lunedì 25 marzo 2024

Rapporto sulla cecità (Pt.5)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Ma ora veniamo al cinema, visto che qualche citazione qua e là l’abbiamo già fatta. Va innanzitutto ricordata la trasposizione del capolavoro di Saramago: “Blindness - Cecità”, 2008, diretto da Fernando Meirelles. Il film è molto fedele al libro, e proprio per sottolineare l’universalità del tema trattato si svolge in un tempo e un luogo imprecisati. Il tema psicanalitico è invece alla base di “L'occhio che uccide” (“Peeping Tom”), 1960, ma non nel senso inteso da Freud: nel film di Michael Powell abbiamo un uomo a cui l’atto del guardare ricorda gli abusi subiti da bambino, quando il padre lo filmava in situazioni di stress e paura; come se la “vista” del padre avesse ucciso la sua innocenza, e la sua morale, l’uomo è ora un assassino che trasforma a sua volta il suo occhio (o meglio il suo surrogato, la cinepresa) in strumento di morte. Qui non si parla evidentemente di cecità in senso fisico, ma semmai di una sopraggiunta "cecità morale". "Musica nel buio" (1947) di Ingmar Bergman, “Minnesota Clay” (1964) di Sergio Corbucci e “La musica del silenzio” (2017) di Michael Radford (sulla vita del tenore Andrea Bocelli) sono esempi di film drammatici che hanno come tema la cecità, così come i due film tratti dal romanzo di Arpino menzionato di sfuggita nell’incipit della prima parte ("Profumo di donna", 1974, di Dino Risi e il suo remake, “Scent of a woman - Profumo di donna”, del 1992, di Martin Brest). 
Il tema della cecità vero e proprio sembra però essere stato sfruttato al cinema più che altro in ambito thriller o horror, in maniera più o meno centrale ai fini della trama: “Gli occhi della notte” di Terence Young (1967), “Testimone oculare” di Lamberto Bava (1989), “Malice – Il sospetto” di Harold Becker (1993), “Chiudi gli occhi - All I See Is You” di Marc Forster (2016), “Man in the Dark” di Fede Álvarez (“Don't Breathe”, 2016), il suo sequel “L'uomo nel buio - Man in the Dark” di Rodo Sayagues (“Don't Breathe 2”, 2021), e “Occhiali neri” di Dario Argento (2022), per citare i primi che mi vengono in mente. Tuttavia, sono altrettanti i film più genericamente legati al tema della vista in salsa paranormale (“Occhi di Laura Mars”, 1978, la saga hongkonghese di “The Eye” e il suo clone americano, o “Imago Mortis”, 2009, per esempio, che prende l'idea di base da "Quattro mosche di velluto grigio" del già citato Argento). 

Il film più malsano, però, arriva dal Giappone: “Blind Beast” (“盲獣”, “Mōjū”), 1969, di Yasuzo Masumura, basato sull’omonimo romanzo di Ranpo Edogawa del 1931. Aki, una bellissima modella, viene rapita da Michio, uno scultore cieco. L’uomo la segrega nel suo studio, una sorta di prigione dorata piena di sculture che raffigurano parti anatomiche umane (nasi, occhi, orecchie eccetera) e gigantesche figure di donna, con l’intento di farne la sua musa per realizzare la sua opera definitiva. Ma Aki, sorprendentemente, finisce per infatuarsi del suo rapitore; quando comincia a perdere la vista e i suoi altri sensi si acquiscono, le sensazioni tattili la sommergono e la aprono a nuove vette di estasi erotica. In un delirio sadomasochistico e quasi psichedelico, Aki smette i panni della vittima e consuma la sua bruciante passione con Michio alla pari finché non gli confessa che vuole andare oltre: non le basta più fare da ispirazione per la scultura di Michio, ma vuole divenire l’opera d’arte stessa. E così, prima di suicidarsi, in un memorabile bagno di sangue Michio la trasforma nel suo capolavoro. Il tema può apparire grottesco, oltre che perverso, ma va detto che le sculture, oltre che un godimento per gli occhi, per via della loro qualità “materica” sono davvero qualcosa che si può godere a pieno solo con il tatto. Il film non va confuso con “Blind Beast vs. Killer Dwarf” (“盲獣vs一寸法師”, “Mōjū tai Issunbōshi”), 2001, di Teruo Ishii, che è una sorta di mystery-horror abbastanza bizzarro, ma girato in economia di mezzi e comunque privo di quel guizzo di genio che rende indimenticabile il film di Masumura
I personaggi di Daredevil e Zatōichi sono invece entrambi prodotti multimediali, benché nati su carta. “Daredevil”, il fumetto americano dedicato al supereroe cieco della Marvel Comics, nato dalla collaborazione di Stan Lee con Bill Everett e Jack Kirby, venne pubblicato per la prima volta nel 1964: a Daredevil sono stati dedicati un omonimo film (di Mark Steven Johnson, 2003, dove Ben Affleck presta il faccione all’eroe) e due serie tv (“Daredevil”, 2015-2018, e “The Defenders”, 2017), ma il personaggio compare anche in numerosi altri fumetti, film e serie tv di quel crossover potenzialmente infinito che è l’universo Marvel. 

Zatōichi” (“座頭市” letteralmente "Ichi il cieco", ove ichi è la parola giapponese per “uno”) è il massaggiatore e samurai cieco armato di katana protagonista di "Zatoichi Monogatari", un romanzo dello scrittore giapponese Kan Shimozawa (1892-1968) pubblicato nel 1948 sulla rivista “Shōsetsu to Yomimono” e appartenente al filone del "chanbara", l’equivalente giapponese del genere Cappa e Spada. 
Zatōichi è anche il protagonista di un telefilm in quattro stagioni, andato in onda in Giappone dal 1974 al 1979 per un totale di 100 episodi, e di 28 film ufficiali prodotti tra il 1962 e 2010 – incluso quello che gli ha dato la fama mondiale, ovvero il lungometraggio del 2003 di Takeshi Kitano, da lui diretto e interpretato. Ci sarebbero poi da menzionare una serie di produzioni o coproduzioni taiwanesi degli anni ‘70 (una per tutte, "The Blind Swordsman's Revenge", “Mang jian xue di zi”, di Chung Hsun Tu, 1973), e le numerose rivisitazioni estere: "Blindman" (Ferdinando Baldi, Italia, 1971, che ha la particolarità di essere interpretata da Ringo Starr, ex batterista dei Beatles), "Furia cieca" (“Blind Fury”, Phillip Noyce, USA, 1989, con il mitico Rutger Hauer), "Giustizia Cieca" (“Blind Justice”, Richard Spence, USA, 1994), eccetera. 
Dal romanzo il personaggio è traslato al manga all’anime fino al videogame, in un successo che non accenna a scemare. Nelle serie tv la cecità è di norma un fatto funzionale alla trama, un espediente senza alcuna funzione metanarrativa: si pensi al personaggio di Mary Ingalls ne “La casa nella prateria", che diventa cieco dopo aver contratto la scarlattina, oppure alla Alison Parker di “Melrose Place”, che perde momentaneamente la vista nella quarta stagione. La serie “Blind Justice – Gli occhi della legge” ruota invece proprio attorno a un poliziotto rimasto cieco durante il servizio, con tutte le difficoltà del caso. In “Vikings”, a mia memoria, troviamo l’unico personaggio cieco con connotazione metafisica, ispirato al folclore: è il veggente, l’Oracolo di Kattegat. Il suo aspetto è piuttosto inquietante e il suo lascito non viene chiarito. Non ci sono invece personaggi ciechi ne “Il Trono di Spade”, ma quando Bran Stark ha le sue visioni come Corvo con Tre Occhi, i suoi occhi diventano bianchi, e la sua vista “normale” lascia il posto a una visione oltre il visibile, al di là dei confini del tempo e dello spazio. 

Nelle telenovelas la cecità assolve invece a una duplice funzione: è un handicap che affligge la protagonista o un altro personaggio e simboleggia la sua vulnerabilità, una condizione svantaggiata (di solito va di pari passo con la povertà, l’essere orfani o figli illegittimi, l’aver subito un tragico incidente ecc.) destinata a correggersi alla fine della storia con il suo riscatto personale e sociale, come per le protagoniste di “Topazio” e “Marta”, Natalia in “Anima persa” (dove si vira nel paranormale) o per il personaggio di Michelangelo in “Stellina”; oppure è un castigo divino che punisce i malvagi, come la cameriera Carmen (Lupe, in originale) in “Cuore selvaggio”. Solo nel secondo caso è una condizione permanente, proprio perché serve a espiazione perpetua; non dimentichiamo che le telenovelas sono di base racconti morali che propongono con minime variazioni gli stessi temi e le stesse situazioni e in cui (con alcune eccezioni, ovviamente) i buoni trionfano e i cattivi trovano sempre la loro giusta punizione. Guardando queste storie si mette da parte per un attimo il grigiore della quotidianità, ci si immedesima in persone che riescono a soddisfare i loro desideri e aspirazioni, ma si resta comunque all’interno del recinto costituito dalla famiglia e dalla società tradizionali, e in questo senso si comprende perché vengano definite da molti “l’oppio delle casalinghe”. La protagonista che alla fine agguanta la felicità non lo fa da cieca e orfana: il lieto fine prevede che venga operata e riacquisti la vista, che venga riconosciuta figlia legittima, eccetera, mentre gli antagonisti, se non muoiono, diventano ciechi/poveri e finiscono emarginati e soli. Così, le barriere sociali restano invariate, non c’è alcuna rottura dello status quo né alcuna minaccia all’ordine costituito. Come cantava Morandi, uno su mille ce la fa e a tutti gli altri non resta che sognare.

4 commenti:

  1. Inquietantissimo il film giapponese! E parecchio giapponese! :-D Scherzi a parte, mi piacerebbe vederlo.
    Nella sua voglia di divertirsi a giocare con il mito nazionale, Kitano oltre a dare capelli biondi al suo Ichi (vantando contaminazioni europee) a un certo punto si gioca la carta del "ma Ichi è davvero cieco o finge?". Al di là di questa decostruzione, il mito di Ichi ha tante versioni ma quella di Shintaro Katsu è la migliore: è così credibile nel ruolo di cieco che l'attore stesso sembra esserlo! (Infatti in un altro film che ho visto con lui sembra recitare da cieco, anche se il ruolo non lo prevede!)

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    1. Tra l'altro parte che la versione di Katsu abbia ispirato un personaggio di One Piece, anche se non saprei confermarlo perché non ho mai letto il manga e non ho mai visto neppure una puntata dell'anime...

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  2. "Zatoichi" vorrei proprio vederlo, quanto meno per scoprire sino a dove può spingersi l'inventiva di Kitano.

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    1. Ti consiglio di recuperarlo, allora. Se puoi recupera anche almeno uno dei film anni '60 o '70 su Zatoichi, ti assicuro che ne vale la pena.

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