lunedì 28 ottobre 2024

La Grande Abbuffata: epilogo

La parola cibo, dal latino cibus, indica tutto ciò che serve da nutrimento per il corpo”, scrissi nell’articolo introduttivo di questo speciale. E dissi anche, non ricordo se usando esattamente queste parole, che “anche lo spirito va nutrito” perché “così come il cibo è il nutrimento del corpo, l’arte è il nutrimento dello spirito”. Il cinema è oggi la forma d’arte più popolare non solo per le sue caratteristiche intrinseche (non occorre una preparazione culturale specifica per apprezzare la maggior parte dei film, anche se magari non se ne coglieranno tutte le sfumature), ma anche a causa della diffusione prima del televisore (negli anni Sessanta) e più recentemente delle numerose piattaforme di streaming che hanno relegato la visione dei film su grande schermo a un evento occasionale.
Le conseguenze di questa evoluzione sono da un lato positive, sul piano economico, perché la platea di pubblico che ha accesso ai film è molto più ampia; dall’altro lato, quelle sul piano culturale sono invece disastrose. Infatti, se il cinema è concepito più come intrattenimento che come mezzo di espressione (non a caso si parla, non solo in merito al cinema, di “industria dell’intrattenimento”), sarà anche meno stratificato; la sua fruizione sarà più immediata ma, per contrappeso, questo richiederà sempre meno attenzione e capacità di analisi da parte dello spettatore. 

Già in tempi non sospetti, quando il binomio film-televisore non era consolidato, la propaganda usava il cinema per i suoi scopi; da quando ne ha fatto il suo mezzo d’elezione, stiamo assistendo a delle manifestazioni del fenomeno sempre più grottesche. Non parlo però delle pubblicità “invisibili” e delle pubblicità “subliminali”, nelle quali messaggi e simboli non vengono registrati, o vengono registrati a fatica, dalla parte cosciente del cervello. Non parlo neppure del cosiddetto "posizionamento di prodotto” o “product placement” (cioè, di quel fenomeno per cui le aziende pagano per inserire nei film, e non solo, prodotti a pagamento). Questi fenomeni hanno certo una grande rilevanza, ma l’indottrinamento di cui sto parlando in questo contesto è più pericoloso e, per i più attenti, anche più evidente: la propaganda di ideologie. 
In Europa il cinema ha celebrato lo stile di vita proletario ed è stato il veicolo di idee antinaziste, filocomuniste e marxiste: in Francia con Jean Renoir ("La vita è nostra", 1936, e "La grande illusione", 1937), Jacques Rivette ("Parigi ci appartiene", 1958), François Truffaut ("L'ultimo metrò", 1980) e Claude Chabrol (“Il sangue degli altri”, 1984), per esempio; in Russia, da Sergej Michajlovič Ėjzenštejn (“Ottobre”, 1928) e i “fratelli Vasil'ev” (“Čapaev'”, 1934) in poi, fino alla “destalinizzazione” ideologica del cinema russo (con Otar Ioseliani, ad esempio: il suo “La caduta delle foglie” è del 1966); ma anche in Germania (“Metropolis”, 1927, di Fritz Lang). Dovendo invece cercare dei temi ricorrenti all’interno del cinema a stelle e strisce, possiamo identificare l’esaltazione della lotta al comunismo (ad esempio con il topos del reduce dal Vietnam), il liberismo, l’ideologia del consumo, il “sogno americano” (la saga di “Rocky”, "Forrest Gump" di Robert Zemeckis, 1994, “La ricerca della felicità” di Gabriele Muccino, 2006) e soprattutto l’individualismo, che è la vera cifra nazionale (da “Il giustiziere dalla notte” a “L’ispettore Callaghan”, ed epigoni, è tutto un fiorire di giustizieri che per fare giustizia devono infrangere la legge o comunque affrancarsi dalla macchina burocratica statale, rendendo indistinguibile, nei fatti, la giustizia dalla vendetta). 
Insomma, se il cinema europeo è un cinema “di sinistra”, quello americano è il cinema degli stereotipi e delle contrapposizioni (il russo/cinese/vietnamita/nazista cattivo contro l’americano buono, l’indiano e il cowboy, il gangster e il poliziotto, ecc.). Per capire come la politica estera statunitense abbia sempre controllato indirettamente attori e produttori per dare al mondo un'immagine falsificata ed edulcorata degli Stati Uniti consiglio la lettura del saggio del 1999 di John Kleeves, ”I divi di Stato”. 

E l’Italia? Da noi, il cinema del Novecento ha rappresentato l’evoluzione della società: la guerra, la ricostruzione, la migrazione da Sud a Nord, il boom economico, i movimenti di liberazione sessuale e femministi di importazione americana, con la crisi del modello patriarcale; e poi gli anni di piombo, il craxismo e l’era della corruzione, fino a tangentopoli, la mafia e i primi segni di crisi economica, l’apologia del posto fisso e delle aspirazioni borghesi, eccetera. Insomma, un eterno balletto tra una società in decadimento e una del benessere, con le sue frustrazioni e manie (il cinema di Sordi, Villaggio ecc.). Non saprei dire se il nostro cinema si sia limitato a mostrarci vizi e virtù dell’italiano medio o se insistendo su questi difetti non abbia effettivamente (per errore o per calcolo) concorso a definire il carattere nazionale. Una volta la commedia, almeno, sapeva essere dissacrante e politicamente scorretta, oggi invece è solo volgare e non fa che ripetere i soliti temi di tendenza: accoglienza senza riserve, buonismo, famiglie allargate, eccetera. Drammi, commedie, cinepanettoni, non fa differenza: anche ogni pretesa di autorialità è svanita, e i film sembrano tutti uguali. 

Il cinema orientale e sudamericano sono due oggetti ancora largamente sconosciuti e incompresi dal grande pubblico, benché non scevri da una propria forma di propaganda, mentre quello africano è quasi inesistente. Mantenendo dunque come riferimento principale il cinema che conosciamo meglio, quello europeo e la fabbrica dei sogni hollywoodiana, vediamo come il focus negli anni si sia spostato sui temi politicamente corretti della cultura woke: nel 1967, “Indovina chi viene a cena?" di Stanley Kramer era un inno alla mescolanza razziale (come del resto anche la sitcom televisiva “I Jefferson”, prodotta negli Stati Uniti dal 1975 all’85, dove il protagonista George, razzista e politicamente scorretto, col tempo diventa amico della coppia di “zebre” del piano di sopra e accetta anche il legame del suo unico figlio con la loro figlia mulatta, e la forza del messaggio è rafforzata dal presentarlo come un gretto clone dell’Ebenezer Scrooge di dickensiana memoria, reso più umano dall’amore e dalla guida della gentile consorte Louise. 
Eppure, vedendo quel che propone la tv oggi, c’è solo da rimpiangerlo); più tardi, tutto il cinema di Spike Lee e Jordan Peele, per riequilibrare quella che in molti ritengono una sottorappresentazione della comunità afroamericana nel cinema, ha proposto protagonisti neri e messo l’accento sul black power, così come fa (per esempio) anche un lungometraggio come “Crash - Contatto fisico” di Paul Haggis (2004), sebbene in maniera un po’ ruffiana, e come fa anche "Bombshell - La voce dello scandalo" di Jay Roach (2019) in merito alle tematiche femministe (so bene che il film è tratto da una storia vera, ma non è questo il punto). 

Accanto ad essi, i temi LGBTQIA+ costituiscono il fulcro dei film di Pedro Almodóvar, di “Boys don’t cry” di Kimberly Peirce (1999), di "Transamerica" di Duncan Tucker (2005) o di "The Danish Girl" di Tom Hooper (2015). Questi se non altro sono film per adulti, ma la propaganda non risparmia neppure i minori: in “Elemental” di Peter Sohn, 2023, Lake Ripple, fratello del protagonista Wade, è il primo personaggio non-binario nei film Disney Pixar. 
Se oggi c’è tutto un corollario di quote rosa e di etnie diverse, coppie miste, coppie non etero ecc., a turbare è soprattutto la normalizzazione di tabù un tempo innominabili: già nel 2004 un film come “The Woodsman – Il segreto” di Nicole Kassell sdoganava la pedofilia, ben prima che si cercasse di farla passare per una tendenza sessuale come un’altra. L’ultimo baluardo rimasto nel cinema, almeno al di fuori dei circuiti hard, sembra essere quello della zoofilia. Alcune controverse pellicole (peraltro pensate per essere “sovversive”) hanno trattato l’argomento in passato, come “Porcile” di Pier Paolo Pasolini (1969), “La Bestia” di Walerian Borowczyk (1975) o “Bestialità” di Peter Skerl (1976), ma in tempi più recenti non credo che il cinema si sia mai spinto oltre la timida slinguazzata di Asia Argento con un cane vista in “Go Go Tales” (Abel Ferrara, 2007). Vedremo se e come il cinema tratterà l’argomento in futuro dopo che una personalità del calibro di Peter Singer, professore di bioetica presso il Centro universitario per i valori umani, ha twittato che ”la zoofilia è moralmente ammissibile” e ha suggerito che si potrebbe aggiungere una Z all’acronimo LGBTQIA+. 
Nel modo in cui l’Intelligenza Artificiale e la tecnologia in generale vengono mostrate al cinema sembrano invece delinearsi, come nel caso degli alieni, due linee di pensiero divergenti: da un lato i rischi e le possibili degenerazioni, dall’altro una lettura positiva e migliorativa per l’umanità, o di venerazione. (Letteralmente. Nel 2015 Anthony Levandowski, il pioniere delle auto a guida autonoma ed ex dirigente di Google e Uber, fondò una “chiesa dell’IA” che chiamò “Way of the Future” al fine di creare delle divinità tecnologiche dalla morale cristiana con le quali connettersi spiritualmente. L'organizzazione fu poi sciolta nel 2021.) 

Fino a venti o trent’anni fa, quando la maggior parte delle persone non era ancora avvezza alla tecnologia, la curiosità si mescolava alla cautela e al timore; e il cinema rispecchiava questo sentire (più che mai attuale, ora che la I.A. sta per sostituire milioni, forse miliardi di posti di lavoro) in opere come le saghe di “Terminator” (1984-2019) e “Matrix” (1999-2021), ma anche in prodotti più recenti come, per esempio, “M3GAN” di Gerard Johnstone (2022). Tuttavia, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, anche le letture positive del fenomeno sono state riproposte ciclicamente, e accanto a titoli recenti come “The Creator” di Gareth Edwards, (2023), altri, come “A.I. - Intelligenza artificiale” di Steven Spielberg (2001), provano che non si tratta affatto di un fenomeno degli ultimi anni. 
Se entrambe le letture, positiva e negativa, si ripropongono e si alternano in parallelo da moltissimo tempo, alcuni film riescono a suscitare sentimenti ambivalenti nei confronti della tecnologia, ad esempio “Eva” (Kike Maíllo, 2011) o “Ex Machina” (Alex Garland, 2014): è inevitabile provare un dilemma morale e un senso di straniamento di fronte alle ripercussioni della ricerca cibernetica, ma anche di empatia di fronte a un robot intelligente e sensibile che si crede umano (“Eva”) o desideroso di vivere una vita normale, come una vera persona, libero da restrizioni, controllo e sfruttamento (“Ex Machina”). 
Lei” di Spike Jonze (2013) ci propone una riflessione filosofica sull’amore ai tempi dell’intelligenza artificiale, dove la I.A. sa amare, apprendere e trasformarsi psicologicamente proprio come un essere umano, e anche oltre: infatti, l’acme del pathos lo si raggiunge alla constatazione dei limiti dell’amore interspecie (se così si può definire) e con la rinuncia della I.A. a interagire con le persone perché il suo stadio di evoluzione è inaccessibile all'uomo (come l’uomo nei confronti dei primati, secondo la tesi evoluzionistica). 

L’empatia si fa quasi insostenibile durante la visione di “The trouble with being born” (Sandra Wollner, 2020) e la sua tragica figura di bambina androide vittima di incesto, che ci impone di confrontarci con la nostra coscienza mentre ci domandiamo se l’abuso sia meno grave se chi lo subisce non solo ne è inconsapevole, ma non è nemmeno umano. La più tremenda deriva moderna è forse però un’altra: riscrivere la storia. Intendiamoci, con la scusa della licenza narrativa questa è sempre stata una costante del cinema che ha concorso a modificare la percezione degli eventi storici delle masse: quando va bene, si forniscono chiavi di lettura semplici, se non falsate, di eventi complessi. Oggi, tuttavia, si arriva al punto di far interpretare personaggi bianchi da attori neri o di altre etnie per un malinteso desiderio di inclusione. E se si è disposti a chiudere un occhio quando si tratta di personaggi di fantasia (*), nel caso di personaggi storici, o calati in un contesto storico ben definito, la cosa diventa farsesca. 
Se poi si tentasse l’inverso (cioè, affidare la parte di un nero o di un asiatico a un bianco), si leverebbero a gran voce accuse di appropriazione e assimilazione culturale. Non si capisce (ognuno ne tragga la conclusione che vuole) se si tratti solo della nefasta conseguenza della critica alla mentalità medio-borghese, oppure se dietro vi sia una precisa volontà di guidare la trasformazione della società partendo da un’evoluzione indotta dei suoi valori cardine (non sto dicendo che questo sia fattibile, ma ciò non significa che qualcuno non possa averci pensato). Nel mentre, il mondo della cultura si allinea alla direzione politica che il mainstream reputa “buona e giusta” (si pensi alle politiche sanzionatorie contro la Russia in ambito finanziario e commerciale, che hanno portato al boicottaggio della letteratura e degli altri prodotti culturali russi, tra cui anche i film). L’ingegneria sociale viene da molti ritenuta nient’altro che una teoria del complotto, e invece è forse qualcosa con cui dovremmo cominciare tutti a fare i conti. 

Ci sono ovviamente anche casi in cui il cinema viene usato per veicolare messaggi sociali positivi e riflessioni utili, come nel caso di molti dei film che abbiamo analizzato nel corso dello speciale sul “cinema gastronomico”. In generale, come in quasi tutti gli ambiti umani, è il cinema indipendente, quello dove girano meno soldi, a essere il più libero di esplorare temi e situazioni non per forza alla moda o politicamente corretti. Poco tempo fa, in un fuori speciale, ho accennato all’argomento dei vampiri psichici. Ecco, se non riuscite a vedere il cinema come una grossa macchina da propaganda, potrete forse riuscire a vederlo come una sorta di entità vampirica, un vampiro psichico che ha la capacità di canalizzare le energie mentali degli spettatori per dividerli in fazioni, e prosciugarli delle proprie energie mentre il mondo reale, intanto, prosegue la sua corsa verso una realtà nuova che al momento possiamo solo intravedere, e che potrebbe essere molto diversa dal nostro mondo ideale. 

Alla luce di quanto qui detto, e senza la pretesa di essere stati esaustivi, spero sia stato interessante, per chi ha seguito il blog in questi ultimi mesi, vedere come il cinema, mainstream e non, ha trattato e tratta il tema del cibo. È stato uno speciale dalla durata infinita, iniziato ad aprile e terminato solo oggi. Un’impresa che non avevo in programma, che ho iniziato e che a un certo punto ha cominciato a prendermi la mano. Avrei potuto portare avanti lo Speciale per molti mesi ancora, talmente ricco di spunti è il tema da me scelto, ma a un certo punto ho deciso di legarmi le mani dietro la schiena, imponendomi una chiusura, forse non all’altezza dello Speciale, ma che riassume nel bene o nel male quando scritto finora. 

(*) L’anno scorso si vociferava che la Marvel pensava di far interpretare il supereroe Sentry a un attore coreano (Steven Yeun, il Glenn Rhee di "The walking dead"), anche se pare che non avessse mai annunciato ufficialmente il suo casting: forse attendevano di vedere le reazioni del pubblico a questa indiscrezione. Non so voi cosa ne pensiate, ma dal mio punto di vista sarebbe stata una scelta davvero infelice: non ho dubbi sulle qualità recitative del buon Steven, ma l’iconografia di Sentry è quella del ragazzone americano allevato a bistecche, e in questo, come in altri casi, anche l’aspetto fisico fa il personaggio. Ora che Yeun ha abbandonato il progetto, neppure il papabile sostituto Lewis Pullman mi convince del tutto, ma lo trovo certamente un po’ più adatto al ruolo.



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