lunedì 26 febbraio 2024

Rapporto sulla cecità (Pt.3)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Un ribaltamento della prospettiva pare averlo operato anche la letteratura moderna rispetto a quella classica, almeno a giudicare dagli esempi proposti qui sopra, anche se non ne so a sufficienza per poterlo dire con certezza; a ben vedere, comunque, a grandi linee parlano di cecità anche quei racconti distopici, come “1984” (“Nineteen Eighty-Four”, 1949) di George Orwell, che utilizzano il concetto dell’occhio invisibile per parlare della sorveglianza di massa, della repressione e della propaganda nei regimi totalitari, assurto poi a metafora di quanto esprime il potere nella società contemporanea, perché deputare una vista illimitata a un “Grande Fratello”, cioè all'élite come ingannevole surrogato della collettività, significa in fondo sottrarla al singolo, condannandolo a qualcosa di molto simile alla cecità. 
Del resto, Orwell prese ispirazione dal Panopticon, il carcere circolare ideato alla fine del ‘700 da Jeremy Bentham, e il nome Panopticon, letteralmente “l'occhio che tutto vede”, deve il suo nome ad Argo Panoptes (Ἄργος Πανόπτης”), una creatura della mitologia greca che aveva molti occhi sparsi sul corpo (secondo Ovidio, addirittura cento), grazie ai quali non doveva mai dormire... 
Anticamente, la cecità era in genere indice di sacralità, di un’anima non distratta dalle cose visibili, ma che attinge a una realtà sovrasensibile e la svela agli altri solo per tramite degli dèi: il cieco era spesso un profeta e un saggio (all’apparenza anche un folle, perché non a tutti è dato riconoscere la vera saggezza). Gli aedi, gli antichi cantori greci ispirati dalle Muse, erano ciechi: Omero stesso, “ὁ μὴ ὁρῶν, ho mḕ horṑn” o “colui che non vede” in una delle accezioni ipotizzate, era cieco. Ciechi sono anche alcuni personaggi della mitologia. Edipo, protagonista di numerose tragedie, al compiersi della profezia che lo vede uccidere suo padre e sposare sua madre, consapevole di quanto ha fatto si trafigge gli occhi e si acceca, perde cioè la vista quando vede la verità; l’indovino Tiresia (in Apollodoro, Ovidio e Stazio, ma anche Dante lo cita nel canto XX dell’Inferno) era cieco. Le Graie, o Forcidi, avevano invece un solo occhio e un solo dente in comune, che usavano a turno cosicché mentre una restava sveglia, le altre due potevano riposare. Anche il dio norreno Odino in una versione del mito aveva un occhio solo, avendo sacrificato l’altro in pegno al gigante Mímir in cambio dell’accesso alla fonte della conoscenza. Guardare non è vedere, ho scritto prima, ma vedere è credere. 

The Blind Oedipus Commending his Children to Gods - Bénigne Gagneraux - 1784 - Olio su tela
La Bibbia ha affrontato più volte il tema della guarigione dei non vedenti, come in Isaia 35, 5-6: “Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa.” Il tema è il superamento della cecità morale dell'umanità, grazie al quale l’uomo potrà vedere la grandezza di Dio e la sua misericordia. E così in seguito, nella parabola del cieco (Giovanni 9, 1-41), “la luce del mondo”, Gesù, guarisce un uomo cieco dalla nascita, o meglio, gli ordina di andarsi a lavare gli occhi. Eseguendo ciò che Gesù gli chiede, cioè fidandosi di lui, l’uomo effettivamente guarisce... ma poi è chiamato a raccontare, quasi a giustificare questa guarigione davanti ai Farisei, perché gli Ebrei credevano che ogni difetto fisico o disabilità fosse una prova della propria condizione di peccatore, e quando era congenita che fosse un’eredità delle colpe dei suoi antenati. Mentre il cieco ha riacquistato la vista, i “saggi” che lo interrogano paiono più ciechi, di fronte alla verità, di quanto lui non fosse in precedenza. 

Alla cecità morale che limita l’uomo si ispirò anche Pieter Bruegel il Vecchio. Nel dipinto a tempera “Parabola dei ciechi” del 1568, in un paesaggio fiammingo l’autore raffigura una fila di ciechi che guidano altri ciechi, alcuni hanno la bocca aperta, alcuni di questi, in cima alla fila stessa, sono già caduti a terra, mentre altri sono in procinto di cadere. La cecità di questi uomini è dipinta con crudo realismo, ognuno presenta i segni di una differente patologia, uno addirittura è privo dei bulbi oculari, ma la cosa più terrificante è che sono soli: la comunità (la chiesa) resta sullo sfondo, mentre essi sono lasciati in balìa di se stessi, senz’altra possibilità che di seguire chi li precede, in una potente quanto impietosa allegoria della stupidità umana. 
Potrà sembrare bizzarro, ma circa quattrocento anni dopo lo scrittore tedesco Gert Hoffman scrisse un racconto (“una genealogia teatrale del quadro”) per il raccontare il dipinto di Bruegel, ammiccando (come il pittore) al proverbio fiammingo "Quando un uomo cieco ne guida un altro, ambedue cadranno nella fossa". 

Parabola dei ciechi - Pieter Bruegel il Vecchio - 1568 - Tempera su tela
La parabola dei ciechi” (“Der Blindensturz”, 1985) è la storia di sei mendicanti ciechi e del loro viaggio per recarsi da Bruegel e posare come modelli per il suo quadro. I sei sono costretti ad affidarsi a una guida e a venire derisi in ogni singolo momento - dovendo mangiare, dormire, inciampare, cadere, soffrire, espletare i propri bisogni in pubblico - come fossero un corpo unico, perché nulla come la malattia rinchiude gli uomini in recinti, la malattia che non è che la demarcazione tra la dimensione umana e qualcosa che, nell’inconscio, diventa altro. La vista è – ovviamente - il senso più importante per un pittore, ma lo psicanalista e filosofo Sergio Benvenuto, riferendosi anche a Jacques Lacan, opera una distinzione tra “pittura della visione" e "pittura dello sguardo", ovvero tra una pittura che svela lo sguardo del pittore (lo “squarcio espressionista”) e una che lo cancella dal quadro; riflette su Munch e sul suo quadro che urla, su Cézanne che dilatava gli occhi e Modigliani che non li dipigeva, sui quadri perforati di Lucio Fontana, fino al Cubismo, che moltiplica i punti di vista decostruendo l'oggetto, fino a renderlo pura astrazione. È impressionante il numero di pittori noti affetti da problemi di vista poi sfociati nella cecità. C'è il caso di Claude Monet (1840-1926), che era affetto da cataratta. In vecchiaia, a causa della malattia divenne incapace di percepire i colori con la stessa intensità di prima, e fu costretto a smettere di dipingere. Il maestro impressionista fu però operato e a poco a poco recuperò l'uso dell'occhio destro, ma la sua pittura mutò notevolmente in relazione all’uso dei colori, per divenire infine sempre più astratta. Anche Edgar Degas (1834-1917) aveva un problema alla vista, una probabile retinopatia che degenerò in cecità. L’artista dovette rinunciare alla pittura e al disegno e si diede alla scultura, che poteva esercitare con il senso che ormai era diventato per lui prevalente, il tatto. Ma sono solo due esempi.

4 commenti:

  1. Amo le opere di Bruegel e questo è uno dei suoi quadri più inquietanti. In effetti talvolta certe società sembra siano guidati da ciechi mentali, per così dire, e finiscono nel baratro. Ogni riferimento alla società italiana di oggi è puramente casuale ma sfortunatamente ben percepibile...

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    1. Se il problema si limitasse alla società italiana sarebbe fantastico: per risolverlo basterebbe emigrare. E invece si tratta di un problema globale di cui noi, purtroppo, vediamo solo la superficie.

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  2. Meravigliosa panoramica dal classico al "moderno", dalla letteratura al teatro alla pittura. Non avevo mai notato la chiesa sullo sfondo di quel celebre quadro di Brueghel, davvero un forte simbolo di come noi ciechi siamo abbandonati e senza guida.
    In effetti capita più di quanto si pensi che artisti noti per un'arte subiscano un qualche problema di salute che gliela impedisca o comunque gliela renda difficile, e subito il pensiero va al contrappaso o a qualche precisa punizione divina. Nella mia passione per le "mani monche" ho scoperto che il fratello del celebre Wittgenstein era un celebre pianista che però ha perso la mano destra in guerra, così celebri compositori hanno scritto per lui partiture per mano sinistra! :-P

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    1. Che aneddoto curioso, io non avevo neanche idea che Wittgenstein avesse un fratello pianista... P.S.: Ci sarebbe da approfondire questa tua passione per le "mani monche"... o forse no. :-D

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