“I am buried alive.”. Così dice Okuyama, il protagonista di “The Face of Another” (他人の顔, Tanin no kao, 1966), nei primi minuti del film.
Si riferisce al fatto che è costretto a portare perennemente delle bende sul viso per nascondere le ustioni che lo deturpano, causate da un non meglio precisato incidente sul lavoro.
Anche fuori contesto, come affermazione è molto forte. Sarà per questo che mi è rimasta in mente più di altre. Come forse la maggior parte delle persone di aspetto “normale”, non avevo mai riflettuto veramente su cosa può voler dire avere il volto sfigurato. Ovvero non avere più un volto e sentire il bisogno di nascondersi dagli sguardi altrui. È il viso che volgiamo al mondo, quindi ci identifichiamo nel nostro viso e il viso, inutile negarlo, è la prima cosa che guardiamo nel prossimo e che ci fa decidere all’istante se una persona ci piace o meno.
In realtà Okuyama potrebbe indossare le bende soltanto per uscire, ma lui preferisce tenerle anche in casa per risparmiare alla moglie la vista delle cicatrici. Ma proprio le bende, insieme al rancoroso sarcasmo dell’uomo, contribuiscono ad allontanarlo ulteriormente dalla moglie, che già di suo appare tesa e imbarazzata, incapace di accettare la situazione, affrontarla, offrire conforto e amore (e non pietà) al proprio uomo (difatti, benché dica di amarlo, respinge i suoi approcci, a onor di cronaca abbastanza rozzi). Del resto difficile giudicarla, dato che non sembra esserci vera intimità tra i due, ma piuttosto un rapporto infarcito di troppi formalismi, anche se forse quella era la realtà nel Giappone dell’epoca…
Abbiamo quindi un uomo con una menomazione che si strugge d’infelicità perché non sa più che senso ha la sua vita, se riprendere il lavoro e se il suo matrimonio ha un futuro
“A faceless man feels free only when it's dark.
The face is the door to the mind.
Without it, the mind is shut off. There's no communication.
The mind's left to corrode, to disintegrate.
The mind of a rotten monster.
I'm buried alive.”
Abbiamo una donna, sua moglie, un matrimonio traballante, il fatto che interviene a stravolgere tutto e naturalmente l’uomo che è il perno dei successivi avvenimenti.
L’uomo del destino è lo psichiatra di Okuyama, il dottor Hira. Oltre ad offrirgli consulenza psicologica per aiutarlo a superare il trauma, Hira si offre (alla faccia della deontologia professionale) di fabbricargli una maschera da indossare quando è fuori casa. “Do you prefer bad teeth to false ones?” gli dice per vincere le sue blande resistenze.
Basterà scegliere un candidato adatto su cui modellarla, che chiuda un occhio sull’illegalità e la moralità di una tale pratica, e poi Okuyama potrà tornare a farsi vedere in giro fingendosi un altro.
Si sa, il denaro può tutto o quasi, e come previsto entro breve trovano il “donatore” e la maschera è fatta. Hira segue il suo paziente nei suoi primi passi nel mondo, in quella che è in tutti in effetti la sua seconda vita. Okuyama gira per bar, si reca nel suo vecchio ufficio per verificare che la segretaria non lo riconosca, addirittura mente alla moglie dicendo che farà un viaggio di lavoro mentre invece ha affittato un appartamento non lontano da casa sua. Nessuno, a parte il suo medico, sa nulla della sua seconda identità.
Hira chiede a Okuyama di non indossare la maschera più di 12 ore al giorno. “Don't wear the mask more than 12 hours at a time. The skin gets clogged.”. Ma più a che implicazioni mediche, Hira sembra preoccupato che il suo paziente non si immedesimi troppo nel suo alter ego, perdendo il senso della realtà e i suoi freni inibitori. Lo mette anche in guardia da tale rischio…ma invano.
“It's like making an invisible man.” […] When the mask fits better, you’ll be a new man. You'll be an unregistered man. Psychologically invisible.” […] “I’m me.” […] The world outside seems so terribly far away. I feel as I might fall down.” […] “Wait a while. You were born only an hour ago.”
“Masks could utterly destroy all human morality. Right? Name, position, occupation... ...all such labels wouldn't matter any more.”
Per tutto il film Hira e Okuyama lottano, simbolicamente, con dialoghi teatrali e ben calibrati. Entrambi, a modo loro, sono individui pericolosi.
Perché Hira più che uno psichiatra sembra un entomologo occupato ad osservare i movimenti di qualche curioso insetto. Mi ricorda il Basil di Dorian Gray, con la differenza che nel suo interessamento per Okuyama c’è curiosità scientifica, ma non c’è amicizia né calore. Lo studio dove riceve i suoi pazienti assomiglia al reparto antisettico di un ospedale, con tutto quel bianco e le luci accecanti, le pareti trasparenti stivate di arti, orecchi, parti del corpo finti. Gli specchi si riflettono uno nell’altro creando un gioco inquietante di rimandi, ulteriormente sottolineato dalle sapienti riprese e dal bianco e nero.
Dopo il primo esperimento su Okuyama, Hira medita di produrre le maschere in serie.
“I can mass produce them. A face, easily taken off. A world without family, friends or enemies. There'll be no crimes because there'll be no criminals. No one'll want freedom because we'll all be free. No one'll run away because there'll be no place to run from. Loneliness and friendship will be one. There'll be no need for trust among people. There'll be no suspicions or betrayals.”
Okuyama, dal canto suo, abbandona una maschera per indossarne un’altra, certo più gradevole, ma pur sempre una maschera. Con quella addosso non può sentire il vento, non può percepire i raggi del sole, proprio come avveniva con le bende. In fondo, Okuyama è ancora solo. La maschera, lungi dal reintegrarlo dalla società, finisce con l’isolarlo ancor di più.
Non solo. Una volta indossata la maschera, Okuyama muta personalità, ma si tratta davvero dell’effetto della maschera oppure la maschera si limita a tirare fuori il peggio da Okuyama? L’uomo su cui la maschera è stata modellata era comune, perfino banale. Invece, quegli stessi lineamenti addosso a Okuyama diventano molto attraenti, seducenti, anche se in maniera un po’ tenebrosa. La maschera doveva servire a rendere Okuyama normale, anonimo, e invece la previsione pessimistica di Hira comincia lentamente ad avverarsi.
“It's a strange feeling. Like someone's taken me over. […] But I'm myself. Nothing can change that.”
Al contempo sconcertato e contento della sua seconda identità, invece di afferrare al volo tutte le opportunità che l’anonimato del nuovo viso gli offre (comunque le si voglia intendere), l’uomo ne approfitta per sedurre sua moglie. “I have the right to get back what's mine.”
Il tentativo ha un esito imprevisto e l’insoddisfazione di Okuyama genera una serie di eventi che porteranno a una conclusione inevitabile. La scena che prelude al finale, che vede i due uomini farsi largo con fatica in mezzo ad una folla di persone senza volto, è di quelle che non si dimentica. Cosa significa?
Si tratta quindi di vero un film horror, a mio parere, anche se l’orrore è tutto psicologico. La maschera è molto importante nel teatro tradizionale giapponese ed è strettamente collegata all’evoluzione della letteratura e dell’arte in generale, oltre che un importante elemento coreografico e simbolico nelle danze che si svolgono durante le feste religiose popolari. Questo aspetto, secondo me, rende la visione del film particolarmente significativa.
Per certi versi accomunabile a “Occhi senza volto” (Les yeux sans visage) di Georges Franju, Face of Another riesce molto bene nel suo intento, che è quello di stimolare una riflessione su alcuni degli interrogativi più importanti per ogni essere umano, ovvero chi siamo, come costruiamo la nostra identità e qual è il confine tra l’essere e l’apparire.
Non solo, fino a che punto l’aspetto di una persona può influenzarne il carattere, e viceversa? “I've become a monster” dice Okuyama, che forse un mostro (dentro) lo è sempre stato. Se sì, il nostro aspetto può influenzare tutto il corso della nostra vita?
A un certo punto del film si suggerisce un’affinità tra il makeup femminile e la maschera di Okuyama. Tuttavia, come sua moglie acutamente gli fa notare: “Women don't hide the fact they use make-up.” Inoltre, personalmente non ho mai conosciuto una donna che senza trucco fosse completamente diversa, tanto da essere irriconoscibile, da com’è al naturale, come invece succede al buon Okuyama con i lineamenti presi in prestito da un altro - anche se sono certo che il trucco sia un toccasana per l’autostima femminile.
Oggigiorno, forse, sarebbe più d’attualità azzardare un paragone con il burqa, il famigerato velo islamico.
Per concludere, per chi volesse approfondire, qualche informazione “tecnica” sul film: “The Face of Another” è un film di Hiroshi Teshigahara basato sull’omonimo romanzo di Kōbō Abe. Universalmente lo si ritiene il terzo di una trilogia di film che include “Pitfall” e “The Woman in the Dunes” (film a loro volta tratti da romanzi di Kōbō Abe). Di tutti e tre i film, The Face of Another fu quello che ebbe meno successo. Curiosamente il regista decise di girare in bianco e nero anche se questo tipo di girato all’epoca stava cadendo in disuso. Il linguaggio è molto ricercato. Le scene che mostrano i due protagonisti all’interno dei bar sono particolarmente pregevoli: in alcuni fotogrammi Okuyama e Hira sono ripresi in primo piano mentre le persone sullo sfondo sono fuori fuoco, oppure ne si intravede la silhouette, ma le figure sono in nero; oppure ancora, mentre il dialogo tra i due procede, la telecamera fa un fermo immagine di altre persone.
Nel film è presente una sottotrama, totalmente indipendente da quella principale, che è un’invenzione del regista, ovvero non era presente nel racconto di Abe. La protagonista è una giovane e bella ragazza che ha il lato destro del viso sfigurato. La vicenda di questa ragazza, sebbene molto toccante, non aggiunge nulla alle tematiche del film.
Di Kobo Abe ho letto l'Uomo scatola, un uomo che decide di vivere con la testa in una scatola a cui ha praticato due fori per gli occhi; lui può osservare gli altri ma gli altri non possono vedere il suo volto. Potrà osservare molto ma diventerà "un non visto". Il problema dell'identità e dell'alienazione nel Giappone "contaminato" dal mondo occidentale ricorre spesso in Kobo Abe. Anche il romanzo la Donna di Sabbia affronta il tema della solitudine e dell'alienazione: la protagonista vive (come i suoi concittadini) in una città prigioniera della sabbia che sta facendo sprofondare la città (probabilmente Tokyo, diventata una città arida e di persone divise da deserto di sabbia).
RispondiEliminaDella "Donna di Sabbia" ho apprezzato molto il film (del libro non saprei). Ricordo i vani tentativi di fuga del protagonista da quella maledetta fossa scavata nella sabbia. E ricordo la graduale accettazione del suo destino. Si, è vero, il tema è la solitudine, l'alienazione e, aggiungo, l'incomunicabilità che contraddistigue la società moderna. Molto bello. Credo ci scriverò un post un giorno o l'altro.
EliminaIgnoravo invece "L'uomo scatola". Micidiale! Grazie per la dritta. Vado subito a cercarmelo in qualche libreria on-line....