venerdì 13 giugno 2025

Cinema, metacinema, miniature e manie di controllo (Pt.1)

Il metacinema, ovvero il cinema che parla di se stesso, che si svela o si cita, sia nella struttura operativa che nel linguaggio e negli intenti, è probabilmente un fenomeno vecchio quanto il cinema stesso. Non ho dati oggettivi, ma quantomeno non ho dubbi che non sia cosa recente, se è vero che uno dei primi esempi risale a detta di molti addirittura agli anni ‘50 (proprio del 1950 è infatti “Viale del tramonto”, il film in cui Billy Wilder fa recitare Gloria Swanson nella parte di una diva, appunto, sul viale del tramonto, ovvero nella parte di se stessa; operazione ripresa – tra l’altro – dalla regista Coralie Fargeat in “The Substance”, del 2024). 
È un tipo di narrazione che si contrappone a quella classica, diegetica, in cui lo spettatore viene cullato nella finzione filmica, senza vedere l’artificio che rende possibile il prodigio e senza la necessità, in realtà, di doversi sforzare in alcun modo per capire quanto viene messo in scena, perché i personaggi agiscono in modo lineare seguendo pattern ben consolidati che li portano all’inevitabile conclusione della storia, lieta o tragica che sia. 
Il meta-film, invece, vuole che lo spettatore sia sempre ben conscio della presenza della macchina da presa dietro l’impalpabile barriera dello schermo. Vuole che interpreti quello che vede, che lo ricostruisca perfino (nel caso ci siano piani temporali diversi, innescati da flash-back o flash-forward, o quando il montaggio non è lineare); soprattutto, vuole che egli si domandi costantemente il come e il perché di quello che vede, se il messaggio che ha tratto dal film sia l’unico possibile significato o ce ne siano degli altri e, in qualche caso, che si interroghi sul ruolo del cinema stesso - anche filosofico ed etico - e sul potere del cinema. Non è un caso che a volte il protagonista del film sia un alter ego dello stesso regista, che attraverso di lui mette in scena le sue paure, manie e ossessioni, o semplicemente i suoi ricordi e il suo vissuto, in una sorta di auto-analisi (o meglio, psico-analisi) pubblica, spietata e sincera (si veda il Fellini di “8 1⁄2”). 

La rosa purpurea del Cairo (Woody Allen, 1985)
Nel metacinema abbiamo film nei film, ovvero film che contengono altri film (per esempio “La rosa purpurea del Cairo” di Woody Allen, 1985); film che mostrano le fasi di lavorazione di un film (alcuni esempi sono “Sotto gli ulivi” di Abbas Kiarostami, 1994, “La donna del tenente francese” di Karel Reisz, 1981 o “All that jazz – Lo spettacolo comincia” di Bob Fosse, 1979); citazioni di film all’interno di altri film, comprensibili a tutti o destinate solo ai cinefili più incalliti (tutta l’opera di Quentin Tarantino è costruita così: l’autore cita sovente anche se stesso, ma fa anche riferimento al cinema come mezzo, e come mezzo che può anche non avere altro scopo che intrattenere, come il suo amore per i b-movie testimonia ampiamente); o ancora, rimandi metacinematografici più sottili (come in Haneke o Kubrick) o casi di meta-film che dialogano apertamente con lo spettatore (Orson Welles); film sofisticati e multistrato, semplici o complessi da decifrare (con Resnais o Lynch, o il già citato Fellini), e altri che sembrano, e probabilmente sono, poco più che dei divertissement (“Zombie contro zombie - One Cut of the Dead” di Shin'ichirō Ueda, 2017). 
E poi ci sono i film che più di tutti, forse, rendono questo “gioco” manifesto: i mockumentary (ancora Woody Allen con "Zelig", 1983), che hanno avuto ampio utilizzo – e successo di pubblico - soprattutto nell’ambito dell’horror, a partire da quel fenomeno che fu, nel 1999, “The Blair Witch Project” di Eduardo Sánchez e Daniel Myrick

Zelig (Woody Allen, 1983)
Senza entrare troppo nel merito, che non è lo scopo di questo post, è proprio all’horror che ci rivolgiamo oggi, perché un piccolo trucco metacinematografico che forse sfugge ai più è l’uso di motivi ricorrenti all’interno di questo genere, qualche volta nulla più che oggetti o elementi della scenografia che hanno un certo significato simbolico, il quale a sua volta si intreccia a più livelli con la trama del film. Uno di questi è la presenza, all’interno di un film horror, di un plastico, ovvero di un modello in scala che riproduce uno o più edifici, oppure di una maquette, termine francese che indica la riproduzione in formato ridotto di praticamente qualsiasi cosa – nel nostro caso, da singole case complete di arredo e suppellettili a un’intera area urbana completa dei suoi minuscoli abitanti, insegne, segnali stradali e quant’altro. 
Trovo questo espediente estremamente interessante perché, come tutti sanno, uno dei trucchi ricorrenti in cinematografia consiste nell’utilizzare dei modellini di ambienti in miniatura che sullo schermo appariranno di proporzioni normali e in cui vedremo muoversi gli attori in carne e ossa (si pensi per esempio a "Titanic" di James Cameron o a "Blade Runner 2049" di Dennis Villeneuve); portare un modellino davanti all’occhio della telecamera come elemento della scena, e come elemento portante, per giunta, è come svelare il trucco, giocando con la psiche dello spettatore. 
Ma un modello non ha necessariamente uno scopo espositivo: può infatti avere uno scopo ludico, oppure informativo/didattico. E così, il killer di un tipico film horror (non il killer compulsivo, ma il maniaco che programma i suoi omicidi) potrebbe averne uno per manifestare la sua mania di controllo, o la sua volontà di uccidere, il suo campo d’azione o i suoi stessi crimini; e usandolo otterrebbe anche lo scopo di prendersi gioco delle persone che lo circondano, e insieme dello spettatore, sfidandole a cogliere gli indizi dei suoi crimini che non solo non ha occultato, ma ha provveduto a piazzare in bella mostra sotto i loro occhi. 
D’altra parte, un modellino potrebbe limitarsi a simboleggiare una comunità o un nucleo familiare, oppure essere usato per prefigurare qualche snodo della trama del film o la sua naturale conclusione. Quelli che menzionerò di seguito (anzi, nella seconda parte, visto che mi sono dilungato già troppo in questa "introduzione") sono quattro lungometraggi horror recenti in cui compare un modello in scala che ha un preciso significato narrativo e psicologico - oltre che fungere da elemento decorativo, anche se con intensità variabili. 

Shining (Stanley Kubrick, 1980)
Ma prima di procedere, lasciatemi citare il capostipite, ovvero il film horror dove per primo, a mia memoria, viene usato un elemento del genere: “Shining”, l’adattamento datato 1980 di Stanley Kubrick dell’omonimo romanzo di Stephen King
Jack Torrance e famiglia si sono stabiliti da qualche settimana all’Overlook Hotel quando Wendy esplora la proprietà con il figlioletto Danny. Quando i due chiacchierando si inoltrano nel labirinto di siepi, la telecamera indugia per un momento sulla mappa posta all’inizio del labirinto; la scena si sposta poi all’interno dell’hotel, dove Jack osserva il plastico del labirinto: la ripresa dall’alto della telecamera passa dal plastico al vero labirinto, dove madre e figlio stanno ancora passeggiando. 
In retrospettiva, soprattutto, considerato il significato che quel luogo specifico, il labirinto, avrà per Jack – il quale, ricordiamo, vi troverà la morte – non possiamo far altro che apprezzare il modo in cui il regista ha sfruttato un virtuosismo registico per anticipare l’epilogo della storia. Un originale tocco di genio, non c’è dubbio. Perché il plastico, nel romanzo di King, non c’è. E non potrebbe esserci, perché una scena del genere, che funziona benissimo a livello visivo, sarebbe impossibile da scrivere, e se venisse scritta prederebbe molta della sua potenza. O meglio, un plastico nel romanzo compare, in effetti, ma è di un tipo del tutto diverso: 
«Stava per tornare sui suoi passi, ma poi un impulso imprecisato gli fece cambiare idea, e prese a scendere verso il campo giochi. [...] Andò per prima cosa alla casa delle bambole, il perfetto modellino in miniatura dell’Overlook. Gli arrivava poco più su della vita. Più o meno l’altezza di Danny quando era ritto in piedi. Jack si ingobbì a sbirciare dentro le finestre del terzo piano. [...] La casa si poteva aprire dividendola in due. Tutto qui. Si apriva su un cardine nascosto. L’interno era una delusione: le pareti erano dipinte, ma per il resto appariva più o meno vuota. Naturalmente era così che doveva essere, si disse Jack, altrimenti come avrebbero fatto i bambini a entrarci? I mobili in miniatura, che certo dovevano arredare la casetta d’estate, erano spariti, con tutta probabilità messi al riparo nel capanno degli attrezzi. Chiuse la casetta e udì il lieve scatto della serratura che tornava al suo posto.» (*) 
Parafrasando King, è “tutto qui”. La presenza del plastico si esaurisce in queste poche righe e il finale di King, come sa bene chi ha letto il romanzo, è parecchio differente. 
Per oggi ci fermiamo qui. Ci ritroviamo tra qualche giorno e, come detto, affronteremo quattro film piuttosto recenti nei quali l'ambiente in miniatura ha un ruolo predominante. Riuscite già a immaginare quali siano?
CONTINUA

* “Shining”, II edizione “Tascabili Bompiani” giugno 1985, terza parte, cap. 23, p. 209

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