All’ombra de’ cipressi, e dentro l’urne confortate di pianto, è forse il sonno della morte men duro? (Ugo Foscolo, Dei Sepolcri, 1807)
L’isola dei morti. Quattro parole che già così sono abbastanza evocative. Ma più che le parole, è evocativa l’immagine che prende forma nella nostra mente ascoltandole. È l’immagine di un dipinto sul quale di certo la stragrande maggioranza di chi ci inciampa è costretta a soffermarsi per molto più di un semplice istante.
Un’immagine che, d’altra parte, forse per via della ricchezza di particolari, forse per via dell’impenetrabilità del soggetto, richiede un’attenzione particolare, e non certo un’occhiata distratta come quella che si concede a capolavori anche più celebri. L’arte in fondo è anche (e soprattutto) questo: non vi è, se non per ragioni commerciali, una vera necessità di assegnare un titolo a un’opera. E ciò è valido tanto per le arti figurative quanto per quelle uditive. Quante volte abbiamo riconosciuto immediatamente una melodia senza rammentare altrettanto immediatamente il titolo e il suo autore? Quante volte riconosciamo un’immagine senza associarla a null’altro che a se stessa?
"L’isola dei morti" (Die Toteninsel) non fa eccezione: è straordinariamente facile riconoscerla e di lei anche i sassi sanno che 1) ne esistono diverse versioni e che 2) nel 1933 stregò il Führer al punto dal portarlo ad acquisirne una per lo studio della cancelleria del Reich. Il nome del suo autore è invece tutt’altro che facile ricordarlo e, prima che ricorriate a wikipedia, ve lo rivelerò io: si tratta di Arnold Böcklin, uno dei principali esponenti del simbolismo tedesco, corrente guarda caso caratterizzata da contenuti sempre molto complessi da decifrare.