quel paesaggio.
Io ho scelto di prendere in esame, in rigoroso ordine di apparizione: la frontiera, la bottega, la biblioteca, il ponte e... l'ippodromo. Per quanto riguarda i dipinti, come al solito mi sono affidato più alle sensazioni che questi mi sanno evocare che alla loro fedeltà agli ambienti e alle descrizioni dei romanzi. Mi auguro comunque di non essere andato troppo fuori tema...
E la foto di Dennis Stock che ho inserito qui sopra? Tecnicamente non c'entra nulla: mi piaceva solo l'idea di un singolo scatto che richiamasse alla mente tutti e cinque i paesaggi artificiali da me utilizzati (provate a indovinare in che modo).
1. La frontiera
Nella città di K., un luogo immaginario dell’Europa Centrale ritratto durante il secondo conflitto mondiale, vivono i due gemelli Lucas e Claus. I due sono indistinguibili: il loro legame simbiotico, morboso (simboleggiato dai loro nomi, che sono uno l’anagramma dell’altro) è destinato a terminare quando uno solo dei due riesce a passare la frontiera, restando separato dal gemello per cinquant’anni. O così pare…
“Trilogia della città di K.” di Ágota Kristóf si compone di tre parti (Il grande quaderno, La prova e La terza menzogna), l’ultima delle quali risale al 1991: se la memoria non m’inganna, ho letto la trilogia poco dopo la sua traduzione e pubblicazione in Italia, ovvero oltre vent’anni fa.
La città di K. è un borgo che la guerra ha devastato e diviso: sappiamo che esistono una Grande e una Piccola Città, ma la loro geografia è imprecisa, le descrizioni frammentarie. Questo, ad esempio, è ciò che viene narrato all’inizio del secondo capitolo:
La casa di Nonna è a cinque minuti di cammino dalle ultime case della Piccola Città. Più avanti c’è solo la strada polverosa, subito interrotta da una sbarra. È proibito andare oltre, un soldato monta la guardia. Ha un mitra, un binocolo e quando piove si ripara sotto una garitta. Sappiamo che al di là della sbarra, nascosta dagli alberi, c’è una base militare segreta e, dietro la base, la frontiera e un altro paese.
Più avanti apprendiamo qualche dettaglio in più sulla frontiera, ove un terreno minato divide due barriere all’apparenza invalicabili:
La barriera ha un metro e cinquanta di altezza e un metro di larghezza. Ci vogliono due assi. Una per arrampicarsi sulla barriera, l’altra bisogna appoggiarla sopra per riuscire a stare in piedi. […] Bisogna recuperare le due assi per passare nello stesso modo l’altra barriera che si trova sette metri più in là.
Ma certamente una frontiera è più che un luogo fisico: è forse il più artificiale fra i paesaggi artificiali. Nel nostro caso, la frontiera è anche uno strumento del fato.
Dopo tanti anni non ricordo tutti i particolari della trama, ricordo però la scrittura asciutta, asettica della Kristóf, i capitoli brevi e fulminanti e le indimenticabili figure di Lucas e Claus, i due gemelli che vivono in un mondo a parte, pensano insieme, agiscono insieme, quasi fossero l’uno un’estensione dell’altro. L’abbandono e le privazioni dell’infanzia (la madre li ha lasciati con la nonna materna, una donna autoritaria e anaffettiva) li rendono indifferenti, spietati, come se il vuoto e la devastazione della guerra li avessero scavati dentro ancor più a fondo del paesaggio. Imparano a fingere, a rubare, a uccidere:
È domenica. Acchiappiamo un pollo e gli tagliamo la gola, come abbiamo visto fare a Nonna. Lo portiamo in cucina e diciamo: - Bisogna cuocerlo, Nonna. […] - Quando ci sarà qualcosa da uccidere, vogliamo essere chiamati. Lo faremo noi.
- Dice: Vi piace molto, eh? - No, Nonna, a dire il vero non ci piace per niente. È per questo che dobbiamo abituarci.
La lontananza forzata li trasforma tuttavia in due estranei e un giorno Claus ribattezzerà sé stesso Klaus, quasi a sottolineare una distanza che è forse illusoria, ma che nella sua mente ha sedimentato in maniera irreversibile. Nel racconto nulla è inconfutabile, nemmeno l’identità dei due fratelli divenuti adulti, e questa è forse la maggiore peculiarità del libro. Chi davvero è rimasto e chi se n’è andato? Chi è vivo e chi è morto, e come? La realtà non può mai essere ricostruita precisamente, perché dipende dal punto di vista di chi la racconta.
È proibito scrivere: “La Piccola Città è bella”, perché la Piccola Città può essere bella per noi e brutta per qualcun altro. […] Scriveremo: “Noi mangiamo molte noci”, e non: “Amiamo le noci”, perché il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e di obiettività. “Amare le noci” e “amare nostra Madre”, non può voler dire la stessa cosa. La prima formula designa un gusto gradevole in bocca, e la seconda un sentimento.
Gli unici fatti certi sembrano quelli narrati nella prima parte del romanzo, mentre la seconda e la terza si smentiscono a vicenda. Aldilà della volontà di sbrogliare la matassa, forse dobbiamo semplicemente spostare la questione: se la verità è un'opinione, allora tutto ciò che abbiamo letto è allo stesso tempo vero e falso (Rashōmon docet).
Nel dipinto che vi propongo per rappresentare il romanzo (è stato un po' un ripiego, lo confesso) si vede del filo spinato e tanto basta per rendere l'immagine straniante a dispetto di quelle piccole note di colore rosso che sembrano lì per miracolo.
“Trilogia della città di K.” di Ágota Kristóf si compone di tre parti (Il grande quaderno, La prova e La terza menzogna), l’ultima delle quali risale al 1991: se la memoria non m’inganna, ho letto la trilogia poco dopo la sua traduzione e pubblicazione in Italia, ovvero oltre vent’anni fa.
La città di K. è un borgo che la guerra ha devastato e diviso: sappiamo che esistono una Grande e una Piccola Città, ma la loro geografia è imprecisa, le descrizioni frammentarie. Questo, ad esempio, è ciò che viene narrato all’inizio del secondo capitolo:
La casa di Nonna è a cinque minuti di cammino dalle ultime case della Piccola Città. Più avanti c’è solo la strada polverosa, subito interrotta da una sbarra. È proibito andare oltre, un soldato monta la guardia. Ha un mitra, un binocolo e quando piove si ripara sotto una garitta. Sappiamo che al di là della sbarra, nascosta dagli alberi, c’è una base militare segreta e, dietro la base, la frontiera e un altro paese.
Più avanti apprendiamo qualche dettaglio in più sulla frontiera, ove un terreno minato divide due barriere all’apparenza invalicabili:
La barriera ha un metro e cinquanta di altezza e un metro di larghezza. Ci vogliono due assi. Una per arrampicarsi sulla barriera, l’altra bisogna appoggiarla sopra per riuscire a stare in piedi. […] Bisogna recuperare le due assi per passare nello stesso modo l’altra barriera che si trova sette metri più in là.
Christopher Nevinson, A Front Line near St Quentin, 1918, olio su tela |
Dopo tanti anni non ricordo tutti i particolari della trama, ricordo però la scrittura asciutta, asettica della Kristóf, i capitoli brevi e fulminanti e le indimenticabili figure di Lucas e Claus, i due gemelli che vivono in un mondo a parte, pensano insieme, agiscono insieme, quasi fossero l’uno un’estensione dell’altro. L’abbandono e le privazioni dell’infanzia (la madre li ha lasciati con la nonna materna, una donna autoritaria e anaffettiva) li rendono indifferenti, spietati, come se il vuoto e la devastazione della guerra li avessero scavati dentro ancor più a fondo del paesaggio. Imparano a fingere, a rubare, a uccidere:
È domenica. Acchiappiamo un pollo e gli tagliamo la gola, come abbiamo visto fare a Nonna. Lo portiamo in cucina e diciamo: - Bisogna cuocerlo, Nonna. […] - Quando ci sarà qualcosa da uccidere, vogliamo essere chiamati. Lo faremo noi.
- Dice: Vi piace molto, eh? - No, Nonna, a dire il vero non ci piace per niente. È per questo che dobbiamo abituarci.
La lontananza forzata li trasforma tuttavia in due estranei e un giorno Claus ribattezzerà sé stesso Klaus, quasi a sottolineare una distanza che è forse illusoria, ma che nella sua mente ha sedimentato in maniera irreversibile. Nel racconto nulla è inconfutabile, nemmeno l’identità dei due fratelli divenuti adulti, e questa è forse la maggiore peculiarità del libro. Chi davvero è rimasto e chi se n’è andato? Chi è vivo e chi è morto, e come? La realtà non può mai essere ricostruita precisamente, perché dipende dal punto di vista di chi la racconta.
È proibito scrivere: “La Piccola Città è bella”, perché la Piccola Città può essere bella per noi e brutta per qualcun altro. […] Scriveremo: “Noi mangiamo molte noci”, e non: “Amiamo le noci”, perché il verbo amare non è un verbo sicuro, manca di precisione e di obiettività. “Amare le noci” e “amare nostra Madre”, non può voler dire la stessa cosa. La prima formula designa un gusto gradevole in bocca, e la seconda un sentimento.
Gli unici fatti certi sembrano quelli narrati nella prima parte del romanzo, mentre la seconda e la terza si smentiscono a vicenda. Aldilà della volontà di sbrogliare la matassa, forse dobbiamo semplicemente spostare la questione: se la verità è un'opinione, allora tutto ciò che abbiamo letto è allo stesso tempo vero e falso (Rashōmon docet).
Nel dipinto che vi propongo per rappresentare il romanzo (è stato un po' un ripiego, lo confesso) si vede del filo spinato e tanto basta per rendere l'immagine straniante a dispetto di quelle piccole note di colore rosso che sembrano lì per miracolo.
2. La bottega
Nella bottega di giocattoli dello zio Philip, in una Londra fatta di squarci alieni e decadenti, avviene il passaggio all’età adulta della quindicenne Melanie. Rimasta orfana di entrambi i genitori, Melanie è affidata allo zio con i fratellini Victoria e Jonathon: la casa è contigua alla bottega dove meravigliosi giocattoli vintage e pupazzi a grandezza naturale prendono vita, ma Melanie ne ha una pessima prima impressione e con il tempo continuerà a percepirne solo il lato più lugubre.
Tra il negozio sbarrato di un gioielliere e un alimentari che esponeva in vetrina una quantità di cereali dorati c’era una bottega cavernosa, così malamente illuminata che a prima vista non la si distingueva neppure dall’edificio sovrastante. Nella caverna si vedevano i contorni indefiniti di un cavallo a dondolo col rosso scarlatto delle froge frementi e burattini di legno vestiti di stoffe dai colori ricchi e scuri, che oscillavano appesi ai loro fili; ma il manto marrone del cavallo e i prugna e porpora dei burattini formavano una sola macchia scura così che alla fine si distingueva assai poco. Sopra la porta c’era un’insegna ‘GIOCATTOLI E NOVITÀ DI PHILIP FLOWER’, a lettere rosso scuro su fondo cioccolata. […] A Melanie avevano detto che si sarebbero trasferite in una grande città, ma lei si era ritrovata in un villaggio, un grigio villaggio. L’isolamento di casa Flower sulla sua collinetta suburbana era completo. […] Ma dov’era Londra e il trambusto anonimo della grande città? Ne vedeva le luci dalle finestre più alte ma non le si era mai neppure avvicinata.
Lì, infatti, lo zio si diverte a tiranneggiare la giovane e delicata moglie Margaret (che ha smesso di parlare dopo la prima notte di nozze, forse perché “a lui piacciono le donne silenziose”), i cognati Francie e Finn e i tre nipoti. Proprio la presenza cupa e oppressiva dello zio Philip dona un tocco gotico a una storia che ha già tutte le caratteristiche della fiaba oltre che del racconto di formazione.
Per Melanie è il risveglio dei sensi, anche se in gran parte ancora innocente: se già prima la ragazza aveva l’abitudine di mirarsi e si rimirarsi allo specchio per ore, abbracciandosi e accarezzando le linee del suo corpo, il processo sembra acuirsi quando comincia a sviluppare un sentimento di attrazione e repulsione per il rozzo Finn. È forse la sovrabbondanza di stimoli offerta dalla bottega dei giocattoli a rendere la realtà quanto mai confusa, malleabile, suscettibile alle infinite sfumature percepibili con i quattro sensi.
Daiva Staškevičienė |
Non dico altro se non che, com’è ovvio, si arriverà a un punto di rottura; il crollo di ciò su cui questo piccolo mondo si regge, però, non offrirà in cambio che nuove incertezze.
In omaggio alla definizione di realismo magico che in genere viene associata a questo romanzo, ho scelto per rappresentare la bottega dei giocattoli un dipinto di Daiva Staškevičienė (1968), un'artista lituana che ha la capacità di creare immagini fortemente simboliche e allo stesso tempo così eleganti da sembrare senza tempo (mentre la Londra di Angela Carter abbonda di suggestioni vittoriane, anche se l'ambientazione è moderna). I due personaggi seduti a quel tavolo sembrano più degli alchimisti che dei giocattolai, lo so, ma proprio questo vi può dare qualche indizio sul significato che il romanzo ha assunto per me nel profondo.
3. La biblioteca
Questa scelta è un esplicito omaggio a Cristina Rossi e alla sua passione per il Medioevo (così come nel post precedente il riferimento alle Madri era un omaggio a Ivano Landi). “Auto da fé” (1935) di Elias Canetti è un romanzo dai molteplici livelli di lettura, sebbene quello politico-sociale in genere tenda a prevalere (il titolo evoca la cerimonia pubblica tipica dell'Inquisizione spagnola, mentre il cognome del protagonista significa “legno resinoso”. Due particolari che troveranno un senso compiuto solo alla fine, per la trama del libro e per il contesto storico, se pure relegato allo sfondo, in cui questa si sviluppa. Per la cronaca il libro è ambientato a Vienna, città in cui l’Autore visse da studente).
La storia inizia in maniera tragicomica e grottesca (direi weird, se questo fosse un romanzo “di genere”) per poi trasformarsi, nella seconda parte, in un percorso senza ritorno che diviene man mano sempre più feroce. Peter Kien è un famoso sinologo, un genio dalla memoria prodigiosa che trascorre lunghe ore di studio e lavoro nella solitudine del suo appartamento da scapolo, che ospita la più grande biblioteca privata della città.
La sua biblioteca si trovava nella Ehrlichstrasse, al quarto e ultimo piano della casa contrassegnata con il numero 24. […] Posò con ogni cautela la borsa su una poltrona, poi percorse un paio di volte in su e in giù la fuga dei quattro locali alti e spaziosi che formavano la sua biblioteca. Tutte le pareti erano tappezzate di libri fino al soffitto. Vi fece scorrere sopra lo sguardo lentamente. Nel soffitto si aprivano dei lucernari. Era orgoglioso di quella sua luce che pioveva dall’alto. Le finestre erano state murate parecchi anni prima, dopo una dura battaglia con il padrone di casa. In tal modo egli aveva guadagnato in ogni stanza una quarta parete, il che significava più posto per i libri. Inoltre, una luce che illuminasse dall'alto, uniformemente, tutti gli scaffali, gli sembrava più equa e più consona ai suoi rapporti con i libri. E con le finestre era scomparsa pure la tentazione di osservare il viavai della strada: una cattiva abitudine, evidentemente innata, che serve solo a far perdere tempo. Ogni giorno, prima di mettersi allo scrittoio, benediceva quell'idea e la costanza con cui l'aveva perseguita, perché ad essa doveva la realizzazione del suo maggior desiderio: possedere una biblioteca ricca, ben ordinata e chiusa da tutti i lati, nella quale nessun mobile superfluo, nessuna persona superflua lo distogliesse dai suoi gravi pensieri.
Questa biblioteca è il suo vanto e occupa i suoi pensieri a tal punto che, quando è costretto dalle circostanze a lasciare la sua casa per vagare nei bassifondi di Vienna, la sua mente non riesce ad accettare il distacco ed elabora un ingegnoso meccanismo di autoconservazione:
Da quando era sulla strada non aveva altro interesse che per le sue trattazioni rimaste a casa. [...] Determinate circostanze lo costringevano a tenere provvisoriamente chiusa la biblioteca di casa sua. In apparenza egli si sottometteva al destino, in realtà l’aggirava con l'astuzia. Non rinunciava a un solo pollice di scienza. Acquistava in blocco tutto ciò che gli serviva, e in capo a poche settimane si sarebbe rimesso al lavoro; il suo metodo di lotta era grandioso e adeguato a quelle tali circostanze, lui non era uomo da lasciarsi sopraffare, ora che era libero la sua intelligenza spiegava le ali, la sua statura cresceva col numero dei giorni in cui era padrone di sé stesso, e il fatto che in quel frattempo si raccogliesse presso di lui una piccola biblioteca nuova di alcune migliaia di volumi era per lui ricompensa sufficiente alle sue fatiche. Temeva addirittura che potesse crescere troppo. Cambiava albergo tutte le notti: come avrebbe potuto trascinarsi dietro quel peso crescente? Dato che possedeva una memoria indistruttibile, portava chiusa in testa tutta la nuova biblioteca. La cartella era sempre vuota. La sera, dopo la chiusura dei negozi, sentiva la stanchezza e, appena uscito dall'ultima libreria, cercava l'albergo più vicino. [….] La cena se la faceva servire in camera: era l'unico pasto di tutta la giornata. Poi, per rilassarsi un po', si scaricava di dosso la biblioteca e si guardava attorno per vedere se vi fosse posto anche per essa. [….] Le pile di libri diventavano sempre più alte, ma, anche cadendo, i volumi non si sarebbero insudiciati perché tutto il pavimento era ricoperto di carta. Se qualche volta si svegliava, pieno d’inquietudine, nel mezzo della notte, di certo aveva sentito un rumore come di libri che cadevano.
Proprio per aver vissuto sempre nell’isolamento fisico e affettivo e nel disprezzo del prossimo, Kien è socialmente disadattato; la sua mancanza di senso pratico e la sua ingenuità lo rendono facile preda delle brame altrui. Kien dilapida il suo patrimonio, e quando sembra che suo fratello George possa rimettere le cose a posto, tutto precipita nuovamente. Anche questo libro è formato da tre parti, Testa senza mondo, Mondo senza testa e Il mondo nella testa, di cui l’ultima – una sorta di kammerspiel - è senz’altro la più avvincente.
L'occasione di proporre uno splendido Caravaggio era troppo ghiotta, e così eccolo qua. In realtà nel dipinto si vedono solo due libri, ma possiamo immaginare che là, nel buio, ve ne siano molti altri; anche perché l'uomo ritratto sembra ossessionato dai tomi che ha davanti, proprio come il Kien di Canetti. C'è in realtà un altro oggetto ritratto che ricollega il dipinto al romanzo, ma vi lascio il piacere d'immaginare da voi quale possa essere.
La storia inizia in maniera tragicomica e grottesca (direi weird, se questo fosse un romanzo “di genere”) per poi trasformarsi, nella seconda parte, in un percorso senza ritorno che diviene man mano sempre più feroce. Peter Kien è un famoso sinologo, un genio dalla memoria prodigiosa che trascorre lunghe ore di studio e lavoro nella solitudine del suo appartamento da scapolo, che ospita la più grande biblioteca privata della città.
La sua biblioteca si trovava nella Ehrlichstrasse, al quarto e ultimo piano della casa contrassegnata con il numero 24. […] Posò con ogni cautela la borsa su una poltrona, poi percorse un paio di volte in su e in giù la fuga dei quattro locali alti e spaziosi che formavano la sua biblioteca. Tutte le pareti erano tappezzate di libri fino al soffitto. Vi fece scorrere sopra lo sguardo lentamente. Nel soffitto si aprivano dei lucernari. Era orgoglioso di quella sua luce che pioveva dall’alto. Le finestre erano state murate parecchi anni prima, dopo una dura battaglia con il padrone di casa. In tal modo egli aveva guadagnato in ogni stanza una quarta parete, il che significava più posto per i libri. Inoltre, una luce che illuminasse dall'alto, uniformemente, tutti gli scaffali, gli sembrava più equa e più consona ai suoi rapporti con i libri. E con le finestre era scomparsa pure la tentazione di osservare il viavai della strada: una cattiva abitudine, evidentemente innata, che serve solo a far perdere tempo. Ogni giorno, prima di mettersi allo scrittoio, benediceva quell'idea e la costanza con cui l'aveva perseguita, perché ad essa doveva la realizzazione del suo maggior desiderio: possedere una biblioteca ricca, ben ordinata e chiusa da tutti i lati, nella quale nessun mobile superfluo, nessuna persona superflua lo distogliesse dai suoi gravi pensieri.
Questa biblioteca è il suo vanto e occupa i suoi pensieri a tal punto che, quando è costretto dalle circostanze a lasciare la sua casa per vagare nei bassifondi di Vienna, la sua mente non riesce ad accettare il distacco ed elabora un ingegnoso meccanismo di autoconservazione:
Michelangelo Merisi da Caravaggio, San Girolamo, 1605-06, olio su tela |
Proprio per aver vissuto sempre nell’isolamento fisico e affettivo e nel disprezzo del prossimo, Kien è socialmente disadattato; la sua mancanza di senso pratico e la sua ingenuità lo rendono facile preda delle brame altrui. Kien dilapida il suo patrimonio, e quando sembra che suo fratello George possa rimettere le cose a posto, tutto precipita nuovamente. Anche questo libro è formato da tre parti, Testa senza mondo, Mondo senza testa e Il mondo nella testa, di cui l’ultima – una sorta di kammerspiel - è senz’altro la più avvincente.
L'occasione di proporre uno splendido Caravaggio era troppo ghiotta, e così eccolo qua. In realtà nel dipinto si vedono solo due libri, ma possiamo immaginare che là, nel buio, ve ne siano molti altri; anche perché l'uomo ritratto sembra ossessionato dai tomi che ha davanti, proprio come il Kien di Canetti. C'è in realtà un altro oggetto ritratto che ricollega il dipinto al romanzo, ma vi lascio il piacere d'immaginare da voi quale possa essere.
4. Il ponte
Credo che in nessun altro romanzo se non “Le notti bianche” di Fedor Dostoievskij(*) un semplice particolare dell’arredo urbano abbia avuto su di me, lettore adolescente in quel finire degli anni Ottanta, un tale potere evocativo. Eppure, il ponte sulla Neva dove per la prima volta il protagonista incontra Nasten'ka, la giovinetta che finirà per risvegliare in lui sentimenti probabilmente sopiti e certamente inattesi, non è affatto un protagonista casuale. Altri prima di Dostoievskij ne avevano apprezzato il fascino irresistibile, quasi come se esso rappresentasse il fulcro dell’intera San Pietroburgo; Majakovskij, per esempio, lo aveva già citato in un passaggio del suo poema “L’uomo”, un’opera per certi versi simile ma con un finale addirittura più tragico di quello, già di per sé piuttosto angosciante, de “Le notti bianche” di Dostoievskij: “Un ponte incantevole.”, scrisse il poeta, “Vi salgo. E con una tremenda agitazione mi sporgo a guardare. Stava qui, mi rammento. C’era questo luccichìo. E questo a quel tempo si chiamava Neva.”
Non sono sicuro che il ponte di Majakovskij sia lo stesso che Fedor Dostoievskij arricchisce della presenza di questa giovane sconosciuta che, apparsa dal nulla, entra prepotentemente nella vita dell’anonimo protagonista. Sono quasi certo anzi che non sia così, visto che l’autore di “Delitto e Castigo” definisce “canale” il corso d’acqua che vi passa sotto. Lo confermerebbe, se la memoria non mi inganna, la trasposizione che ne fece Luchino Visconti al cinema: quello di Dostoievskij era solo uno dei tanti piccoli corsi d’acqua che si staccano dal letto principale della Neva per poi gettarsi anch’essi, un po’ più timidamente, nelle fredde acque del Baltico.
La mia strada è sulla riva del canale e a quell’ora non si incontra anima viva. […] Camminavo e cantavo, poiché, quando sono felice, ho l’abitudine di canticchiare qualcosa, come fa ogni uomo felice, il quale, non avendo amici, e neppure buone conoscenze, non sa con chi dividere la propria gioia. Ad un tratto mi capitò una cosa impreveduta: da una parte, appoggiata al parapetto del canale, c’era una donna, che coi gomiti sull’inferriata sembrava guardare attentamente l’acqua torbida. Aveva un grazioso cappellino giallo ed una mantiglia nera, civettuola. «È una ragazza, una brunetta, certamente», pensai. Credo che non udisse i miei passi, poiché non si mosse neppure quando io le passai accanto, trattenendo il respiro, col cuore che mi batteva forte. «Strano! – pensai – Ha qualcosa che la preoccupa», e rimasi improvvisamente come inchiodato al suolo: avevo udito un singhiozzo soffocato. No, non mi ero ingannato: la ragazza piangeva, anzi, di tanto in tanto, singhiozzava addirittura. Dio mio! Sentii stringermi il cuore. Io non sono timido con le donne, ma quello fu un momento eccezionale.
Forse non a tutti il ricordo di questo piccolo capolavoro della letteratura russa rimanda l’immagine di quel ponte. Credo che sia molto più facile pensare ai vicoli di Pietroburgo, oppure alle sue piazze così come ce le aveva mostrate Visconti nel suo film, ma è un ponte che io vedo quando chiudo gli occhi. Mi sarebbe piaciuto trovare un dipinto che assomigliasse il più possibile a quell’immagine che si nasconde da qualche parte nella mia testa, quella che ha impressionato la mia retina la prima volta che lessi questo libro, ma non mi è stato possibile. Credo che questa veduta di San Pietroburgo ci vada però piuttosto vicino (tra parentesi si tratta di un dipinto recentissimo: a prima vista non l'avrei mai detto).
(*) Per una di quelle coincidenze che capitano di tanto in tanto, anche l'amica e collega blogger Luz ha parlato di questo libro ultimamente, dedicandogli però un intero post! Ecco il link per chi non avesse ancora avuto modo di leggerlo.
Credo che in nessun altro romanzo se non “Le notti bianche” di Fedor Dostoievskij(*) un semplice particolare dell’arredo urbano abbia avuto su di me, lettore adolescente in quel finire degli anni Ottanta, un tale potere evocativo. Eppure, il ponte sulla Neva dove per la prima volta il protagonista incontra Nasten'ka, la giovinetta che finirà per risvegliare in lui sentimenti probabilmente sopiti e certamente inattesi, non è affatto un protagonista casuale. Altri prima di Dostoievskij ne avevano apprezzato il fascino irresistibile, quasi come se esso rappresentasse il fulcro dell’intera San Pietroburgo; Majakovskij, per esempio, lo aveva già citato in un passaggio del suo poema “L’uomo”, un’opera per certi versi simile ma con un finale addirittura più tragico di quello, già di per sé piuttosto angosciante, de “Le notti bianche” di Dostoievskij: “Un ponte incantevole.”, scrisse il poeta, “Vi salgo. E con una tremenda agitazione mi sporgo a guardare. Stava qui, mi rammento. C’era questo luccichìo. E questo a quel tempo si chiamava Neva.”
Non sono sicuro che il ponte di Majakovskij sia lo stesso che Fedor Dostoievskij arricchisce della presenza di questa giovane sconosciuta che, apparsa dal nulla, entra prepotentemente nella vita dell’anonimo protagonista. Sono quasi certo anzi che non sia così, visto che l’autore di “Delitto e Castigo” definisce “canale” il corso d’acqua che vi passa sotto. Lo confermerebbe, se la memoria non mi inganna, la trasposizione che ne fece Luchino Visconti al cinema: quello di Dostoievskij era solo uno dei tanti piccoli corsi d’acqua che si staccano dal letto principale della Neva per poi gettarsi anch’essi, un po’ più timidamente, nelle fredde acque del Baltico.
Solovyev Aleksey Sergeevich, Saint Petersburg. Spring Evening near the Alarchin Bridge, 2016, olio su tela |
Forse non a tutti il ricordo di questo piccolo capolavoro della letteratura russa rimanda l’immagine di quel ponte. Credo che sia molto più facile pensare ai vicoli di Pietroburgo, oppure alle sue piazze così come ce le aveva mostrate Visconti nel suo film, ma è un ponte che io vedo quando chiudo gli occhi. Mi sarebbe piaciuto trovare un dipinto che assomigliasse il più possibile a quell’immagine che si nasconde da qualche parte nella mia testa, quella che ha impressionato la mia retina la prima volta che lessi questo libro, ma non mi è stato possibile. Credo che questa veduta di San Pietroburgo ci vada però piuttosto vicino (tra parentesi si tratta di un dipinto recentissimo: a prima vista non l'avrei mai detto).
(*) Per una di quelle coincidenze che capitano di tanto in tanto, anche l'amica e collega blogger Luz ha parlato di questo libro ultimamente, dedicandogli però un intero post! Ecco il link per chi non avesse ancora avuto modo di leggerlo.
5. L'ippodromo
C’è stato un periodo della mia vita, ora molto lontano, in cui mi perdevo alle corse dei cavalli. Non ne vado fiero. A quei tempi però (avrò avuto più o meno venticinque anni, tanto tempo libero e nemmeno un soldo in tasca) alla sera amavo trascorrere qualche ora all’ippodromo del trotto di Milano ad ammirare i grandi campioni. Non era ovviamente, il mio, un interesse solo sportivo: soldi in tasca ce n’erano pochi, ma qualche mille lire da mettere sul piatto, nella vaga speranza che potesse avvenire una miracolosa moltiplicazione, ce l’avevo. Quella piccola e tutto sommato innocente (almeno per come l’ho vissuta) evasione non aveva, come qualcuno avrà forse già immaginato, un’origine casuale.
Era il tempo in cui mi ero perso fra le pagine del vecchio Charles Bukowski, uno degli eroi belli e dannati della mia adolescenza. Bello forse non lo era molto, adesso che ci penso, ma dannato, mioddio, dannato lo era parecchio. E così, capitava che portassi con me i suoi libri; mi sedevo in un angolino appartato e li divoravo tra una corsa e l’altra finché, stremato, prima che partisse l’ultima corsa, non mi allontanavo e mi mescolavo tra la folla. I tempi poi sono cambiati. Diciamo piuttosto che io sono cambiato. Ho cominciato a guardarmi attorno e ho visto solo gente perduta. A volte ancora rimpiango quei momenti ma, più probabilmente, rimpiango quelle letture per me così coinvolgenti.
Charles Bukowski non è mai stato uno che si dilungava in descrizioni. Lo sapete meglio di me, lo stile del vecchiaccio era quello di gettare giù lunghi dialoghi in rapida sequenza. Dialoghi davanti ad un bicchiere, dialoghi davanti al programma delle corse, dialoghi davanti alla mignotta di turno. C’è però, tra le tante conversazioni con sé stesso e con gli altri, una bellissima riflessione su questo luogo fatto di cavalli, di corse e di perdenti. Essa è tratta da una delle sue più celebri raccolte di racconti, vale a dire "Storie di ordinaria follia". La riporto di qui seguito con una piccola nota: Bukowski odiava le maiuscole, per cui non ne troverete.
all'ippodromo è pieno di pazzi, certi arrivano appena aprono i cancelli. poi si sdraiano sulle tribune, o su qualche panchina, e dormono per tutta la durata delle gare. mai che guardino una corsa. poi si alzano e tornano a casa. certi altri s'aggirano qua e là, vagamente consapevoli che lì fanno delle corse di cavalli. vanno a prendere un caffè, e si guardano intorno come tramortiti, disseccati, senza vita. o sennò ne vedi uno, tante volte, in piedi in un cantuccio, che s'abbuffa un panino alla salsiccia, con la bocca piena, che a momenti si strozza, tutto contento nonostante tutto. e alla fine di ogni giornata ne vedi qualcuno con la testa bassa, fra le gambe. certi piangono. dove vanno i perdenti? chi lo vuole, un perdente? in sostanza, tutti quanti, dal primo all'ultimo, chi in un modo chi in un altro, sono convinti di aver trovato il sistema per vincere. magari si tratta solo di fede superstiziosa: che la loro fortuna cambierà. certi puntano in base alle stelle, altri in base ai numeri, altri studiano i tempi, c'è chi punta sul fantino, c'è chi gioca i velocisti, chi i cavalli da rimonta, chi scommette su un nome, e dio sa che cos'altro perdono quasi tutti, quasi sempre. […] la maggior parte di costoro hanno una sola cosa in comune: sono terribilmente stupidi.
Terribilmente stupidi. Lo ha detto Bukowski, non l’ho detto io. E Bukowski era uno che di queste cose, credetemi, se ne intendeva. Non importa se quella volta, quell’unica volta, presi una trio in ordine e con 2.000 lire me ne misi in tasca 180.000. A conti fatti il bilancio è sempre, e non può che essere sempre, in negativo. E non sto parlando solo di cavalli, mi sembra ovvio.
E la scelta del dipinto? In questo caso la risposta è praticamente ovvia...
E questo è tutto anche per oggi. Spero che abbiate gradito questo mio secondo esperimento: è stato per me divertente ma ancora più faticoso del precedente, specialmente nella fase di ricerca delle opere d'arte. La prossima volta, se mai ce ne sarà una, potrei forse iniziare da queste ultime anziché dalla scelta dei libri...
Era il tempo in cui mi ero perso fra le pagine del vecchio Charles Bukowski, uno degli eroi belli e dannati della mia adolescenza. Bello forse non lo era molto, adesso che ci penso, ma dannato, mioddio, dannato lo era parecchio. E così, capitava che portassi con me i suoi libri; mi sedevo in un angolino appartato e li divoravo tra una corsa e l’altra finché, stremato, prima che partisse l’ultima corsa, non mi allontanavo e mi mescolavo tra la folla. I tempi poi sono cambiati. Diciamo piuttosto che io sono cambiato. Ho cominciato a guardarmi attorno e ho visto solo gente perduta. A volte ancora rimpiango quei momenti ma, più probabilmente, rimpiango quelle letture per me così coinvolgenti.
Charles Bukowski non è mai stato uno che si dilungava in descrizioni. Lo sapete meglio di me, lo stile del vecchiaccio era quello di gettare giù lunghi dialoghi in rapida sequenza. Dialoghi davanti ad un bicchiere, dialoghi davanti al programma delle corse, dialoghi davanti alla mignotta di turno. C’è però, tra le tante conversazioni con sé stesso e con gli altri, una bellissima riflessione su questo luogo fatto di cavalli, di corse e di perdenti. Essa è tratta da una delle sue più celebri raccolte di racconti, vale a dire "Storie di ordinaria follia". La riporto di qui seguito con una piccola nota: Bukowski odiava le maiuscole, per cui non ne troverete.
all'ippodromo è pieno di pazzi, certi arrivano appena aprono i cancelli. poi si sdraiano sulle tribune, o su qualche panchina, e dormono per tutta la durata delle gare. mai che guardino una corsa. poi si alzano e tornano a casa. certi altri s'aggirano qua e là, vagamente consapevoli che lì fanno delle corse di cavalli. vanno a prendere un caffè, e si guardano intorno come tramortiti, disseccati, senza vita. o sennò ne vedi uno, tante volte, in piedi in un cantuccio, che s'abbuffa un panino alla salsiccia, con la bocca piena, che a momenti si strozza, tutto contento nonostante tutto. e alla fine di ogni giornata ne vedi qualcuno con la testa bassa, fra le gambe. certi piangono. dove vanno i perdenti? chi lo vuole, un perdente? in sostanza, tutti quanti, dal primo all'ultimo, chi in un modo chi in un altro, sono convinti di aver trovato il sistema per vincere. magari si tratta solo di fede superstiziosa: che la loro fortuna cambierà. certi puntano in base alle stelle, altri in base ai numeri, altri studiano i tempi, c'è chi punta sul fantino, c'è chi gioca i velocisti, chi i cavalli da rimonta, chi scommette su un nome, e dio sa che cos'altro perdono quasi tutti, quasi sempre. […] la maggior parte di costoro hanno una sola cosa in comune: sono terribilmente stupidi.
Terribilmente stupidi. Lo ha detto Bukowski, non l’ho detto io. E Bukowski era uno che di queste cose, credetemi, se ne intendeva. Non importa se quella volta, quell’unica volta, presi una trio in ordine e con 2.000 lire me ne misi in tasca 180.000. A conti fatti il bilancio è sempre, e non può che essere sempre, in negativo. E non sto parlando solo di cavalli, mi sembra ovvio.
E la scelta del dipinto? In questo caso la risposta è praticamente ovvia...
Édouard Manet, Les Courses à Longchamp, 1867, olio su tela |
E questo è tutto anche per oggi. Spero che abbiate gradito questo mio secondo esperimento: è stato per me divertente ma ancora più faticoso del precedente, specialmente nella fase di ricerca delle opere d'arte. La prossima volta, se mai ce ne sarà una, potrei forse iniziare da queste ultime anziché dalla scelta dei libri...
Questo meme ( o progetto) dei vasi comunicanti è davvero molto intrigante poichè l'associazione luoghi, libri e quadri che ne viene fuori unisce praticamente tutti i sensi umani dalla vista al tatto. Ho provato sensazioni piacevoli nel leggere de La Biblioteca e de Il Ponte mentre L'Ippodromo mi ha riportato a quella fase della vita in cui eravamo ricchi solo della giovinezza e della incoscienza (anche nel suo aspetto peggiore) Che dire? Non è un accostamento facile.
RispondiEliminaChapeau a te per averlo reso in maniera così viva e vivida.
Gli anni dell'ippodromo (anche se non per l'ippodromo in sé) sono anni a chi tutti noi quasi cinquantenni guardiamo già con infinita nostalgia. In realtà quella giovinezza che rimpiangiamo non è ancora del tutto perduta e, anche se i soldi in tasca non sono molti di più di allora, possiamo sempre farci forti del fatto che siamo meno impotenti di fronte ai casini della vita.
EliminaAvevo visto il post creato da Cristina e devo dire che il tuo regge pienamente il confronto. Sia le citazioni letterarie che le immagini artistiche sono tutte particolarmente suggestive.
RispondiEliminaPer la cronaca posso dire che il "San Girolamo" l'ho visto dal vivo quando sono stato alla Galleria Borghese.
Non conoscevo e mi ha colpito molto Daiva Staškevičienė, quel suo quadro con echi di Bosch è davvero d'impatto.
Grazie mille, Ariano. Stavolta ho rimuginato sul post molto meno che su quello precedente sui paesaggi naturali: si può dire che la scelta dei libri è stata quasi istantanea. Non so se il mio post (o qualsiasi altro, se è per quello) possa reggere davvero il confronto con quello di Cristina, io non ho la sua cultura classica o storica, però sul valore dei libri che ho scelto non ho dubbi ^_^
EliminaMeraviglioso post come gli altri di questo tipo, e la scelta del Maestro di Pietroburgo merita un applauso: quanto mi ha fatto soffrire quel racconto...
RispondiEliminaLa storia dei due gemelli è inquietante ed intrigante, e nel complesso è un post strapieno di idee ghiotte ;-)
Quella di Dostoievskij è senza dubbio una storia indimenticabile. Trilogia della città di K. invece è un libro non facile da leggere proprio per via dello stile - io almeno l’ho trovato tale – ma la storia colpisce davvero allo stomaco, anche per via del twist finale (come ho detto non ricordo precisamente la trama, ma so che il finale aveva un po’ ribaltato quello che avevo creduto di sapere fino a quel momento. Ho evitato di rileggere la trama nel dettaglio nel caso in cui, prima o poi, ci scappasse una rilettura). Se però dovessi consigliarti uno di questi romanzi, quello sarebbe Auto da fè, se non altro perché (ma forse lo sai già) uno dei personaggi è appassionato di scacchi. Grazie anche a te per i complimenti XD
EliminaInnanzitutto un enorme grazie per avere aderito ancora una volta ai miei esperimenti alchemici. E devo dire che il tuo risultato è ancora una volta sorprendente al massimo. Vorrei farti anche i complimenti per la scrittura dei tuoi post in generale, sono impeccabili.
RispondiEliminaDei libri che citi, avevo letto "Autodafè" moltissimi anni fa - a proposito, grazie anche della dedica, è meglio di un Ambrogino d'Oro! - e me lo ricordo come un libro possente e denso nella prosa e nei significati. Non è considerato di facile lettura, tra le altre cose, e rappresenta un vero e proprio spauracchio per molto. E, naturalmente, avevo letto e riletto l'immortale Fedor Dostoievskij. Come dici, anch'io non ricordo il ponte quanto le stradine di San Pietroburgo.
Del tutto nuovo sono per me gli altri libri. Mi attira moltissimo "Trilogia della città di K." soprattutto per via del legame tra gemelli, su cui ho fatto delle ricerche e che mi ha sempre appassionato. Infatti ho inserito ben due coppie di gemelli nella mia saga storica sui crociati. M'incuriosisce anche "La bottega dei giocattoli” di Angela Carter di cui avevo letto qualcosa in lingua originale. Comunque sono tutti dei signori scrittori... ah, mannaggia, poter avere più tempo!
Che dire dei dipinti? Mi piace moltissimo l'immagine di Daiva Staškevičienė, così strana, inquietante e ricca di simboli. E poi su Caravaggio non si discute: lui è, e basta.
Cristina, senza di te questo post (e quello precedente) non esisterebbe, quindi grazie a te. Vorrei una volta tanto farmi venire io un’idea così geniale, ma la verità è che sono un lupo solitario e per giunta sono anche piuttosto pigro - non sono il tipo che trascina le folle, io ;)
EliminaMa davvero il risultato ti sembra sorprendente? Io pensavo, invece, di essere stato prevedibile, perché i libri che ho scelto sono tutti di autori, chi più chi meno, famosi, anche se la Carter se vogliamo è un po’ più di “nicchia” e Bukowski non è per tutti… ma a volte bisogna seguire l’istinto, e inoltre si tratta di libri di cui forse non avrei mai parlato qui sul blog se non si fosse presentata un’occasione come questa. Sono contento che ti piacciano i dipinti che ho scelto, per me sono sempre la parte più ostica della faccenda.
Caspita, non mi hanno mai chiamato "una trascinatrice di folle". Mi chiedo a questo punto, e con qualche preoccupazione, che effetto io faccia dall'esterno. Che sia una reincarnazione di qualche rivoluzionaria/o francese? ;-)
EliminaPer quanto riguarda la scelta degli autori, ognuno è libero di scegliere quello che preferisce, anche per assurdo "I promessi sposi" di Alessandro Manzoni. Massima libertà. Non ho ma il letto Bukowski, ma ho ereditato dei libri da una vecchia e nutrita biblioteca, quindi ne ho qui 5-6 suoi a disposizione - fra cui quello che hai inserito.
Approfitto per dire che domani anche Patricia pubblica il suo contributo!
Eh eh, stavolta mi hai preceduto alla grande! Io il post ce l'ho mezzo montato in testa ma è un vero percorso a ostacoli, per non dire labirintico, e non ho idea di quanto tempo possa prendermi concretizzarlo. Immagino tanto, ma domani, se riesco, lo inizio. Tu hai ottenuto il solito risultato davvero eccellente.
RispondiEliminaI libri che hai citato mi dicono tutti in un modo o nell'altro qualcosa. Gli ultimi due perché li ho effettivamente letti. Quello di Angela Carter perché mi ha sempre attirato, anche se poi non ne ho mai fatto di nulla. Mentre la "Trilogia di K." e "Auto da fé" erano i rispettivi libri preferiti di due persone importanti del mio passato. Ovvio che entrambi loro hanno spinto per farmi leggere l'uno la Trilogia e l'altro il libro di Canetti, ma senza successo. E non perché le opere in sé non mi attirassero, tutt'altro, ma solo perché ero impegnato con i miei percorsi di lettura e non avevo posto...
E ti stupirà sentirlo, ma anch'io collego "Le notti bianche" soprattutto all'immagine del ponte. Sebbene poi, per il mio di ponte, abbia preso in considerazione tutt'altra storia (è comunque l'unico ambiente dei cinque che abbiamo in comune).
Devo però aggiungere che un posto di frontiera, e con delle discrete analogie con quello della Trilogia di K., ha trovato posto per anni in uno dei miei vecchi sogni ricorrenti.
Dei dipinti avevo già presente quelli di Manet e Caravaggio. Il primo, quello della frontiera, non lo conoscevo, ma mi piace molto. E ancor di più mi piace quello usato per la copertina del libro di Angela Carter.
Dimenticavo... grazie per il linkaggio! :-))
EliminaSe ho potuto precederti è per il solo e semplice fatto che in novembre il lavoro mi ha dato un po’ di tregua, e questo si è tradotto in un po’ più di tempo da dedicare alla stesura dei post. Per la cronaca il lavoro è impegnativo come sempre (e fra l'altro ho appena avuto una promozione all’italiana: aumento delle incombenze e responsabilità, stesso livello e stipendio), ma se non altro non ho avuto trasferte e mi sono goduto qualche rilassante serata sul divano di casa ;). So che invece tu sei molto impegnato, anche se mi pare che tutto sommato la programmazione del blog non ne abbia risentito. Allora aspetto trepidante il tuo post ‘labirintico’, che sarà come sempre un’avventura da scoprire :)
EliminaP.S.: Prego.
Molto bello e curatissimo il tuo meme. Non ho letto alcun titolo di quelli citati, mi ispirano tantissimo e ad esempio Canetti e Kristof sono in attesa da molto. Il Dostoevskij mi è stato suggerito da "tutti" gli amici di letture negli ultimi mesi, dovrò capitolare e leggere:D
RispondiEliminaI dipinti associati mi paiono ottime scelte, anche quella che consideri forse meno pertinente (la "frontiera"): secondo me quella sorta di desolazione dice tutto il necessario.
Bellissimo post *_*
Grazie Glò, anche se a posteriori mi sembra che la scrittura sia un po' farraginosa (ma questo mi capita sempre quando mi rileggo). I libri meritano tutti secondo me, anche se la Kritstof ha uno stile che può irritare. Dostoevskij ovviamente è tutta un'altra cosa...
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