lunedì 19 febbraio 2024

Nebraska

Lo ammetto, ho approcciato questo film per un motivo decisamente infantile: il titolo. Un titolo che associo, per mia forma mentis, all’omonimo album di Bruce Springsteen, sottovalutato capolavoro folk registrato con il solo l’ausilio di armonica e chitarra acustica, e fondamentale, all’interno della sua discografia, per il suo fare da spartiacque tra il “working class hero” che era lo Springsteen delle origini e il rocker mainstream in cui egli si trasformò negli anni successivi. 
Anche la promessa del bianco e nero, con il quale è stato girato questo film, ha un collegamento con l’album, quell’emozionante bianco e nero che il boss scelse per copertina del disco come ideale sfondo per storie cupe, di dolore, morte e solitudine viste attraverso la lente delle piccole città rurali del Midwest americano. Ecco, si tratta di uno dei rari casi in cui si può dire, senza timore di essere smentiti, che un libro (un album, in questo caso, e, per estensione, un film) si può giudicare dalla sua copertina: storie che ci portano nelle grandi pianure, verso una terra promessa che è sì lontana, ma non pare così irraggiungibile. Sono storie di persone che hanno perso tutto, anche la propria anima, persone tradite dalla natura illusoria del "sogno americano”, con qua e là lampi di speranza che brillano come squarci tra le nuvole, per poi troppo spesso finire inghiottite da una pioggia battente. 
Alexander Payne, nulla a che fare con Springsteen, fa lo stesso: usa il bianco e nero e sceglie paesaggi per ottenere lo stesso drammatico risultato, il sapore della vera America che vive e sopravvive e che nulla ha a che fare con l’idea di America che ci siamo fatti oltre confine, quella delle luci di New York e di Los Angeles, bugiarde vetrine di un occidente da tempo ormai precipitato in fondo al baratro. Alexander Payne, regista ormai stabilmente consegnato al mito grazie a commedie drammatiche di grande spessore (“A proposito di Schmidt”, 2002, “Sideways”, 2004, “Paradiso amaro”, 2011), sceglie un protagonista altrettanto di culto: Bruce Dern (“Marnie”, 1964, “Piano... piano, dolce Carlotta”, 1964, “Tornando a casa”, 1978), che nell’occasione offre un'interpretazione degna di un Oscar nei panni di un anziano fuori dal mondo e apparentemente impermeabile a qualsiasi cosa succeda attorno a lui.  

Il premio Oscar, al quale, per “Nebraska”, era stato giustamente candidato, alla fine non è arrivato, ma anche questa è l’America, signore e signori, un paese che fatica a guardarsi dentro per non rischiare di dover fare i conti con la propria anima nera. D’altra parte, come giustamente osservava Nietzsche, “se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l'abisso scruterà dentro di te”: un concetto drastico che lascia senza appigli in quella realtà preimpostata che oggi rappresenta l’unica certezza di un paese morente. Nei panni della moglie, June Squibb è invece assolutamente esilarante: si lamenta sempre dell’anziano marito, minaccia di metterlo in una casa di riposo, ma non permette che nessuno si approfitti di lui. I due figli rispecchiano i loro genitori: il primo, interpretato da Bob Odenkirk, assente e poco comprensivo, il secondo, interpretato da Will Forte, più presente e premuroso. È interessante notare, per inciso, come Will Forte, solitamente noto per dare il volto a personaggi idioti in commedie ancora più idiote (vedi “La rivincita delle sfigate” o il sequel di “Un weekend da bamboccioni”), sia riuscito a offrire una prova straordinaria in un film totalmente alieno ai suoi standard. 

Sconfitto da una vita trascorsa tra le sbarre di un insignificante mondo rurale che non offre alcuna via di fuga, Woody Grant (Bruce Dern), un anziano alcolizzato ai margini della demenza senile, un giorno trova qualcosa per cui vale la pena continuare a vivere: una lettera ricevuta per posta che gli annuncia di essere il vincitore di un premio di un milione di dollari da ritirarsi a Lincoln, nel Nebraska. Suo figlio David (Will Forte), cerca di fargli capire che la lettera non è altro che una spudorata truffa dove gli si richiede di sottoscrivere un abbonamento a un certo numero di riviste per poter poi partecipare a un concorso e potenzialmente vincere il jackpot. A Woody non importa. Crede nella buona fede delle persone e, partendo dalla sua abitazione di Billings, nel Montana, decide di allontanarsi a piedi lungo le polverose statali americane per raggiungere Lincoln, lontana oltre mille chilometri, e riscuotere il suo milione di dollari. David lo rintraccia e lo riporta a casa dopo qualche ora, ma Woody è testardo come un mulo e alla prima occasione riparte, per poi essere rintracciato di nuovo e ricondotto alla base. 

Per quanto la sua famiglia si sforzi di capire le sue motivazioni, e di distoglierlo da quella follia, Woody rimane fermo nei suoi propositi. È un uomo semplice, e come tale fa semplicemente quello che vuole. Per evitare il peggio, David si offre infine di accompagnarlo a Lincoln, in un viaggio “di formazione” attraverso i desolati paesaggi in bianco e nero della pianura americana. 
Woody è un uomo di poche parole, chiuso nel suo mondo fatato, ma nonostante ciò, nel corso del viaggio, i due riescono a trovare, forse per la prima volta, il modo di comunicare. David si rende lentamente conto che la lettera ha dato a suo padre, un uomo tranquillo che sta semplicemente vivendo gli ultimi suoi anni, uno scopo che la vita non gli ha mai dato, schiacciato tra le responsabilità di essere padre e un matrimonio senza amore. Ancora più importante, David scopre che quel premio era anche un modo per avere qualcosa da lasciare ai suoi figli dopo la sua morte; qualcosa per dimostrare loro che, nonostante i suoi tanti difetti, egli si prendeva cura di coloro che amava. Ma anche qualcosa per dimostrare a sé stesso che la sua vita valeva la pena di essere vissuta. 

Quello che era iniziato come un viaggio in cui David era convinto di poter convincere suo padre della dura realtà delle truffe tramite posta, si rivela essere un viaggio in cui David ha imparato di più su suo padre di quanto avrebbe mai potuto immaginare. La vera distanza, in estrema sintesi, non è quella fisica del viaggio tra Billings e Lincoln, bensì quella tra i cuori di padre e figlio. Nebraska esplora il processo di invecchiamento di un uomo, le sue speranze e le sue delusioni (il premio alla fine era ovviamente una truffa), ma è anche, come accennato in precedenza, una metafora degli Stati Uniti di oggi: confusi, traballanti, irritabili, che hanno conosciuto giorni migliori ma che stanno lentamente scivolando verso il loro abisso nietzschiano, un’evoluzione non richiesta né desiderata ma che travolge inesorabilmente tutti i suoi abitanti. 
L’altro punto importante sviluppato da Payne è il rapporto con le persone anziane, uomini e donne che non hanno più nulla da chiedere alla vita se non che la propria famiglia li capisca, trascorra del tempo con loro e li sostenga emotivamente. Quando le persone invecchiano diventano testarde ed è difficile affrontarle, ma almeno in questo caso David, come figlio, ha eseguito perfettamente il suo compito. Nebraska è un film che tutti dovrebbero guardare seduti su un divano accanto ai propri genitori, perché darà a voi e a loro un motivo in più per pensare alla vita nel suo insieme, sui motivi per cui magari si litiga e non si va d’accordo, e sulle ragioni per cui c'è sempre e comunque qualcosa che ci tiene uniti.



4 commenti:

  1. Capisco bene l'argomento del film anche per vita vissuta, per ora sono ancora un "David" ma non mi manca poi così tanto tempo per diventare un "Woody". Spero di non diventarlo del tutto, ma proprio la vita vissuta mi ha mostrato come cambiano le persone con la vecchiaia, come probabilmente sarò anche se non vorrei diventarlo.

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    1. Diventeremo, un giorno spero lontano, tutti dei Woody. Magari in forma non grave, ma di sicuro inizieremo ad essere testardi sulle piccole cose. E spero solo che ci sia qualcuno che me lo farà notare.

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  2. Hai descritto alla perfezione un film che ho amato molto, una di quelle opere piccole fuori ma gigantesche dentro. Ad avercene di Nabraska in giro...

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    1. E, per quei paesaggi, mi viene quasi anche voglia di andarci in Nebraska, se solo avessi una vaga idea di quale angolo della mappa guardare. Ma poi mi dico che forse è meglio visitare quei luoghi attraverso il filtro cinematografico, perché temo che la realtà possa essere assai deludente.

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