lunedì 4 marzo 2024

Dachra

Mi accingo alla visione di Dachra essenzialmente per un motivo: la sua provenienza. Mi intriga parecchio l’idea di accomodarmi sul divano, specialmente in una sera in cui, una volta tanto, non sono devastato dalla stanchezza, per assistere al primo horror tunisino della mia lunga carriera di appassionato del genere. Non ho alcuna idea di cosa mi attenda, anche se, in un angolo della mia testa, quell’assonanza con il titolo del celebre romanzo di Bram Stoker mi fa sospettare l’ennesimo adattamento della solita storia. Errore gravissimo, perché qui di vampiri non c’è alcuna traccia e quell’assonanza, scoprirò in seguito, è soltanto casuale. 
Meglio così, forse; anzi, sto per assistere a un horror che affonda le sue radici nel folclore più sconosciuto del paese nordafricano. Non sarebbe affatto male, rifletto, visto che ne so così poco di folclore che non sia europeo o, al limite, asiatico. 
Premo quindi il tasto play con tale grande speranza. È solo quella rapida scritta che appare sullo schermo dopo un minuto, e che mi consegna l’abusato slogan “basato su una storia vera”, che mi fa temere un secondo errore di valutazione. Due ore più tardi, mentre con un occhio già abbondantemente chiuso mi sollevo dal divano, mi sorprendo a ragionare su ciò a cui ho appena assistito. 
Che cos’era? Un paranormale che vira sulla stregoneria, un film a tema “psicopatico sadico” con elementi paranormali, oppure un cannibalico tout-court con elementi talmente incomprensibili che non mi resta che appellarmi al paranormale per trovare una risposta ai miei tanti dubbi? Più probabilmente, e lo dico adesso a qualche giorno dalla visione, ho assistito a qualcosa di grandioso, che non ho ancora digerito del tutto ma che si è perso in un minutaggio imperdonabilmente eccessivo. 
Visivamente il film si rivela subito piuttosto interessante, per merito di un direttore della fotografia, Hatem Nechi, che dimostra di essere più che disposto ad adottare una gustosa varietà di angolazioni insolite per le riprese, utilizzando al contempo colori molto desaturati per sottolineare la natura cruda e desolante della storia.  Per quanto riguarda i personaggi, il regista Abdelhamid Bouchnak, al suo primo (e finora unico) lungometraggio, sceglie un trio di elementi a dir poco odiosi, che prendono costantemente decisioni totalmente illogiche e, credetemi, mille volte più stupide di quelle che prendono solitamente i goffi protagonisti dei più pessimi slasher a stelle e strisce. Non sorprende quindi che il film si regga in gran parte sulle situazioni in cui il maldestro trio, nei modi più ingenui e inconcepibili, si va a cacciare. 

Ma spendiamo giusto due parole sulla trama. Yasmine è una studentessa di giornalismo che insieme a due compagni di studi, Walid e Bilel, decide di occuparsi, per un video documentario scolastico, del caso irrisolto di Mongia, una donna ritrovata a vagare nei boschi 25 anni prima a seguito di una violenta aggressione e ora rinchiusa in un ospedale psichiatrico. Nel corso delle indagini, dopo un inconcludente incontro con una vittima ormai completamente alienata, il dinamico trio decide di ripartire dal luogo del ritrovamento. Un sentiero li conduce a Dachra, un arcaico e isolato villaggio di campagna dove un uomo, che sostiene di essere il capo della comunità, li invita a trascorrere la notte presso di loro. 

È ovviamente l’inizio di un incubo; un incubo che i tre avrebbero benissimo potuto risparmiarsi, visto che sarebbe bastato guardarsi un attimo in giro, declinare l’invito e riprendere comodamente la strada del ritorno. Ma se così fosse stato, il film sarebbe finito e lo spettatore non avrebbe potuto “godersi” quell’ora e mezza in più di girato. Yasmine e i suoi due amici decidono invece di restare, senza curarsi troppo degli indizi che tutt’attorno evocano pensieri tutt’altro che rassicuranti come cannibalismo e stregoneria. 
Tacendo del numero spropositato di capre e caproni (che in un villaggio di campagna potrebbe non essere così inusuale), quello che colpisce maggiormente è la silenziosa attività delle donne che giorno e notte, senza alcuna interruzione, si destreggiano tra fumanti pentoloni pieni di chissà cosa e misteriosi brandelli di carne appesi dappertutto a essiccare. 
Quest’ultimo è, tra l’altro, l’aspetto più bizzarro e, lasciatemi dire, talmente esagerato dall’apparire quasi una parodia: non riesco infatti davvero a spiegarmi le ragioni di tale accanimento gastronomico; un’incessante catena di montaggio culinaria chiaramente non giustificata dal numero esiguo di “missionari” ivi tansitanti. 
Si fa naturalmente largo l’ipotesi dell’esistenza di un mostro cannibale, adorato e idolatrato dalla comunità, che necessiti di ripetuti sacrifici umani in suo onore, ma la cosa sta in piedi fino a un certo punto e certamente non giustifica il comportamento degli abitanti del villaggio. Ad ogni modo i tre decidono di restare, privi come sono del benché minimo istinto di sopravvivenza. 

Per oltre un’ora gli avvenimenti sembrano ripetersi all’infinito, in una successione infinita di azioni insensate e nella totale inosservanza del fatto che in quello stesso luogo, venticinque anni prima, una donna era riuscita miracolosamente a sopravvivere a qualcosa di terribile. 
È il momento in cui si presenta, per lo spettatore, l’inevitabile colpo di sonno. Il film sembra incastrarsi su sé stesso, e si ha l’impressione di assistere sempre alle stesse scene, montate e rimontate astutamente per allungare il brodo. Un piccolo indizio di tale espediente realizzativo è proprio il personaggio di Yasmine, che passa nello spazio di pochi secondi dall’essere una eroina coraggiosa a una ragazzina piagnucolosa e strillante. Particolare, quest’ultimo, che stride parecchio con l’ottima performance generale offerta da Yasmine Dimassi, che a Yasmine ha dato il volto, un’attrice celebre nel suo paese sia per la sua lunga carriera teatrale sia per il premio ottenuto al Festival del cinema tunisino nel 2019. 
Una mezz’oretta più tardi (ma sembrano trascorsi dei secoli) gli occhi dello spettatore si riaprono giusto in tempo per assistere a un epilogo tra i più scombinati della storia. Non starò qui ovviamente a raccontarvelo, ma vi basti sapere che risposte alle vostre domande non ne avrete. Otterrete al contrario una quantità esagerata di nuovi dubbi, che vi porterete a letto e sui quali trascorrete insonni tutta la notte. 
Vorrei potervi dire che le risposte erano tutte in quella mia mezz’oretta di torpore, e che solo io sono stato causa dei miei mali, ma ahimè, anche mia moglie, che ha sempre gli occhi bene aperti, e che ha assistito ininterrottamente a Dachra dallo stesso sofà, ha trascorso la notte successiva a interrogarsi sulle stesse questioni (beh, non proprio tutta la notte, in verità). Che altro dire? 

In tutta onestà non posso neanche affermare che Dachra sia stato un film poco originale, nel suo complesso. Anzi, ci sono moltissimi spunti che invogliano lo spettatore ad approfondire. Dachra non ha tentato di scimmiottare le solite produzioni horror americane e non è minimamente accostabile ai film cannibalici o stregoneschi a cui siamo stati abituati. C’è tanto di nuovo in Dachra, e non è solo una questione di lingua e di cultura. C’è un substrato di emozioni che ti viene sparato letteralmente in faccia e che anche oggi, a distanza di alcuni giorni, è difficile da focalizzare, qualcosa di poco individuabile e che probabilmente si perde nei meandri della nostra mancanza di familiarità con la realtà nordafricana; una realtà dove la maniera di affrontare argomenti di cui non si vuole parlare è evidentemente lontana anni luce dalla nostra. Una volta sgretolata la sua superficie, ciò che di primo acchito la nostra sensibilità fatica a decifrare, Dachra è un film che senza dubbio riesce a farsi largo nei nostri cuori. Ed è per questo che ne consiglio vivamente la visione.



2 commenti:

  1. Sarei intrigato da un horror proveniente da un paese così inedito nel nostro panorama filmico, ma le due ore "criptiche" mi inibiscono alquanto: per ora mi accontento della tua bella recensione e faccio come se il film l'avessi visto attraverso i tuoi occhi, anche quand'erano chiusi 😜

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    1. E se in quel tempo in cui io avevo tenuto gli occhi chiusi fossero successe cose meravigliose? Il dubbio rimane... ^_^

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