Leggere Akutagawa è come fare un tuffo nel Giappone che fu, come attraversare un portale e ritrovarsi all'improvviso in un mondo nel quale la tradizione giapponese è mostrata al suo apice, sebbene già minata da influssi esterni, in particolare da parte della civiltà occidentale.
Non a caso Ryūnosuke Akutagawa (1892-1927), pur avendo cominciato la sua carriera di narratore con opere annoverabili nel Rekishi Mono, ovvero del racconto storico (ambientato nella realtà di qualche secolo prima, nei periodi Heian ed Edo ad esempio), le arricchiva sempre di una vena irreale, definita talvolta un po' a sproposito “fantastica”, e del suo peculiare sguardo critico e pessimistico sull'arroganza dell'umana natura, finché non cominciò ad ambientare i propri racconti in un passato sempre più recente, il che gli consentiva di reinterpretare i temi cari alla tradizione in chiave moderna e, per questo, venne considerato il fondatore di un particolare filone di questo tipo di narrativa.
A lui, morto suicida a soli 35 anni dopo una vita vissuta in preda ad un'acuta crisi spirituale, fu intitolato il più prestigioso premio letterario giapponese, il Premio Akutagawa appunto. Nel corso della sua breve vita Akutagawa scrisse oltre 150 opere, di cui solo una parte è reperibile in italiano.
I suoi sono personaggi inseriti in un contesto sociale estremamente codificato, che spesso li soffoca o al quale faticano ad adeguarsi completamente. Spesso, anche se non è chiaro se per reale volontà o per adattarsi ai gusti del pubblico, egli predilesse lo stile biografico, infatti molti dei suoi racconti sono espressi sotto forma di diario, oppure come soggettiva di uno dei protagonisti o di un testimone della vicenda narrata.
È il caso del racconto del 1922 “Nel bosco” (Yabu no naka), ispirato al “Konjaku Monogatari”. Indubbiamente la sua opera più famosa, ispirò Akira Kurosawa per la trama di “Rashomon” che, nel 1951, vinse il Leone d'Oro al festival del cinema di Venezia. La trama è arcinota: diverse persone coinvolte in un omicidio (incluso lo spirito della vittima) forniscono la loro personale testimonianza di quanto avvenuto, e nessuna di esse collima con le altre. Da notare che l'autore, pur avendo personalmente un forte senso della morale, si limita a presentarci i diversi punti di vista dei personaggi senza indicare alcuna conclusione né chiave di lettura: la morale è che una verità assoluta non esiste, perché tutto ciò che ci accade o che apprendiamo viene filtrato dalla personalità e dalla coscienza individuali (nonché, vorrei aggiungere, dal proprio stadio di evoluzione spirituale). Con un po' di cinismo, potremmo definire questo racconto un inno all'ipocrisia umana.
Altra opera notevole fu “Kappa”, del 1926, della quale un giorno, magari, mi piacerebbe parlare più diffusamente. Ora, invece, vorrei soffermarmi su “Il fazzoletto” (Hankechi) perché secondo me rappresenta molto bene le contraddizioni insite nell'animo giapponese che erano ben presenti, naturalmente, anche nello stesso Akutagawa.
Si narra del professor Kinzo Hasegawa, benestante, colto e profondo conoscitore dell'Occidente, sposato (particolare non trascurabile) con un’americana. Tra le sue letture vi sono quindi i maggiori classici della letteratura europea: Wilde, Ibsen, Strindberg. Tuttavia, egli è anche un amante della cultura giapponese, che crede si possa preservare soltanto perpetrando il Bushido, lo spirito cavalleresco degli antichi samurai, lascito di una tradizione guerriera lunga e ininterrotta dall'XI fino al XIX secolo, che egli paragona allo spirito cristiano d'Occidente. Il Bushido in Giappone ha segnato l’anima nazionale e la cultura come in nessun altro luogo al mondo. Bushido significa lealtà, altissimo senso dell'onore e disprezzo della morte, ovvero un codice morale incorruttibile che coincide con l'ascesi; non a caso, oltre a ricevere l'apprendistato nell'arte della guerra il futuro samurai veniva affidato alle cure di un bonzo, e non è strano che le espressioni “via del guerriero” e “via del bonzo” vengano spesso utilizzate come sinonimi, dato che la finalità di entrambe le figure (la morte in battaglia per il primo, la morte spirituale con la rinuncia alle lusinghe della vita mondana per il secondo) aveva una valenza trascendente, e la “caduta” del samurai-bonzo in battaglia altro non era che il perfezionamento della morte spirituale.
Un giorno Hasegawa riceve la visita di Atsuko Nishiyama, la madre di un suo studente, che gli reca una triste notizia: suo figlio è morto di peritonite dopo una lunga degenza in ospedale, e la donna è venuta a ringraziare il professore per tutto quello che ha fatto per suo figlio. Nonostante l'argomento della conversazione sia così tragico, la donna ne parla con voce tranquilla e misurata, senza nessuna traccia di dolore, addirittura con un accenno di sorriso sulle labbra. “Né dal suo atteggiamento né dal suo comportamento risultava minimamente che ella parlava della morte di suo figlio. Non si vedevano nemmeno le lacrime nei suoi occhi. Anche la sua voce era composta. Ai due angoli della bocca si vedeva persino il sorriso. Se qualcuno l’avesse vista dall’esterno, senza sentire quello che veramente raccontava, avrebbe capito che ella parlava di cose banali di tutti i giorni”. Il professore però si accorge che lei stringe un fazzoletto tra mani che tremano visibilmente, quasi a volerlo fare a pezzi. “Le mani da lui viste tremavano violentemente. Al professore sembrò che ella cercasse di controllare la sua forte emozione interna, tormentando il fazzoletto con le due mani come se volesse strapparlo. E il fazzoletto di seta stropicciato si scuoteva nei suoi angoli ricamati come se fosse mosso dalla brezza tra le sue dita sottili. Sebbene la signora mantenesse il suo sorriso, in verità era già da un po’ che ella piangeva dentro di sé.”
Che cos'è che tormenta davvero Hasegawa? È il pensiero che agli occhi di un occidentale - e di un occidentale colto, per di più - il comportamento della donna (e, per esteso, quello dei giapponesi tutti con la loro proverbiale riservatezza) possa essere mal interpretato e disprezzato, invece che riconosciuto come una manifestazione dello spirito del guerriero? Oppure il dubbio che la sua ospite stesse realmente fingendo, che stesse in qualche modo recitando la parte della madre inconsolabile ma dignitosa?
Sebbene la questione sia d'attualità ancora oggi, per comprendere il senso del racconto è bene ricordare che fu scritto nel 1916. Con l'inizio dell'era Meiji, nel 1868, terminava per il Giappone un lungo periodo di isolamento e cominciava la modernizzazione dello stato e dello stile di vita. In molti sensi questo coincise con un processo di “occidentalizzazione” del paese - che avvenne aprendone le porte al commercio internazionale e alle idee ed innovazioni politiche, scientifiche e tecnologiche di derivazione estera - che avrebbe lasciato in molti, intellettuali in testa, scettici, perché veniva interpretato non come desiderio di miglioramento, ma come mero spirito di emulazione che non faceva che creare nelle masse un sottile ma deleterio senso di inferiorità nei confronti dell'Occidente. Il fazzoletto, che dà il titolo al racconto, fa parte di quella schiera di oggetti che non derivano dalla tradizione autoctona, ma furono importati e divennero alla moda proprio durante l'era Meiji, così come l'arredamento all'occidentale (tavoli, sedie ecc....). In Giappone esiste anche un sistema di scrittura fonetico, il Katakana, per definire quegli oggetti o concetti che, poiché di derivazione straniera, non hanno un apposito ideogramma (hankechi altro non è che la traslitterazione del suono di handkerchief). E non sono pochi...
Certamente il Giappone non è l'unico paese ad avere importato oggetti ed idee (noi italiani lo facciamo spesso e volentieri, incluso il caso di uno degli oggetti fondamentali della nostra vita quotidiana, il bidet!). Tuttavia, è probabilmente il paese che più di tutti ha un rapporto di amore-odio verso questa predisposizione mentale alla “dipendenza” dall'estero, tanto da volerla forse inconsciamente camuffare “giapponesizzando” ove possibile tutte le parole estere, con effetti spesso esilaranti per le nostre orecchie (anche qui si potrebbe aprire una parentesi che riguarda footing, parking e altre parole usate impropriamente o totalmente inventate da noi in Italia per susseguo alla lingua inglese, ma è meglio stendere un velo pietoso).
Akutagawa, come il protagonista de “Il fazzoletto”, era un profondo conoscitore non solo della letteratura giapponese, ma anche di quella cinese ed europea, soprattutto inglese, ed è probabile che con questo racconto volesse sottolineare come agli occhi degli occidentali la vera natura del Giappone e delle sue tradizioni, e soprattutto del Bushido, resti fondamentalmente inafferrabile. Allo stesso tempo, sempre come Hasegawa, era affascinato dall'Occidente. Alla figura di Cristo, cui si appassionò nell'ultima parte della sua vita, dedicò due racconti, “L'uomo dell'Occidente” (Seiho no hito) e “Il seguito de l'uomo dell'Occidente” (Zoku seiho no hito). Addirittura i suoi biografi asseriscono che identificasse la sua vita con quella di Cristo, e che avesse letto dei passi della Bibbia poco prima di suicidarsi, anche se forse il suo interesse per essa fu più folcloristico/letterario che religioso.
I suoi biografi asseriscono anche che il dilemma del professor Kinzo Hasegawa sul manierismo fosse anche il personale dilemma di Akutagawa in merito alla sua scrittura, ovvero che egli abbia convissuto per gran parte della propria vita con il terrore che prima o poi la propria vena poetica si inaridisse e il suo stile potesse essere tacciato di manierismo. Il suo timore era fondato nella misura in cui qualsiasi autore, foss'anche il più originale del mondo, può sempre essere fatto rientrare in un determinato movimento o corrente letteraria. “Il fazzoletto” potrebbe essere dunque un testo persino più autobiografico di quanto comunemente non si pensi.
Grazie per l'interessante ritratto e per i commenti. Davvero affascinante la riflessione sul manierismo. Nel caso saresti disponbile a pubblicare questo articolo anche su LibriNuovi? Il sito è questo: www.librinuovi.net. Dagli un'occhiata e dimmi se ti sembra adeguato.
RispondiEliminaCiao Max. Conosco bene LN :)
EliminaSe mi sembra adeguato? Ma che scherzi? Anzi... Prendi pure l'articolo, no prob.
Immagino sia l'articolo cui hai accennato qualche tempo fa, parlando dello "spirito giapponese" :) Mi è piaciuto molto, è davvero ben scritto.
RispondiEliminaNon conoscevo Atukagawa e la sua opera, ma non me ne stupisco, perché non sono una grande esperta del mondo nipponico; grazie per averne parlato! E grazie anche per aver parlato della società giapponese in generale. E' una realtà così distante, per me, che scoprire qualcosa di più mi riempie sempre di ulteriore curiosità.
Si, è proprio quello! Sono lieto che ti sia piaciuto l'articolo e che sia riuscito in qualche modo ad incuriosirti.
EliminaSai che mi incuriosiva da un po'? Dalla brevissima comparsa in Ghost Dog e dal film di Kurosawa (Rashomon), dev'essere senza dubbio un autore interessante, se non altro perché di letteratura giapponese ho letto pochissimo e solo di autori contemporanei. Credo che costui, proprio per il periodo in cui visse, possa essere un po' più giapponese, o sbaglio?
RispondiEliminaDipende cosa intendi per "più giapponese". Parli di ultranazionalismo? Akutagawa visse più o meno nel periodo Taishō (1912-1926), che viene ricordato come un breve periodo di transizione tra due grandi momenti della storia del Giappone. Il successivo periodo Shōwa, quello si, che sarà ricordato come ultranazionalista...
EliminaIntendo prima della "caduta degli Dei".
EliminaDal giorno in cui Hirohito ha ammesso di essere un umano e non una divinità sono cambiate senz'altro molte cose, ma nemmeno poi così tante. Ricordati di Mishima!
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