venerdì 14 giugno 2024

Fuori speciale: storia di uno chef e di ciò che gli ribolliva nelle vene

“Fuori speciale” è una serie di articoli che vengono scritti di getto nel periodo di pubblicazione dello speciale “La grande abbuffata”. Pur non essendone parte integrante, ciò che viene qui trattato ruota intorno all’argomento principale senza spezzarne il filo logico. Si tratta, in estrema sintesi, di piccoli approfondimenti che non hanno trovato posto nella struttura principale. “Fuori speciale”, in uscita tutti i venerdì, non è una lettura necessaria alla comprensione degli articoli de “La grande abbuffata” (che usciranno invece il lunedì), è viceversa una lettura che può essere ignorata o rimandata, a vostro piacimento. 

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Nel corso di uno speciale dove l’attenzione è praticamente sempre rivolta a gente seduta a tavola, non poteva mancare uno sguardo all’altro lato della medaglia, al dietro le quinte, ovvero a quella gente che della ristorazione ne ha fatto un mestiere. Non so quanti tra i miei lettori abbiano mai fatto, nel corso della loro vita, i cuochi, i pizzaioli o i camerieri. Il sottoscritto non è tra questi, anche se non nego che per un giorno, ma solo per un giorno, non mi dispiacerebbe provare. Ho invece visto da vicino amici che nell’assistenza ai tavoli, per necessità e non certo per vocazione, ci si sono tuffati. Tanto mi è bastato per capire quale vita di merda sia: dagli orari assurdi del servizio ai lunghi tempi morti tra pranzi e cene (ma non abbastanza lunghi per tornare a casa), fino alle poche ore di sonno disponibili, spesso utilizzate, anziché per dormire, per lavare e stirare le divise. 
Chi lavorava in quel campo mi ha raccontato di gente che piangeva in cucina, gente che mollava il lavoro a metà servizio, camerieri che venivano alle mani con i cuochi o che mandavano affanculo i clienti più maleducati. Tutte storie buone per un romanzo di Bukowski. 
Da fuori potrebbe sembrare anche tutto bello, ma non è così. I grandi sorrisi di chi ci porta i piatti a tavola sono quasi sempre di cortesia e nascondono un inferno di cui è difficile anche solo immaginare le proporzioni. E l’indizio che ce lo suggerisce è appunto il continuo rinnovo del personale all’interno di questi luoghi. 

Se non avete mai avuto esperienze dirette o indirette con questa realtà, il mio consiglio è quello di guardarvi un interessante film britannico del 2022 diretto da un certo Philip Barantini e interpretato da due meravigliosi (ma sottovalutati) Stephen Graham e Vinette Robinson
Boiling Point” (in Italia arrivato con il sottotitolo “Il disastro è servito”) è il racconto di una notte frenetica in un ristorante stellato di Londra. Il capo chef Andy Jones (Stephen Graham) per diverse ragioni è sotto stress, e negli ultimi due mesi non è riuscito a mantenere alti gli standard, tanto che, nella scena iniziale, si vede togliere un paio di “stelline” a causa di un’ispezione sanitaria terminata non troppo bene. 
È il preludio di una notte in cui andrà storto tutto ciò che poteva andare storto: tra clienti maleducati, imprevisti, errori e conflitti dentro e fuori la cucina, il dramma è dietro l’angolo. 
E tutto ciò mentre il vecchio mentore di Andy, chef di fama mondiale con qualche sassolino nella scarpa, si presenta a cena senza preavviso accompagnato da un noto critico gastronomico, e una tavolata di giovani influencer caciaroni fa le pulci al menù al solo scopo di rompere le palle e se va bene scroccare la cena. 

Girato in un unico piano sequenza, “Boiling Point” è un film avvincente e adrenalinico che fotografa perfettamente lo stress e le tensioni dei lavoratori della ristorazione, specie di quelli che hanno la fortuna (o la sfortuna) di lavorare in un ristorante di fascia alta, dove nulla può essere lasciato al caso. Lo spettatore si sente completamente coinvolto, come se lui stesso lavorasse nella squadra, attanagliato per novanta lunghi minuti dall’ansia di tenere in piedi una situazione che è inevitabilmente destinata a crollare. 
Boiling Point”, preceduto nel 2019 da un cortometraggio con lo stesso titolo, è uno spettacolo davvero straziante che spero possa arrivare alla platea più vasta possibile, invitando le persone a riflettere su alcune delle cose a cui nessuno pensa mai entrando in un ristorante. Personalmente non sono mai stato, nemmeno da ragazzo, quello che si rivolge all’assistente di sala con supponenza, magari sollecitando senza un vero motivo un servizio che tarda un pelino. Ho sempre però visto attorno a me gente che, una volta accomodatasi a un tavolo, dimentica immediatamente i concetti più basilari di educazione, quali i “buongiorno”, i “grazie” e i “per cortesia”, come se tutto fosse dovuto solo per il semplice fatto di essere lì. 

In un mondo in cui il rispetto per il prossimo è inversamente proporzionale alla bramosia di protagonismo, non stupisce nemmeno l’episodio di quel piccolo gruppo di influencer (o presunti tali) che ottengono notorietà da quattro soldi distruggendo vita e carriera anche di chi cerca solo di fare bene e onestamente il suo lavoro. È un fenomeno, quello degli influencer, che ben rappresenta la deriva verso il basso del concetto di recensore, specie se paragoniamo l’opinione di persone perlopiù senza arte né parte all’attività di un vero critico gastronomico che tutto sommato svolge un servizio di pubblica utilità, generalmente onesto e oggettivo (la cosa è ovviamente opinabile, ma io la vedo così). 
Boiling Point”, che si è portato a casa nel 2021 quattro riconoscimenti al BIFA (British Independent Film Awards), si è trasformato in una serie televisiva in quattro puntate, la prima delle quali andata in onda sul primo canale della BBC lo scorso 1° ottobre. La serie, co-diretta da Philip Barantini e Mounia Akl, è in pratica un sequel del film omonimo, anch'esso diretto da Barantini, e comincia nel punto esatto in cui sul film erano scesi i titoli di coda.



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