Il metacinema, ovvero il cinema che parla di se stesso, che si svela o si cita, sia nella struttura operativa
che nel linguaggio e negli intenti, è probabilmente un fenomeno vecchio quanto il cinema stesso. Non ho
dati oggettivi, ma quantomeno non ho dubbi che non sia cosa recente, se è vero che uno dei primi esempi
risale a detta di molti addirittura agli anni ‘50 (proprio del 1950 è infatti “Viale del tramonto”, il film in
cui Billy Wilder fa recitare Gloria Swanson nella parte di una diva, appunto, sul viale del tramonto,
ovvero nella parte di se stessa; operazione ripresa – tra l’altro – dalla regista Coralie Fargeat in “The
Substance”, del 2024).
È un tipo di narrazione che si contrappone a quella classica, diegetica, in cui lo
spettatore viene cullato nella finzione filmica, senza vedere l’artificio che rende possibile il prodigio e
senza la necessità, in realtà, di doversi sforzare in alcun modo per capire quanto viene messo in scena,
perché i personaggi agiscono in modo lineare seguendo pattern ben consolidati che li portano
all’inevitabile conclusione della storia, lieta o tragica che sia.
Il meta-film, invece, vuole che lo spettatore sia sempre ben conscio della presenza della macchina da
presa dietro l’impalpabile barriera dello schermo. Vuole che interpreti quello che vede, che lo ricostruisca
perfino (nel caso ci siano piani temporali diversi, innescati da flash-back o flash-forward, o quando il
montaggio non è lineare); soprattutto, vuole che egli si domandi costantemente il come e il perché di
quello che vede, se il messaggio che ha tratto dal film sia l’unico possibile significato o ce ne siano degli
altri e, in qualche caso, che si interroghi sul ruolo del cinema stesso - anche filosofico ed etico - e sul
potere del cinema. Non è un caso che a volte il protagonista del film sia un alter ego dello stesso regista,
che attraverso di lui mette in scena le sue paure, manie e ossessioni, o semplicemente i suoi ricordi e il suo
vissuto, in una sorta di auto-analisi (o meglio, psico-analisi) pubblica, spietata e sincera (si veda il Fellini
di “8 1⁄2”).
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La rosa purpurea del Cairo (Woody Allen, 1985) |
E poi ci sono i film che più di tutti, forse, rendono questo “gioco”
manifesto: i mockumentary (ancora Woody Allen con "Zelig", 1983), che hanno avuto ampio utilizzo – e
successo di pubblico - soprattutto nell’ambito dell’horror, a partire da quel fenomeno che fu, nel 1999,
“The Blair Witch Project” di Eduardo Sánchez e Daniel Myrick.
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Zelig (Woody Allen, 1983) |
Trovo questo
espediente estremamente interessante perché, come tutti sanno, uno dei trucchi ricorrenti in
cinematografia consiste nell’utilizzare dei modellini di ambienti in miniatura che sullo schermo
appariranno di proporzioni normali e in cui vedremo muoversi gli attori in carne e ossa (si pensi per esempio a "Titanic" di James Cameron o a "Blade Runner 2049" di Dennis Villeneuve); portare un
modellino davanti all’occhio della telecamera come elemento della scena, e come elemento portante, per
giunta, è come svelare il trucco, giocando con la psiche dello spettatore.
Ma un modello non ha
necessariamente uno scopo espositivo: può infatti avere uno scopo ludico, oppure informativo/didattico. E
così, il killer di un tipico film horror (non il killer compulsivo, ma il maniaco che programma i suoi
omicidi) potrebbe averne uno per manifestare la sua mania di controllo, o la sua volontà di uccidere, il suo
campo d’azione o i suoi stessi crimini; e usandolo otterrebbe anche lo scopo di prendersi gioco delle
persone che lo circondano, e insieme dello spettatore, sfidandole a cogliere gli indizi dei suoi crimini che
non solo non ha occultato, ma ha provveduto a piazzare in bella mostra sotto i loro occhi.
D’altra parte, un modellino potrebbe limitarsi a simboleggiare una comunità o un nucleo familiare, oppure
essere usato per prefigurare qualche snodo della trama del film o la sua naturale conclusione. Quelli che
menzionerò di seguito (anzi, nella seconda parte, visto che mi sono dilungato già troppo in questa "introduzione") sono quattro lungometraggi horror recenti in cui
compare un modello in scala che ha un preciso significato narrativo e psicologico - oltre che fungere da
elemento decorativo, anche se con intensità variabili.
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Shining (Stanley Kubrick, 1980) |
Jack Torrance e famiglia si sono stabiliti da qualche settimana all’Overlook
Hotel quando Wendy esplora la proprietà con il figlioletto Danny. Quando i due chiacchierando si
inoltrano nel labirinto di siepi, la telecamera indugia per un momento sulla mappa posta all’inizio del
labirinto; la scena si sposta poi all’interno dell’hotel, dove Jack osserva il plastico del labirinto: la ripresa
dall’alto della telecamera passa dal plastico al vero labirinto, dove madre e figlio stanno ancora
passeggiando.
In retrospettiva, soprattutto, considerato il significato che quel luogo specifico, il labirinto,
avrà per Jack – il quale, ricordiamo, vi troverà la morte – non possiamo far altro che apprezzare il modo in
cui il regista ha sfruttato un virtuosismo registico per anticipare l’epilogo della storia. Un originale tocco
di genio, non c’è dubbio. Perché il plastico, nel romanzo di King, non c’è. E non potrebbe esserci, perché
una scena del genere, che funziona benissimo a livello visivo, sarebbe impossibile da scrivere, e se
venisse scritta prederebbe molta della sua potenza. O meglio, un plastico nel romanzo compare, in effetti, ma è di un tipo del tutto diverso:
«Stava per tornare sui suoi passi, ma poi un impulso imprecisato gli fece cambiare idea, e prese a scendere verso il campo giochi. [...] Andò per prima cosa alla casa delle bambole, il perfetto modellino in miniatura dell’Overlook. Gli arrivava poco più su della vita. Più o meno l’altezza di Danny quando era ritto in piedi. Jack si ingobbì a sbirciare dentro le finestre del terzo piano. [...] La casa si poteva aprire dividendola in due. Tutto qui. Si apriva su un cardine nascosto. L’interno era una delusione: le pareti erano dipinte, ma per il resto appariva più o meno vuota. Naturalmente era così che doveva essere, si disse Jack, altrimenti come avrebbero fatto i bambini a entrarci? I mobili in miniatura, che certo dovevano arredare la casetta d’estate, erano spariti, con tutta probabilità messi al riparo nel capanno degli attrezzi. Chiuse la casetta e udì il lieve scatto della serratura che tornava al suo posto.» (*)
Parafrasando King, è “tutto qui”. La presenza del plastico si esaurisce in queste poche righe e il finale di
King, come sa bene chi ha letto il romanzo, è parecchio differente.
Per oggi ci fermiamo qui. Ci ritroviamo tra qualche giorno e, come detto, affronteremo quattro film piuttosto recenti nei quali l'ambiente in miniatura ha un ruolo predominante. Riuscite già a immaginare quali siano?
CONTINUA
* “Shining”, II edizione “Tascabili Bompiani” giugno 1985, terza parte, cap. 23, p. 209
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