Un tempo la notte era fatta per dormire, sonni calmi e profondi, e svegliarsi poi senza terrori. Da molte sere siamo svegli fino all'alba. Ma questa è l'ora peggiore. Il popolo la chiama l'ora del lupo, è l'ora in cui la maggior parte delle persone muore, quando il sonno è più profondo, quando gli incubi sono più reali. È l'ora in cui gli insonni sono ossessionati dalle loro paure più profonde, l'ora i cui fantasmi e demoni sono più potenti. L'ora del lupo è anche l'ora in cui molti bambini nascono... (Johan Borg).
Penserete che sono un pazzo scatenato. Ne sono convinto. Beh, lo penso anch'io. Il fatto è che quando, poco di un mese fa, mi venne proposto di partecipare alle celebrazioni del centenario della nascita di Ingmar Bergman, mi parve una buona idea: se c'è un regista che ha fatto la storia del cinema, pensai così di primo acchito, quello è senza dubbio Ingmar Bergman. "Vuoi che non riesca a trovare delle cose da dire?", mi dissi. Ed eccomi qua, davanti al foglio bianco, con nella pelle il terrore di non esserne all'altezza. Ma porca miseria, perché mi faccio sempre trascinare in queste cose? Non so da dove iniziare, ma so che al calar di questa sera d'estate (lo dico mettendo avanti le mani) qualcosa, nel bene e nel male, sarà venuto pur fuori e quel qualcosa, nel bene e nel male, verrà pubblicato. Intanto il ghiaccio è stato rotto e questo particolare già mi consola.
Celebrare il centesimo anniversario della nascita di Bergman scegliendo uno dei tanti film della sua sterminata produzione e... recensendolo. Sembra facile.
Bergman non è mai stato uno facile da recensire. Ciascuno dei suoi film, almeno limitatamente a quelli a cui ho avuto la fortuna di assistere, è talmente ricco di simbolismi, di metafore, di temi che si intrecciano, di cose dette e non dette, di sequenze che si amalgamano e si confondono, tecnicamente ineccepibili e allo stesso tempo spiazzanti, di riferimenti e rimandi, spesso autobiografici, che difficilmente uno spettatore impreparato, o vinto dal sonno quale sono spesso io la sera, è in grado di cogliere. Ed è anche per questo, mi viene da dire, che Bergman ha sempre suscitato nel pubblico reazioni contrastanti, a metà strada tra il genio e il paraculo.
Per dover di cronaca, mi tocca ammettere che la mia tentazione iniziale strizzava l'occhio, per via della sua potenza iconografica, a “Il Settimo Sigillo”, il lungometraggio con cui il cineasta svedese vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 1956... ma alla fine ho preferito lasciare ad altri l'incombenza di sfidare a scacchi la morte, nella vana speranza di rinviare o scongiurare l'inevitabile.
Con "L'ora del lupo" (Vargtimmen, 1968), mi sento invece un po' più a mio agio, se non altro per il fatto che da molti è definito, mi viene da dire abbastanza superficialmente, l'unico film horror diretto dal grande regista. A questo punto servirebbe una lunga digressione per definire cosa è horror e cosa non lo è. Un horror deve mettere paura e provocare angoscia? Allora "L'ora del lupo" è un horror. Ma se un film sovverte gli schemi, ti psicanalizza e mette a nudo il tuo demone interiore, come lo chiameresti? In un altro modo? Strano, perché stiamo sempre parlando di paura e angoscia, seppur indirettamente.
Johan Borg (Max Von Sydow), un pittore di fama mondiale, si trasferisce su un'isola remota con la sua giovane moglie Alma (Liv Ullmann) alla ricerca di quel tipo di serenità che solo l'isolamento più assoluto può concedere. Nonostante i buoni propositi iniziali, nel giro di pochi giorni la coppia viene avvicinata da alcuni strani personaggi della nobiltà svedese, residenti in un castello vicino, e vengono invitati a cena. Da subito una vaga sensazione attanaglia lo spettatore nei confronti di questi personaggi: viene il dubbio che siano irreali, quasi dei fantasmi; ma dal momento che sia Johan che sua moglie interagiscono con loro, tale idea viene inizialmente accantonata. Mai come in questo caso, tuttavia, una sensazione iniziale avrebbe potuto rivelarsi più azzeccata, anche se non è un film di fantasmi nel senso classico del termine quello a cui stiamo assistendo.
Ingmar Bergman è sempre stato ossessionato e affascinato dai demoni interiori che l'immaginazione può creare e, come nessun altro regista, ha esplorato i misteri più profondi dell'anima e della mente umana. "L'ora del lupo" è in questo senso il punto più alto della sua carriera. Johan Borg deve liberarsi dei suoi fantasmi, qualunque essi siano: ansie, sensi di colpa, ricordi dolorosi...
"Ho ripensato a una cosa della mia infanzia, a una punizione che mi avevano inflitto. Mi spinsero dentro a un ripostiglio, chiudendo la porta. Intorno a me era il buio, mi sentivo terrorizzato, davo pugni e calci alla porta. Vedi, mi avevano detto che un nano si nascondeva e viveva in quel ripostiglio; un nano che rosicchiava le dita dei piedi ai bambini cattivi. Ero sfinito e avevo smesso di scalciare, allora sentii uno scricchiolio, capii che la mia ora era arrivata. Con il fiato mozzo preso dal panico cominciai ad arrampicarmi sui ripiani degli scaffali nel vano tentativo di nascondermi, tiravo giù scatole e provviste poi persi la presa e caddi. Mi dibattevo selvaggiamente per difendermi da quella creatura minuscola con tutto il fiato gridavo come invasato imploravo che mi perdonassero. Alla fine la porta si aprì e io potei uscire, alla luce."
Si racconta spesso, nelle tante biografie del regista, che la frase che qui sopra ho riportato sia autobiografica, riconducibile a un episodio che segnò indelebilmente la fragile psiche del bambino Ingmar Begman, quando, nel corso di una delle tante visite all'ospedale di Sophiahemmet, nel centro di Stoccolma, rimase accidentalmente chiuso all'interno di una cappella mortuaria, solo e circondato da cadaveri. Non saprei dire se l'episodio reale e quello cinematografico siano effettivamente connessi tra di loro, ma sono sicuro che una punizione come quella descritta dal personaggio del film faccia parte dell'autobiografia di tutti noi, anche se in forma diversa. Ricordi dolorosi, sensi di colpe, ansie... chi di noi può dirsene esente?
Johan Borg è perseguitato dal suo passato, ne è perseguitato al punto dal confondere ciò che è reale da ciò che è solo un prodotto della sua mente. Lo stesso spettatore ne è confuso. Non pare esserci mai modo di dire se le immagini che scorrono rapidamente sullo schermo sono reali, sono memorie, sono allucinazioni... o se è tutto un gioco di simbolismi e metafore. Poi alla fine anche lo spettatore realizza, così come la moglie del protagonista, il processo di follia del pittore attraverso le sue note del suo diario.
Una donna che vive a lungo con un uomo finisce per essere simile a lui. Dicono che se lei lo ama e cerca di pensare e vedere come lui si identifica con lui, come anche lui si trasforma nella forma di lei. Due persone che hanno vissuto tutta la vita insieme finiscono per somigliarsi. Fare tante esperienze in comune non solo cambia i pensieri, ma anche i volti, che a lungo andare finiscono per avere la stessa espressione.
Sua moglie Alma lo ama così intimamente che è pronta a tuffarsi nel profondo del suo mondo interiore, nel disperato tentativo di aiutarlo condividendo i suoi fantasmi, il che è meraviglioso ma a quanto pare inutile. "L'ora del lupo" è un vera discesa all'inferno e, non per niente, è nettamente diviso in due parti. Nei primi quarantacinque minuti prevale il lato personale, una fase che inizia con la scena in cui Alma, rivolgendosi direttamente alla macchina da presa, racconta la sua storia in flashback, e che finisce con la fuga della coppia dal castello, come volendo suggerire che una rinnovata intesa di coppia possa essere una panacea per tutti i mali. Nei secondi quarantacinque minuti prevale invece il terrore più ancestrale, che ha il suo via nel momento della consapevolezza che l'incubo di Johan è troppo personale perché la donna possa prenderne parte.
C'è uno stacco netto tra le due distinte metà de "L'ora del lupo" e anche i più profani possono chiaramente distinguere il diverso dosaggio che il regista ha fatto del bianco e del nero. Se inizialmente la presenza del nero è solo fine a se stessa, nel finale tutto diventa nero, e solo delle timide pennellate di bianco, nate e immediatamente morte come dei fiammiferi che si accendono e subito si consumano, mantengono viva la speranza.
Sono certo che si possano trovare infinite interpretazioni psicanalitiche relativamente alla breve luce di un fiammifero e alla meno effimera, ma pur sempre limitata, luce di una candela. E sono certo che qualcuno potrebbe addirittura vederci una metafora sessuale. E a questo punto viene da chiedersi se ciò che si riteneva essere un eccesso d'amore, da parte di Alma, non fosse in realtà esattamente l'opposto.
Lo speciale "Il fabbricante di immagini", realizzato per celebrare il centenario della nascita del grande regista svedese, prosegue su Redrumia (Luci d'inverno), su Non c'è paragone (Il settimo sigillo), su Director's cult (Persona), sul Bollalmanacco (Fanny & Alexander) e su Solaris (Un'estate d'amore).
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Lo speciale "Il fabbricante di immagini", realizzato per celebrare il centenario della nascita del grande regista svedese, prosegue su Redrumia (Luci d'inverno), su Non c'è paragone (Il settimo sigillo), su Director's cult (Persona), sul Bollalmanacco (Fanny & Alexander) e su Solaris (Un'estate d'amore).
Già le parole che gli avevi dedicato nello scorso post mi erano bastate per capire che sarebbe stato questo il film in esame ;-) Uno dei miei Bergman preferiti tra l'altro... Un horror? Forse. Ma ogni volta che l'ho visto mi sono sentito in realtà più al cospetto di un "gotico".
RispondiEliminaBeh sì, non era nemmeno poi tanto difficile.... Speravo che qualcuno scommettesse incautamente su "Lo specchio scuro" (giocando sull'assonanza con il nome del blog) ma così non è andata.
EliminaHorror? Gotico? Boh.. forse né uno né l'altro. Come si fa a etichettare il Maestro?
Devo ammettere che Bergman per me è un mistero, nel senso che non ho visto nulla di suo, e un po' me ne vergogno. Mi riprometto di cancellare la cifra "zero" alla voce "film di Bergman che ho visto".
RispondiEliminaNon ti preoccupare: sicuramente al mondo sono molti di più quelli a "quota zero" di quelli che li hanno visti tutti. Se vuoi fare un tentativo potrei suggerirti "Il settimo sigillo", che reputo assolutamente imprescindibile.
EliminaIl tuo pezzo è davvero professionale, preciso, sentito, un articolo di valore. Complimenti! Anche il film che hai scelto è molto ispirato al periodo, in quanto l'estate è davvero la stagione dell'horror... anche se parlare di Bergman come regista horror fa un po'impressione, ma tant'è. Sono felicissimo di aver partecipato a questa iniziativa!
RispondiEliminaGrazie delle belle parole! Gran parte del merito va però al film stesso che è di grande ispirazione per affogare nell'inchiostro un foglio di carta (nel mio caso è un computer, ma vabbè).
EliminaQUesto potrebbe essere nelle mie corde, per avvicinarmi in maniera più graduale al regista che ho esplorato pochissimo nel corso della mia vita.
RispondiEliminaNon esiste un avvicinamento graduale. Tanto meno con "L'ora del lupo" che, ti getta diritto nell'occhio del ciclone!
EliminaArrivo tardi a farti i complimenti ma sono lo stesso sentiti.
RispondiEliminaAvendo scoperto all'ultimo secondo questo ciclo di omaggi non ho fatto in tempo a partecipare, né mi andava di fare qualcosa al volo: Bergman mi ha dato tantissimo, mi ha ricostruito quando mi sentivo distrutto e meritava più di un mio post "al volo". Ci sarà un'altra occasione ;-)
Quando all'epoca della mia prima visione di questi film - metà anni '90 - Tele+ li trasmise premettendo una presentazione, per "L'ora del lupo" scelse di mostrare una scena da un film di Moretti in cui era citata quest'ora notturna. In seguito ho scoperto che il film ha saputo conquistare molti più cuori rispetto agli film del regista.
Ricordo ancora l'emozione in questo film di vedere Von Sydow dire "avete vinto, lo specchio si è rotto, ma ora cosa riflettono i frantumi? (Cito a memoria). Era esattamente così che mi sentivo io davanti allo schermo, e Bergman mi aiutò a raccogliere tutti quei frantumi...
Una testimonianza bellissima. Grazie per averla condivisa!
EliminaBellissimo. Bellissimo post, TOM. È già candidato al Chaplin Award 2018. :)
RispondiEliminaHo visto poco di Bergman, dovrò rimediare. Adoro la partita a scacchi con la morte.
E mi piace il fatto che tu dubiti se si possa definire "horror", termine riduttivo per alcune sue produzioni, se si pensa alla profondità del cinema di Bergman.
Parte della sua grandezza si deve alla sua grande frequentazione del teatro, non è poco.
Chaplin Award 2018? Wow! Ma dai? Figo! Allora inizio ad incrociare le dita sin da subito! ^_^
EliminaNO, ehm, seriamente... horror è riduttivo ma quale termine non lo è? Bergman è bergmaniano. Non esiste altro modo di definirlo. Teatrale? Sicuramente quello sì. Molto di quello che ho visto si potrebbe benissimo mettere rappresentare con una scenografia ridotta ad un tavolo e a due sedie.
E'interessante scoprire come il cinema possa fungere da terapia... Bergman ha avuto traumi come li ebbe Hitchcock e questi incubi ricorrenti sono diventati un tratto distintivo della loro autorialità. Grazie per avermi fatto scoprire questo film, ho visto poco del regista svedese (menre invece di Hitch ho visto quasi tutto) e devo recuperare di più!
RispondiEliminaIl cinema, ma un po' tutte le forma d'arte spesso sono uno sfogo terapeutico per l'artista. Francisco Goya incanalò la sua angoscia nelle "Pitture Nere; Edvard Munch fece lo stesso con le sue paure... E anch'io, nel mio piccolo, uso il blog come terapia.
EliminaBellissimo post, prima o poi devo recuperare qualcosa di Bergman. Anche perché da come lo descrivi sembra un film molto interessante.
RispondiEliminaIl bello del cinema è che non ti mette alcuna fretta: è immortale come i volti di chi vi appare,
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