Lo ammetto, ho approcciato questo film per un motivo decisamente infantile: il titolo. Un titolo che
associo, per mia forma mentis, all’omonimo album di Bruce Springsteen, sottovalutato capolavoro
folk registrato con il solo l’ausilio di armonica e chitarra acustica, e fondamentale, all’interno della
sua discografia, per il suo fare da spartiacque tra il “working class hero” che era lo Springsteen delle
origini e il rocker mainstream in cui egli si trasformò negli anni successivi.
Anche la promessa del
bianco e nero, con il quale è stato girato questo film, ha un collegamento con l’album,
quell’emozionante bianco e nero che il boss scelse per copertina del disco come ideale sfondo per
storie cupe, di dolore, morte e solitudine viste attraverso la lente delle piccole città rurali del
Midwest americano. Ecco, si tratta di uno dei rari casi in cui si può dire, senza timore di essere
smentiti, che un libro (un album, in questo caso, e, per estensione, un film) si può giudicare dalla
sua copertina: storie che ci portano nelle grandi pianure, verso una terra promessa che è sì lontana,
ma non pare così irraggiungibile. Sono storie di persone che hanno perso tutto, anche la propria
anima, persone tradite dalla natura illusoria del "sogno americano”, con qua e là lampi di speranza
che brillano come squarci tra le nuvole, per poi troppo spesso finire inghiottite da una pioggia
battente.
Alexander Payne, nulla a che fare con Springsteen, fa lo stesso: usa il bianco e nero e sceglie
paesaggi per ottenere lo stesso drammatico risultato, il sapore della vera America che vive e
sopravvive e che nulla ha a che fare con l’idea di America che ci siamo fatti oltre confine, quella
delle luci di New York e di Los Angeles, bugiarde vetrine di un occidente da tempo ormai
precipitato in fondo al baratro.
Alexander Payne, regista ormai stabilmente consegnato al mito grazie a commedie drammatiche di
grande spessore (“A proposito di Schmidt”, 2002, “Sideways”, 2004, “Paradiso amaro”, 2011),
sceglie un protagonista altrettanto di culto: Bruce Dern (“Marnie”, 1964, “Piano... piano, dolce
Carlotta”, 1964, “Tornando a casa”, 1978), che nell’occasione offre un'interpretazione degna di un
Oscar nei panni di un anziano fuori dal mondo e apparentemente impermeabile a qualsiasi cosa
succeda attorno a lui.
Il premio Oscar, al quale, per “Nebraska”, era stato giustamente candidato, alla fine non è arrivato,
ma anche questa è l’America, signore e signori, un paese che fatica a guardarsi dentro per non
rischiare di dover fare i conti con la propria anima nera. D’altra parte, come giustamente osservava
Nietzsche, “se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso scruterà dentro di te”: un concetto
drastico che lascia senza appigli in quella realtà preimpostata che oggi rappresenta l’unica certezza
di un paese morente.
Nei panni della moglie, June Squibb è invece assolutamente esilarante: si lamenta sempre
dell’anziano marito, minaccia di metterlo in una casa di riposo, ma non permette che nessuno si
approfitti di lui. I due figli rispecchiano i loro genitori: il primo, interpretato da Bob Odenkirk,
assente e poco comprensivo, il secondo, interpretato da Will Forte, più presente e premuroso. È
interessante notare, per inciso, come Will Forte, solitamente noto per dare il volto a personaggi
idioti in commedie ancora più idiote (vedi “La rivincita delle sfigate” o il sequel di “Un weekend da
bamboccioni”), sia riuscito a offrire una prova straordinaria in un film totalmente alieno ai suoi
standard.
Per quanto la sua
famiglia si sforzi di capire le sue motivazioni, e di distoglierlo da quella follia, Woody rimane fermo
nei suoi propositi. È un uomo semplice, e come tale fa semplicemente quello che vuole.
Per evitare il peggio, David si offre infine di accompagnarlo a Lincoln, in un viaggio “di
formazione” attraverso i desolati paesaggi in bianco e nero della pianura americana.
Woody è un
uomo di poche parole, chiuso nel suo mondo fatato, ma nonostante ciò, nel corso del viaggio, i due
riescono a trovare, forse per la prima volta, il modo di comunicare. David si rende lentamente conto
che la lettera ha dato a suo padre, un uomo tranquillo che sta semplicemente vivendo gli ultimi suoi
anni, uno scopo che la vita non gli ha mai dato, schiacciato tra le responsabilità di essere padre e un
matrimonio senza amore. Ancora più importante, David scopre che quel premio era anche un modo
per avere qualcosa da lasciare ai suoi figli dopo la sua morte; qualcosa per dimostrare loro che,
nonostante i suoi tanti difetti, egli si prendeva cura di coloro che amava. Ma anche qualcosa per
dimostrare a sé stesso che la sua vita valeva la pena di essere vissuta.
Quello che era iniziato come
un viaggio in cui David era convinto di poter convincere suo padre della dura realtà delle truffe
tramite posta, si rivela essere un viaggio in cui David ha imparato di più su suo padre di quanto
avrebbe mai potuto immaginare. La vera distanza, in estrema sintesi, non è quella fisica del viaggio
tra Billings e Lincoln, bensì quella tra i cuori di padre e figlio.
Nebraska esplora il processo di invecchiamento di un uomo, le sue speranze e le sue delusioni (il
premio alla fine era ovviamente una truffa), ma è anche, come accennato in precedenza, una
metafora degli Stati Uniti di oggi: confusi, traballanti, irritabili, che hanno conosciuto giorni
migliori ma che stanno lentamente scivolando verso il loro abisso nietzschiano, un’evoluzione non
richiesta né desiderata ma che travolge inesorabilmente tutti i suoi abitanti.
L’altro punto importante
sviluppato da Payne è il rapporto con le persone anziane, uomini e donne che non hanno più nulla
da chiedere alla vita se non che la propria famiglia li capisca, trascorra del tempo con loro e li
sostenga emotivamente. Quando le persone invecchiano diventano testarde ed è difficile affrontarle,
ma almeno in questo caso David, come figlio, ha eseguito perfettamente il suo compito. Nebraska è
un film che tutti dovrebbero guardare seduti su un divano accanto ai propri genitori, perché darà a
voi e a loro un motivo in più per pensare alla vita nel suo insieme, sui motivi per cui magari si litiga
e non si va d’accordo, e sulle ragioni per cui c'è sempre e comunque qualcosa che ci tiene uniti.
Capisco bene l'argomento del film anche per vita vissuta, per ora sono ancora un "David" ma non mi manca poi così tanto tempo per diventare un "Woody". Spero di non diventarlo del tutto, ma proprio la vita vissuta mi ha mostrato come cambiano le persone con la vecchiaia, come probabilmente sarò anche se non vorrei diventarlo.
RispondiEliminaDiventeremo, un giorno spero lontano, tutti dei Woody. Magari in forma non grave, ma di sicuro inizieremo ad essere testardi sulle piccole cose. E spero solo che ci sia qualcuno che me lo farà notare.
EliminaHai descritto alla perfezione un film che ho amato molto, una di quelle opere piccole fuori ma gigantesche dentro. Ad avercene di Nabraska in giro...
RispondiEliminaE, per quei paesaggi, mi viene quasi anche voglia di andarci in Nebraska, se solo avessi una vaga idea di quale angolo della mappa guardare. Ma poi mi dico che forse è meglio visitare quei luoghi attraverso il filtro cinematografico, perché temo che la realtà possa essere assai deludente.
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