lunedì 30 novembre 2015

The Dream-Leech

Come closer and taste the kiss of Carcosa! (William Laughlin, 1961-2004)

Un paio di mesi fa avevamo chiuso uno dei tanti articoli di questa lunga serie dedicata agli "Yellow Mythos" con una domanda che finora era rimasta senza risposta: che rapporti vi sono (se ve ne sono) tra tutti quei medici specializzati in psichiatria che appaiono quasi sistematicamente nei tanti racconti che abbiamo affrontato? Facciamo un piccolo riassunto. Il primo, l'originale dottor John Archer, ebbe in cura Hildred Castaigne ne "Il riparatore di reputazioni" di Robert W. Chambers (1895) e, come abbiamo visto qui, perse la vita proprio per mano del suo paziente. Il secondo psichiatra fu invece una donna, anche lei Archer di cognome, che avrebbe avuto in cura Constance Castaigne, ne "Il fiume dei sogni notturni" di Karl Edward Wagner (1981). Ai tempi avevamo ipotizzato che quella nuova Archer (il cui nome di battesimo non era però stato precisato) avrebbe potuto essere la figlia del sopra citato John Archer, essendo il racconto, come dimostrato, posizionato cronologicamente circa 25 anni dopo i fatti raccontati da Chambers. Successivamente due nuovi psichiatri fecero contemporaneamente la loro apparizione nel racconto di Ann K. Schwader, "Tattered Souls" (2003), e i loro nomi erano Barbara Post e Monte Spielman. Non avevamo ancora trovato alcun collegamento tra questi ultimi e i due Archer, almeno fino a oggi...

mercoledì 25 novembre 2015

La cisterna

Il paese ha bisogno di riforme, riforme che non possono più essere rinviate. Occorre rendere più flessibile il mercato del lavoro. Non si può pensare alla scuola come a un ammortizzatore sociale. Siamo disponibili al confronto con l’opposizione e le parti sociali. Quante volte abbiamo ascoltato distrattamente queste frasi al telegiornale? Talmente spesso che, ne sono sicuro, ormai hanno per noi perso di significato. Non facciamo nemmeno più caso a chi le pronuncia e a quale sia il contesto dal quale tali frasi emergono. Frasi buttate lì e alle quali non prestiamo più attenzione, consci come siamo che chi le pronuncia ha come unico fine quello di ottenere voti, con i quali ottenere potere e con il quale ottenere benefici personali. I recenti episodi che hanno visto come protagonisti burocrati statali dai nomi eccellenti, pescati come mille altri loro predecessori con le mani nel sacco, tra episodi di clientelismo e vicende di peculato, ci fanno indignare, se non addirittura rabbrividire, però continuiamo a tirare avanti per la nostra strada, a capo chino, brontolando al cielo e sperando, dentro di noi, che qualcuno abbia il coraggio di cambiare le cose. Eppure la storia ci insegna che l’umanità si è trovata più volte di fronte a situazioni di questo genere. La corruzione sempre più diffusa all’interno delle cosiddette democrazie ha fatto in modo che queste ultime sfociassero in qualcosa di ben peggiore. Le dittature nazi-fasciste che insanguinarono l’Europa per tutta la prima metà del Novecento, giusto per fare un esempio, vennero in risposta alla crisi strutturale dei sistemi parlamentari. Tutte le grandi dittature sono sorte a causa dell’illusione del popolo di poter restaurare una democrazia non più rispondente alle necessità pubbliche.

venerdì 20 novembre 2015

Orizzonti del reale (Pt.3)

LA PRIMA PARTE SI TROVA QUI

Paolo Mantegazza, monzese, classe 1831, è uno di quei personaggi incomprensibilmente caduti nel dimenticatoio, uno di quelli che si scoprono solo per caparbietà, per il voler indagare a tutti i costi tra le pieghe della storia. Ma ne vale la pena, perché Mantegazza fu il co-fondatore di quella che chiamò la “scienza degli alimenti nervosi” e che Samorini definisce invece senza troppi giri di parole “scienza delle droghe”, e se è vero che gli studi ai quali si dedicò non sono del tipo che può appassionare il grande pubblico (o almeno credo), dal punto di vista accademico ebbero un peso notevole e meritano pertanto di essere riportati alla luce. In particolare, il suo saggio del 1858 “Sulle virtù igieniche e medicinali della coca e sugli alimenti nervosi in generale” fece molto scalpore, identificandolo in seguito come colui “grazie” al quale l'Occidente aveva cominciato a interessarsi alla cocaina (di cui lo stesso Mantegazza divenne un incallito consumatore fino in tarda età), mentre invece il suo interesse era rivolto in generale a tutte le droghe psicotrope nell'ambito di un progetto di ricerca psicofarmacologica ampio e articolato, come dimostrarono le successive pubblicazioni, inclusa “Quadri della natura umana. Feste ed ebbrezze”, vero caposaldo della letteratura sulle droghe oltre che, probabilmente, il suo lavoro più importante. 
È probabile che questo suo stretto legame con la cocaina, vista la pessima reputazione che questa droga ha oggigiorno, abbia contribuito non poco a gettarlo nell'oblio in cui è stato relegato nell'ultimo secolo e mezzo. Tuttavia, bisogna considerare che nella definizione di Mantegazza di alimenti nervosi non rientrano solo quelle che noi al giorno d'oggi consideriamo a tutti gli effetti delle droghe, come appunto la cocaina, o l'oppio, l'haschisch e l'ayahuasca, ma anche alcuni alimenti che sono ancora di uso comune: bevande fermentate e distillate (vino, birra, liquori…), alcaloidi (caffè, tè, tabacco…), aromatici (pepe, salvia, menta, origano, aglio, cipolla…). Mantegazza si auspicava per ognuno di essi un uso “alterno e sapiente” che avrebbe prodotto “gioia, salute e forza”. Si può dire che il suo auspicio si sia avverato solo in parte. 

domenica 15 novembre 2015

La maschera della morte gialla

La mia recente digressione nel mondo di Edgar Allan Poe non era programmata, ma prima o poi sarebbe dovuta in qualche modo arrivare, visto l’evidente nesso che “La maschera della morte rossa” ha con gli Yellow Mythos chambersiani. Non credo serva ricordare che di questo si è parlato giusto pochi giorni fa, ad ogni modo, visto che l’argomento è stato interrotto per dare visibilità a un’iniziativa di guest blogging, riprendo oggi dal punto in cui mi ero interrotto. 
Il racconto uscito dalla penna di Poe nel 1842 è certamente uno dei suoi più famosi, se non addirittura il più famoso in assoluto. Ricordo perfettamente che era addirittura presente nella mia antologia scolastica ai tempi del biennio delle superiori (se non addirittura delle medie). Credo a questo punto di non esagerare nel dire che fu proprio la lettura di quel racconto, avvenuto in un periodo indiscutibilmente importante per la mia formazione, ad aver trasformato il fanciullo di allora nell’uomo che conoscete. Nonostante quel senso di meraviglia e di follia che la morte rossa mi aveva trasmesso durante la lettura, ricordo che la mia mente di fanciullo non riusciva a metterne a fuoco il significato, non poteva fare a meno di chiedersi cosa diavolo ci facesse un racconto del genere in un’antologia scolastica. In sostanza, non ero riuscito ad arrivare al punto: cosa rappresentava tutto ciò? In parte, quella domanda è ancora in cerca di una risposta. Più che altro la domanda oggi è diventata “perché quel racconto e non un altro di Poe?”.

martedì 10 novembre 2015

La maschera della morte rossa

Solo qualche settimana fa, in coda a uno dei miei tanti articoli facenti parte della serie dedicata ai miti “in giallo”, un lettore mi pose nei commenti la seguente domanda: “Esiste qualcosa che non debba la sua origine al mitico Bierce? Anche quello che non sembra suo... è suo!”. Una domanda ben più che legittima, visto che tutto ciò che abbiamo affrontato finora sembra derivare da un paio di racconti dello scrittore americano, nella fattispecie “Un cittadino di Carcosa” (1887), di cui abbiamo parlato qui, e “Haita, il pastore” (1891), di cui parleremo spero a breve. Robert W. Chambers, come sappiamo, prese poi spunto da Ambrose Bierce e, solo pochi anni più tardi, utilizzò i suoi personaggi e i suoi scenari per realizzare l’ossatura della sua raccolta “Il re in giallo” (1895). Tutti i testi che abbiamo finora preso in esame provengono da quei primi lavori, ivi compreso il celeberrimo “Colui che sussurrava nelle tenebre” (Howard Phillips Lovecraft, 1930), l’unico racconto scritto dal “Solitario di Providence” nel quale è esplicita l’influenza dei suoi illustri predecessori. Va però ricordato, per dovere di completezza, che “Il ritratto di Dorian Gray” (Oscar Wilde, 1890) precede, seppure di soli cinque anni, il lavoro di Chambers, e fu proprio dal romanzo dello scrittore irlandese che, come sappiamo, quest’ultimo trasse l’idea del libro giallo maledetto (ne abbiamo parlato qui e qui). Di conseguenza, alla domanda se “esiste qualcosa che non debba la sua origine a Bierce” la risposta non può che essere affermativa.
Robert W. Chambers ha in buona sostanza saccheggiato almeno due autori, tra l’altro entrambi suoi contemporanei. È tutto? Ovviamente no, altrimenti non sarei qui a scrivere un post che si intitola “La maschera della morte rossa”, non vi pare?

giovedì 5 novembre 2015

Tikkun

Ecco, ci sono ricascato. Nel proporre sul blog una novità, intendo. Anche se ormai sono trascorsi due mesi abbondanti dall’anteprima di Locarno, si può dire che siano ancora in pochi ad avere visionato “Tikkun”, lungometraggio del regista israeliano Avishai Sivan.
Locarno mi ha regalato il mio primo film israeliano, e questo mi pone di fronte alla doppia difficoltà di affrontare un regista che non conosco e di addentrarmi in una cultura a me semisconosciuta come quella ebraica. Normalmente, un film come questo lo si può approcciare in due modi, identificandone i temi portanti (e gli archetipi) e cercando una sua collocazione all'interno della filmografia del regista. In questo caso, il primo metodo è insufficiente e il secondo non mi è possibile, anche perché ho letto che “Tikkun” sarebbe il secondo capitolo di un’ideale trilogia ambientata nel mondo dell’ortodossia ebraica inaugurata nel 2010 con “The Wanderer” (presentato proprio quell’anno alla Quinzaine des réalisateurs).
Inoltre questo è uno di quei film (sarà un caso) il cui reale significato sembra voler continuare a sfuggirmi. Ogni premessa a cui giungo a ogni snodo della trama mi porta a una conclusione, ma anche alla conclusione opposta. Certamente è un mio limite, ma immagino di non essere l’unico a vedere nelle tematiche affrontate una certa ambiguità di fondo che, di certo, giova al film. Descrivere quello di Avishai Sivan come un film religioso sarebbe fuorviante, ma nemmeno del tutto errato. E non intendo con questo che voglia trasmettere chissà quale morale religiosa, ma (banalmente) che sfrutti tanti e tali simboli religiosi (la cavalletta/locusta, il coccodrillo, il cavallo, la nebbia…) da provocare una sorta di corto circuito nello spettatore (o perlomeno per me è stato così). È chiaro che non poteva essere altrimenti, dato che “Tikkun” è ambientato nel mondo dell’ortodossia ebraica: il film narra la storia di Haim-Aaron ma anche quella di suo padre e, di conseguenza, quella di un’intera comunità le cui radici sono ben salde nella religione, una religione legata a una tradizione biblica millenaria.
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