domenica 22 dicembre 2013

Duecento!

E con questo sono duecento! The Obsidian Mirror festeggia oggi il suo duecentesimo post! Tanta acqua è passata sotto i ponti da quell’ormai remoto primo post, timidamente scritto in un lontano e piovoso pomeriggio di aprile. Non sono sicuro che fosse pomeriggio, e nemmeno che fosse piovoso, ma mi piace pensare che lo fosse. Un piovoso pomeriggio di sicuro lo è oggi, quando mancano ormai pochi giorni al Natale e alla conclusione di questo 2013. Ancora una volta, come è normale fare in queste ricorrenze, occorre fermarsi un attimo e guardarsi indietro, capire cosa è stato fatto di buono e cosa è stato fatto di sbagliato. È davvero singolare che questo duecentesimo post arrivi proprio in concomitanza con il sopraggiungere della fine dell’anno: un ulteriore motivo per tirare le somme e le sottrazioni. Cos’è cambiato rispetto al primo post e rispetto al centesimo? Tanto, tantissimo. Nel blog ho trovato la mia giusta dimensione e mi diverto a sguazzarci dentro, ora come allora. Il blog mi permette di dimenticarmi per un istante i tanti problemi della vita reale, la disaffezione al lavoro e alla vita sociale che, a quarantasei anni suonati, comincia un attimino ad annoiarmi. Il blog mi permette di distrarmi dalle quotidiane incombenze, da quei meccanismi in cui a volte mi sento prigioniero. Il blog infine è il rifugio dal dolore e dalla sofferenza, un angolo remoto dove posso chiudermi la porta alle spalle e lasciare fuori tutto. Sono una persona diversa da quella che scrisse il primo post, diversa anche da quella che scrisse il centesimo, ma direi che è inevitabile che lo sia.  Anche le persone attorno a me sono diverse, alcune anche molto diverse. Non è stato un periodo facile, non lo è tuttora e sicuramente non lo sarà ancora per molto e il blog, che del mio io interiore è l’emanazione, ne è un silenzioso testimone. Anyway…..

mercoledì 18 dicembre 2013

Poltergeist: demoniache presenze





















Cosa fareste se scopriste che la casa dove abitate fu costruita su un terreno un tempo destinato a cimitero? E cosa fareste se vi dicessero che, quando ne gettarono le fondamenta, nessuno si preoccupò di trasferire i resti i coloro che vi erano seppelliti? Dormireste ancora sonni tranquilli? Non credo, visto che, come sosteneva un certo Jorge Grau a metà degli anni settanta, “non si deve profanare il sonno dei morti”. Come dite? Sembra la trama, trita e ritrita, di un film dell’orrore? Avete ragione. È infatti la storia che quella vecchia volpe di Steven Spielberg usò come base quando scrisse la sceneggiatura di “Poltergeist  – Demoniache presenze”, un vero cult che non dovrebbe aver bisogno né di presentazioni né, tantomeno, di questo post, ultimo tra tanti, che ne celebri i fasti.

venerdì 13 dicembre 2013

Una gita a Barkerville (Pt.3)

Il mondo in un tappeto” propone un’incursione in un mondo magico che rimanda alla nostra immagine mentale del Giardino dell'Eden, permeata però di un prominente lato oscuro: il titolo italiano, sicuramente meno poetico dell’originale “Weaveworld”, ha però il pregio di sintetizzare molto bene l’argomento, perché in effetti il tappeto è un giardino pieno di gioia e di pace, o perlomeno questo è ciò che il tappeto da preghiera simboleggia nella cultura islamica e mediorientale: il tappeto come casa, il Paradiso a cui aneliamo ritornare. Il tappeto del titolo è proprio la casa-rifugio di una popolazione in fuga dal nostro mondo, una terra magica che brulica di vita sospesa. Particolarmente interessanti sono i personaggi femminili, quasi creature di una specie a parte, che posseggono un potere soprannaturale, il menstruum, che si scatena come un flusso d'energia devastante. È un potere che non fa distinguo tra bene e male, né tra le caratteristiche morali di chi lo possiede: difatti, lo posseggono sia la “buona” Suzanna che la “cattiva” Immacolata, una creatura dalla strana purezza che nel tempo ha saputo insinuarsi nell'immaginario oscuro dell'umanità con molti nomi (Madonna Nera, Signora dell'Angoscia, Mater Maleficiorum) e che con i fantasmi delle sorelle morte Maddalena e Megera forma un'unità perversa e indissolubile.

lunedì 9 dicembre 2013

Una gita a Barkerville (Pt.2)

Un parossismo di sofferenza che non finisce nemmeno con la morte.  Chissà quante reminescenze cristiane, anche inconsce, ci sono in questa visione? Ce ne devono essere, perché gli orrori di Barker somigliano in tutto e per tutto alle rappresentazioni classiche dell'inferno, da quelle della letteratura religiosa a quelle dantesche, anche se è difficile dire fino a che punto lui stesso ne sia consapevole: da lui, dalle interviste che nel corso degli anni ha rilasciato, sembra trasparire una razionalità di fondo, come se per lui parlare di morte e sofferenza fosse una scelta precisa che serve a portare alla luce, a razionalizzare, aspetti spiacevoli della realtà che altrimenti si tenderebbe a negare oppure a rimuovere. A parte questo egli non ha mai negato di essere stato influenzato, come pittore ed illustratore, dalle opere di Hieronymus Bosch, il suo pittore preferito, così come da quelle di William Blake e di altri famosi artisti.
I suoi mostri sono creature straordinarie, nel senso letterale di “fuori dall'ordinario”. Eppure, non si fa fatica a provare per loro una sorta di empatia, riflesso di quella evidente dell'autore, perché per Barker il concetto di normalità non è e non deve essere basato sull'apparenza estetica: alcuni non sono di per sé cattivi, né peggiori degli altri personaggi, sono mostri perché diversi, ma a volte la loro diversità non è altro che un differente stadio evolutivo.

venerdì 6 dicembre 2013

Una gita a Barkerville (Pt.1)

Di tutti gli autori che hanno deciso di trattare del diverso e del mostruoso, Clive Barker è uno di quelli che hanno saputo farlo con lo sguardo più puro. Non mi sembra però, questo, un sintomo del suo distacco; anche se ammetto che questo giudizio potrebbe dipendere da me: io sono uno di quelli che hanno bisogno della paura per sentirsi vivi, pertanto mi riesce difficile concepire un atteggiamento mentale diverso dal mio.
Non è solo la fruizione delle sue opere (letterarie e non), ma anche le sue stesse parole di commento, le sue interviste, che mi hanno portato a esprimere questo giudizio, all'apparenza così tranchant, che mi sforzerò di spiegare di seguito. Una premessa importante: per il momento non intendo parlare del Barker regista, e questa scelta non deriva certo da disinteresse, ma esclusivamente dal fatto che è il Barker scrittore quello che ho conosciuto per primo, e pertanto è da quello che voglio partire. In futuro… chissà.
Ricordo ancora quando, all'inizio della sua carriera, si sprecavano i giudizi ed i paragoni con il re dell'horror Stephen King: quale miglior biglietto da visita per uno scrittore emergente delle lodi, vere o presunte, dello scrittore di genere più famoso? Solo più tardi ho riconosciuto in questo uno dei primi esempi di marketing da me saggiati quando il marketing non sapevo ancora bene che cosa fosse. Bei tempi, quelli!

lunedì 2 dicembre 2013

Onibaba

Gli anni sessanta del secolo scorso, cinematograficamente parlando, furono anni d’oro. In un periodo relativamente breve infatti videro la luce un numero impressionante di pellicole che, ancora oggi dopo oltre mezzo secolo, pubblico e critica sono concordi nel considerare capolavori imprescindibili.  Non è assolutamente un caso quindi che, pur non essendo questo un blog cine- tematico, già molte volte in passato siano qui apparsi articoli su film realizzati proprio in quel periodo. Ho scritto spesso a proposito di gotico italiano (Mario Bava, solo per citarne uno), che qualcuno ricorderà essere un tema ricorrente nel primo anno di vita del blog, ma ho spesso scritto anche dei capolavori dei grandi maestri del cinema giapponese di quel periodo: su tutti Koji Wakamatsu, Hiroishi Teshigahara e Shoei Imamura. C’era tuttavia, a tal proposito, una lacuna che da tanto tempo sentivo il bisogno di colmare:  quella di non aver mai parlato della perla più luccicante tra le tante della mia sterminata collezione “Made in Japan”, uno dei punti fermi della mia, già più volte esternata, passione per quell’incredibile Paese.
Era il 1964 l’anno in cui lo sceneggiatore e regista Kaneto Shindo diresse “Onibaba” (“Le assassine” nella versione italiana), un film basato un racconto buddista che egli aveva appreso da bambino: la parabola della yome-odoshi-no-men (嫁おどしの面) (maschera spaventa-moglie) o niku-zuki-no-men (肉付きの面) (maschera con la carne attaccata). Ho trovato traccia di due diverse versioni di questa storia. Nella prima una madre, per impedire a sua figlia di recarsi al tempio, indossa una maschera per spaventarla. Per punizione la maschera le si incolla al viso, e allora lei prega di riuscire a togliersela: ci riesce, ma insieme alla maschera si strappa anche la carne dal viso. La seconda è la storia di una donna che, per gelosia, indossa una maschera da demone per spaventare sua nuora e impedirle di incontrare il suo amante. L’amore, però, ha la meglio sulla paura, e per punizione la maschera le si incolla permanentemente al viso.
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