Quando, un paio d’anni fa, vergai una specie di recensione per un improbabile B-movie intitolato “Non aprite quell’armadio”, conclusi dicendo, tra il serio e il faceto, che non mi sarebbe dispiaciuto un giorno
scrivere uno speciale sugli armadi “maledetti” nel cinema (e se non proprio maledetti, perlomeno con uno
sconfinamento nel fantastico). Ciò di cui parleremo oggi potrebbe a buon titolo rientrare in quello speciale,
visto che parliamo di armadietti, gli stessi che usiamo nelle scuole e nelle palestre e che talvolta troviamo,
per riporvi oggetti metallici, all’ingresso delle banche.
In Giappone sono evidentemente molto più diffusi
che dalle nostre parti ed ecco quindi la necessità di realizzare una trama orrorifica incentrata proprio su
quegli sgraziati contenitori metallici. Se fossero stati distribuiti sul mercato italico, quei film (parleremo oggi
anche del sequel) si sarebbero ritrovati appiccicati addosso titoli assurdi come “Non aprite
quell’armadietto” o “L’armadietto che uccide”, ma per fortuna la cosa non è accaduta e oggi possiamo
goderci, seppure con le difficoltà della lingua, titoli più incisivi come “The Locker” o evocativi come
l’originale “Shibuya Kaidan”. Si tratta di due film di durata contenuta (entrambi 71 minuti) lanciati sul
mercato contemporaneamente il 7 febbraio 2004 e proiettati nelle sale con la formula “double-bill” (due
film al prezzo di uno).
Il regista Kei Horie, generalmente noto per pellicole più “leggere” come l’imprescindibile “Forget Me Not”
(2015), utilizza lo stesso approccio “televisivo” già descritto in passato per esperimenti simili, come “Teke-Teke” (Kōji Shiraishi, 2009) e il primo “Ju-On” televisivo (Takashi Shimizu, 2000), ovvero quello di riciclare parte del
girato del primo film per confezionare col minimo sforzo un sequel, ma lo fa in maniera meno clamorosa,
tanto che la durata netta complessiva di “Shibuya Kaidan” (escluse quindi le scene riproposte) viaggia
attorno alle 2 ore, contro i 90 minuti scarsi di “Teke-Teke” e “Ju-On”.
Il soggetto che si trova alla base di “Shibuya Kaidan” nasce, tanto per cambiare, da una celebre leggenda
metropolitana giapponese. La vicenda viene presentata in maniera piuttosto confusa, e questo aspetto
all’inizio mi ha disorientato, facendomi storcere il labbro in più di un’occasione, ma a proiezione conclusa
ho realizzato che Kei Horie si è comportato in maniera particolarmente geniale, proponendo una leggenda
urbana esattamente come dovrebbe essere, ovvero senza punti di riferimento solidi. Mi spiego meglio.
Se in film decisamente più celebrati, come la saga di Ring, è sempre ben chiaro il rapporto tra causa ed
effetto (si guarda la videocassetta e dopo 7 giorni si muore), qui nessuno sembra aver ben chiaro il
meccanismo. In altre parole, così come una leggenda metropolitana viene proposta in mille versioni
differenti, anche nel film i vari personaggi conoscono (o credono di conoscere) le conseguenze
dell’interagire con un particolare armadietto posto in un sottoscala presso la stazione di Shibuya, a Tokyo.
C’è chi crede, per esempio, che confessare il proprio amore al partner di fronte a tale armadietto garantisca
un esito positivo; c’è chi crede che per conquistare la persona amata sia necessario posizionare un dono
nell’armadietto, quindi consegnare la chiave all’interessato; c’è invece chi crede che basti aprire
l’armadietto e toccarne le pareti interne per assorbirne le vibrazioni positive. Viceversa, c’è anche chi crede
che utilizzare quel particolare armadietto sia un mortale veicolo di sfighe.
In buona sostanza, tutti sono
concordi nell’affermare che l’oggetto abbia dei poteri sovrannaturali, ma non c’è alcuna sovrapponibilità di
idee su quali essi siano.
La realtà, almeno quella descritta nei due film, è che l’armadietto è in grado di
scatenare lo spirito vendicativo di una bambina (ovviamente dai lunghi capelli neri) nei confronti non solo
di chi interagisce con esso in prima persona, ma anche di chi si trova accidentalmente nei paraggi. Si tratta
di un meccanismo in perfetto stile J-horror, quindi, con il supplemento che la vittima trova il modo di
passare post-mortem la chiave dell’armadietto a un altro sventurato, in una spirale senza fine.
Si scoprirà comunque ben presto che lo spirito della bambina appartiene a una neonata abbandonata
nell’armadietto dalla madre subito dopo il parto. E qui si deve per forza aprire una lunga parentesi sul
significato dei cosiddetti “Coin-Operated-Locker Babies”, concetto purtroppo ben radicato nella cultura
locale, al punto dall’aver inspirato un romanzo dello scrittore e regista Ryu Murakami, da noi noto
soprattutto per “Tokyo Decadence”.
Come si legge in un articolo pubblicato nel 1995 sul periodico “Child Abuse and Neglet” (Volume 19, Issue 1,
Pages: 25-31), il fenomeno dei “Coin Locker Babies” è un reato praticamente esclusivo del Giappone; il
termine, come detto, si riferisce a neonati indesiderati che vengono collocati, vivi o morti, in armadietti a
gettoni sin dagli anni Settanta del secolo scorso, in reazione al boom demografico che, all’epoca, divenne
rapidamente un serio problema economico e sociale.
Gli armadietti in questione, diversi da quelli con cui
noi abbiamo a che fare abitualmente, funzionano “a gettone”: in due parole, si inserisce una moneta, si
estrae la chiave e ciò che vi è stato posto all’interno può giacere indisturbato per un periodo di tempo
infinito. La scelta di tale soluzione da parte di una madre disperata deriva dal fatto che il neonato viene
solitamente ritrovato mesi dopo la morte, quando l’odore della decomposizione inizia a farsi notare.
Secondo la legge giapponese, infatti, per l’abbandono di un bambino la madre viene accusata di omicidio e
abbandono di cadavere, ma se non si riesce ad escludere la possibilità che il bambino sia nato morto (e se il
corpo è decomposto c’è poco su cui indagare), la madre viene accusata solo di abbandono. Ecco perché le
madri, piuttosto che dover affrontare, in caso di identificazione, un’accusa di omicidio, preferiscono lasciar
marcire i neonati in posti sicuri.
Tra il 1980 e il 1990 sono stati segnalati 191 casi di neonati morti in
armadietti a gettone, un numero che rappresenta circa il 6% di tutti gli infanticidi avvenuti nel periodo.
Nonostante le misure messe in atto per contrastare questo tipo di reato (una tra tutte, spostare gli
armadietti in zone più affollate), e nonostante il proliferare delle telecamere di sorveglianza, ancora oggi i
casi, sebbene in misura ridotta, continuano a presentarsi, vuoi per difficoltà finanziarie (nella realtà della
società contemporanea giapponese è ancora difficile per una donna sola mantenere un figlio), vuoi per una
questione sociale (il tabù dell'aborto e delle gravidanze indesiderate è ancora molto radicato in una società
che, per contro, ha il culto del piacere, e nella quale esiste una quasi totale assenza di tabù in ambito
sessuale).
Le cronache ci dicono che l’ultimo caso noto risale solo alla scorsa estate ed è avvenuto nei pressi
della stazione di Chitose, nell’Hokkaido: una ragazza di 22 anni, Ayano Koseki, senza fissa dimora né
occupazione, è stata arrestata, sulla base dei filmati provenienti dalle telecamere di sicurezza, per aver
abbandonato il mese precedente un bambino in uno degli armadietti. Attraverso l'autopsia, la polizia ha
accertato che il bambino era un maschio, ma come al solito non è riuscita a chiarire se fosse morto prima o
dopo la nascita.
Non è mia intenzione discutere in questa sede se sia più terribile l’aborto oppure l’uccisione di un bambino
già nato, perché si tratta di una questione che ognuno dovrebbe dirimere con la propria coscienza. Vorrei
però far notare che la maggior parte degli antropologi concordano sul fatto che, in età paleolitica, il 50% dei
decessi in età infantile era probabilmente dovuta a infanticidio, incluse sia le uccisioni dirette che il risultato
dell’incuria voluta e prolungata, perché, benché esistessero numerose tecniche chimiche o meccaniche per
provocare l’aborto, questo provocava sempre un certo grado di rischio per la vita della donna e quindi non
era spesso la scelta preferibile. Ogni gruppo sociale aveva la necessità di mantenere un controllo costante
delle nascite, e uno dei modi per ottenerlo era proprio l’infanticidio. Forse il Giappone, vissuto
nell’isolamento e in aderenza a tradizioni arcaiche molto più a lungo di altri luoghi oggi simbolo di
progresso, ha mantenuto in sé i germi di quell’antichissima consuetudine, riproponendola poi in una veste
moderna, benché altrettanto raccapricciante.
Ma il discorso è lungo e complesso, perciò direi di tornare al film, altrimenti qui si parla di tutto tranne che
di quello.
Siamo ovviamente di fronte all’ennesimo clone dei classici J-horror (Ringu, Ju-On, Dark Water)
basato su una leggenda che funge da stratagemma per scatenare fantasmi vendicativi dotati di tutte le
caratteristiche tipiche del genere, dai lunghi capelli corvini all’andatura disarticolata. Si arriva anche al
punto di rubare a Ringu la celeberrima inquadratura dell’occhio tra i capelli. “Sostituisci l’armadietto con
uno schermo televisivo e i due film diventano indistinguibili”, direbbe subito uno dei tanti feroci detrattori,
ma non è affatto così: la tensione è ben dosata, i momenti di terrore, anche; le atmosfere hanno quel
giusto grado di decadenza da apparire decisamente realistiche; le location scelte sono inquietanti, la
recitazione, specialmente nel sequel, è efficace, e tutto, fatti salvi alcuni elementi, gioca a favore; gli effetti
speciali sono ben riusciti e la colonna sonora è quella giusta (una melodia ripetitiva, inframmezzata dai
pianti di un bambino, che finisce per entrarti in testa).
Il regista Kei Horie, tra l’altro, è molto abile nel disseminare falsi indizi che distolgono l’attenzione dello
spettatore dalle vere cause della maledizione in corso. E questo è vero sin dalla prima scena, che vede sei
ragazzi una sera al campeggio che si raccontano storie di fantasmi attorno al fuoco, come nel più classico
degli slasher: uno di questi ha la bella trovata di decapitare la statua di un Buddha, messa lì per contrastare
gli spiriti inquieti dei feti abortiti, ed ecco che iniziano le manifestazioni sovrannaturali. Per mezzo film lo
spettatore ritiene possa essere quella la causa di tutto, e prega affinché la statua venga ricomposta alla
svelta, ma non può nemmeno immaginare che l’armadietto dove una delle ragazze aveva lasciato i libri di
scuola potesse avere un qualche ruolo. È quindi un film che consiglio vivamente ai fan del J-horror.
C'è
anche un sottotesto sulla solitudine, ma sfortunatamente non solo non viene sviluppato, ma viene del tutto
abbandonato nel sequel, dove la ragazzina sfigata del primo film si erge a ruolo di protagonista.
E a proposito di leggende metropolitane, nel primo capitolo di "The Locker" c’è anche una fantastica citazione di
una delle più diffuse leggende giapponesi (sconosciuta, ahimè al di fuori del paese), che pare abbia avuto
origine nella città di Tsukuba, nella prefettura di Ibaraki. Si tratta della storia nota come “La ragazza che
guarda le stelle” o “La ragazza che fissa Orione”: una notte, un uomo si attarda a contemplare il bellissimo
cielo stellato dalla finestra del suo appartamento quando, improvvisamente, nota dietro una delle finestre
del palazzo di fronte una figura femminile con lo sguardo rivolto verso lo stesso cielo stellato. Nelle notti
successive lo strano incontro si ripete, e ogni volta che l’uomo si affaccia la donna è sempre lì con gli occhi
fissi sul cielo notturno. Giorno dopo giorno, l’uomo inizia ad apprezzare quella piccola avventura e arriva al
punto di decidere di incontrarla. Una sera esce di casa, attraversa la strada e, dopo aver identificato
l’appartamento della dirimpettaia, si avvicina alla porta e, aprendola, si trova di fronte un corpo impiccato, appeso proprio di fronte alla finestra, la testa leggermente sollevata in modo da dare l’impressione di
guardare al cielo.
Esiste una variante in cui l’uomo invece cammina per strada e percepisce lo sguardo di
una donna che lo guarda dall'alto in basso da dietro una finestra (il finale è lo stesso); questa variante, che è
poi quella utilizzata nel film, è oggettivamente più realistica in quanto, come noto, un corpo impiccato non
guarda in alto ma, proprio per via della pressione esercitata dal nodo scorsoio sul collo, tende a presentarsi
con il capo chinato in avanti.
Come vedete, la carne al fuoco è davvero tanta ed è veramente un peccato che “Shibuya Kaidan” sia del
tutto sconosciuto nel nostro paese. È anche vero, tuttavia, che per coglierne tutte le sfumature (io stesso
non ne ho colto che una minima parte) occorre appartenere a una cultura che noi occidentali conosciamo
soltanto marginalmente.
Poco prima dell’uscita del film, il 12 gennaio 2004, è stato pubblicato il romanzo originale "Shibuya Kaidan"
e il suo seguito “Satchan Zoku: Shibuya Kaidan”, che contiene episodi che non hanno trovato posto nel film.
Questi ultimi sarebbero tuttavia stati utilizzati in seguito nelle mini-serie “Shibuya Kaidan Sacchan no Toshi
Densetsu” (Shibuya Kaidan: Sacchan's Urban Legend, 2004), e “Shibuya kaidan: The riaru toshi densetsu”
(Shibuya Kaidan: The Real Urban Legend, 2006). Tali mini-serie, realizzate per il web e ivi distribuite, si
compongono di brevi episodi della durata media di dieci minuti che si preoccupano di sviluppare situazioni
lasciate in sospeso e personaggi secondari visti nei due film. Niente di davvero imperdibile, ma sicuramente
un piccolo omaggio per i fan di “Shibuya Kaidan”.
Il presente articolo è parte di un vasto progetto che ho voluto chiamare Hyakumonogatari Kaidankai (A Gathering of One Hundred Supernatural Tales) in onore di un vecchio gioco popolare risalente al Giappone del periodo Edo (1603-1868) e, di tale progetto, esso rappresenta la parte 57 in un totale di 100.
Se volete saperne di più vi invito innanzitutto a leggere l'articolo introduttivo e a visitare la pagina statica dedicata, nella quale potrete trovare l'elenco completo degli articoli sinora pubblicati. Buona lettura! P.S.: Possiamo spegnere la 57° candela...
L'infanticidio nelle campagne giapponesi era la norma sino al XIX secolo. Le condizioni di vita erano ardue e si basavano esclusivamente sul raccolto, di cui dovevano però garantire una quota fissa al feudatario locale. Se per i contadini avanzava poco o nulla erano cavoli loro, per i samurai la vita di un contadino contava meno di quella del loro cavallo. E dunque una bocca in più da sfamare, soprattutto se nasceva una femmina anziché un maschio, poteva essere un problema e andava "risolto".
RispondiEliminaLeggende sugli "armadi maledetti" esistono praticamente in tutte le scuole, come cliché appare anche in alcuni anime, persino (in modo scherzoso) nel mitico Uruseyatsura (Lamù).
Esistono sicuramente molti più armadi maledetti di quanto non si creda, e non faccio fatica a credere che in ogni scuola, non solo giapponese, ci sia qualcosa di cui si tiene alla larga per simili motivi.
EliminaLamù la conosco di fama ma non me ne sono mai avvicinato.
Molto interessante anche se simile a The Ring... peccato non si trovi in streaming (almeno credo). E il DVD su Amazon costa parecchio...
RispondiEliminaQuasi tutto ormai è simile a The Ring. Ho visto decine di horror, non solo asiatici, dove in un modo o nell'altro viene inserita una creatura snodata che avanza a scatti...
EliminaDubito che si possa mai trovare in streaming. Cose come questa sono talmente di nicchia che occorre arrangiarsi in tutt'altro modo.