lunedì 2 dicembre 2024

Karma, colpa e fine vita (Pt.1): la ballata di Narayama

Quello di karma è un concetto nel quale ho creduto a lungo, o in cui ho voluto credere, o che comunque ho accarezzato abbastanza da citarlo nelle più svariate situazioni, reali e virtuali. Da tempo non è più così, e il fatto che ancora oggi lo tiri spesso in ballo non è indicativo dei miei sentimenti a riguardo; insomma, sono come uno di quegli atei che bestemmia perché viene da un contesto in cui si fa così e lo fa come un automatismo appreso da tempo immemore, che non ha un vero significato e neppure alcuna implicazione se non quella di renderlo inviso agli altri. La mia riflessione di oggi non riguarda solo letteratura e cinema, ma soprattutto la realtà di ieri e di oggi e, vi avverto, è forse tra le cose più controverse che abbia mai scritto. 
Nulla meglio di "Le canzoni di Narayama" (楢山節考, Narayama bushikō, letteralmente "La ballata di Narayama") di Shichirō Fukazawa, un racconto giapponese risalente agli anni ‘50, potrebbe offrirmi spunto migliore per introdurre il tema di oggi. Ho quindi ripescato dalla libreria e riletto la mia edizione Einaudi del 1961 (una traduzione dal francese) di questo libro, una copia così ingiallita e fragile, tra le dita, che ogni volta che la prendo in mano ho paura che la costa si rompa e le pagine si sparpaglino. 
L’opera prima di Fukazawa è notevole non tanto per lo stile, a tratti anche eccessivamente scarno, ma per il suo valore antropologico; non solo gli valse un premio per nuovi talenti messo in palio dalla rivista “Chũō kōron" nel ‘56, ma apparve nel panorama letterario nazionale del dopoguerra come un fulmine a ciel sereno: in controtendenza rispetto alla maggior parte degli intellettuali e scrittori, che si occupava di temi considerati attuali come la libertà, la società e l’affermazione del sé, Fukazawa propose invece una storia popolare legata alla tradizione e ai valori della religione buddista. 
Fingendo di voler ricostruire la storia di alcune canzoni popolari del Giappone centrale (*), il narratore descrive la vita in un piccolo villaggio fra le montagne del Shinshu in cui, al raggiungimento dei settant’anni, gli anziani vanno in pellegrinaggio a Narayama, un eufemismo per dire che vengono condotti a morire su una vicina montagna dove si dice che alberghi il Signore di Narayama. 

Alla soglia dei settant’anni, O Rin ha cominciato i preparativi per “andare alla montagna” da ben tre anni e non fa che parlare di quel momento, mostrandosi piena di orgoglio e serena, mentre suo figlio sembra sempre più angosciato man mano che il fatidico momento si avvicina. L’unico rammarico della donna è avere ancora una dentatura perfetta, come se fosse un’onta recarsi al cospetto del Dio con ancora tutti i denti al proprio posto; suo nipote ha perfino storpiato alcuni versi di una canzone menzionando i suoi “denti di diavolo”, lasciando ad intendere che, anche se il cibo scarseggia sempre per tutti, lei si nutra più del dovuto. Se O Rin si prodiga per assicurare un futuro alla famiglia dopo la sua dipartita e anticipa perfino la partenza, il vecchio Mata-yan della Casa del Soldo non sente allo stesso modo quel vincolo morale e cerca di sottarvisi, attirando le ire della sua famiglia: O Rin lo compatisce, convinta che il suo comportamento sia un effetto delle “cattive cause” e che sarà fonte di “cattivi effetti” (noi lo chiameremmo karma: ci torneremo su). 
L’immagine di O Rin sola nella bufera di neve (ma anche quella del povero Mata-yan) descritta dalla penna di Fukazawa è indelebile, ma nonostante tutto la prosa asciutta e la presenza delle canzoni fanno rassomigliare la narrazione a un racconto mitico, permettendoci di conservare una certa distanza emotiva; al cinema però l’effetto è amplificato da immagini capaci di aggiungere forza e pathos al racconto: vi invito quindi, se non lo avete mai fatto, a recuperare almeno uno dei due adattamenti per il cinema di questo libro, quello di Keisuke Kinoshita (“La leggenda di Narayama”, 1958) e quello più famoso di Shōhei Imamura (“La ballata di Narayama”, Palma d’Oro al festival di Cannes del 1983). 

L’Autore si rifà alla pratica dell’Obasute o Ubasute (姥捨), l’antica usanza di lasciar morire gli anziani o gli infermi di propria spontanea volontà in qualche località remota per non gravare sulle risorse delle famiglie, ovvero sulle spalle dei loro membri più giovani. (**) Data la mancanza di documenti ufficiali o leggi scritte che ne provino l'esistenza, secondo molti studiosi non si tratterebbe che di una delle tante leggende di cui è ricco il folclore giapponese; tuttavia, proprio nel folclore si trova traccia di una toponomastica che fa esplicito riferimento al termine Obasute, come ad esempio "Obasuteyama", guarda caso il nomignolo del monte Kankuri nella prefettura di Nagano di cui Fukazawa scrive nel suo racconto. 
Come qualunque antropologo potrebbe confermare, nel mondo naturale le leggi della sopravvivenza sono crudeli, e nell’impossibilità di moltiplicare le risorse spesso non rimane altra scelta che limitarne la domanda: in parole povere, diminuire le bocche da sfamare. È evidente quindi che questa storia romanzi un’antica tradizione per la quale i membri più anziani della comunità non erano destinati a terminare la propria esistenza terrena in maniera naturale, ma a sacrificarsi spontaneamente, accettando di recarsi nelle profondità delle montagne o in qualche remoto luogo della campagna per morirvi. Soprattutto, la vicenda di O Rin è il paradigma della mentalità orientale, in cui il senso del dovere e lo spirito di sacrificio sono espressi al massimo grado, fino al punto, nel nostro caso, da eclissare l’umano senso di solidarietà e la pietà, nella convinzione che se non ci si comporta come gli altri si aspettano, si finirà di fatto per essere esclusi dalla comunità, al di fuori della quale la vita non è possibile. Tuttavia, ciò che più stupisce della storia di Naramaya, quantomeno dal nostro punto di vista di occidentali, è che tutto questo viene legittimato dalla religione, perché rompere un qualunque patto sociale, anche non scritto, equivale non solo a spezzare il legame con la comunità, ma anche con Dio (in questo caso, il Dio della montagna), e scatenare la sua collera. 
In una visione in cui il libero arbitrio non è contemplato, il concetto di karma viene snaturato per tramutarsi in una trappola nella quale la fede in una ricompensa futura, in un tempo indeterminato, serve per spingere le persone a un atto contrario all’autoconservazione o al semplice buon senso (come procurarsi la morte) oppure all’inazione (ad esempio l’accettazione di diseguaglianze sociali, come spiegherò tra breve); ed è il concetto di karma a determinare questo modo di pensare, non viceversa. 

(*) Pare che quella principale, “Narayama-bushi”, le cui note e testo sono trascritti alla fine del volume, sia stata scritta e composta dallo stesso Fukazawa ispirandosi a una canzone tradizionale davvero esistente.
(**) Personalmente sono da sempre convinto che una forma di Ubasute sia esistita nella maggior parte del mondo antico, inclusa l'Europa, anche se mentre scrivo non ho sottomano delle fonti. Magari gli anziani non venivano abbandonati, ma si smetteva di assisterli o li si convinceva a commettere direttamente o indirittamente suicidio.

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