venerdì 21 marzo 2025

Il vampiro di A.K. Tolstoj

A costo di risultare monotono, confesso che anche la lettura che vi presento oggi è stata resa possibile da una trasferta di lavoro. Non che a casa io non legga, ma è innegabile che quando sono solo, senza distrazioni, è il momento ideale per prendere in mano un libro. E così, in un tardo pomeriggio di febbraio, in una giornata di lavoro finita presto, per essere un giorno di fiera, rientro nel solito albergo di Verona che mi ospita tutti gli anni nello stesso periodo, apro questa piccola antologia e porto subito a termine il primo dei quattro racconti, poi getto uno sguardo all'orologio e decido che è il momento di telefonare a mia moglie. Non so a voi, ma a me dà conforto quella chiamata quando sono lontano da casa, anche se breve, anche se solo per parlare del tempo. Avere qualcuno da chiamare, quando si è via per lavoro, mi ripaga della giornata trascorsa e mi permette di darle un senso. Viceversa sarebbe solo schiavitù. Chiamo mia moglie, che quel libro lo ha già letto la settimana scorsa, e tra le tante cose che ho da dirle le annuncio di aver completato il primo racconto, che mi è piaciuto, e che ho ancora abbastanza tempo per passare al secondo, una volta terminata la telefonata. 
Lei si guarda bene dall'anticiparmi che il secondo racconto ha alcuni simpatici punti di contatto con il primo, e di questo piccolo riguardo le sono grato. Un piccolo riguardo che, mi scuserete, io non ho avuto con voi che ormai, a questo punto, già ne siete al corrente. Ma non preoccupatevi: i dettagli, almeno quelli, ve li risparmierò, perché vale davvero la pena di scoprirli da soli.

Dell'esistenza di Aleksej Kostantinovič Tolstoj, solo un lontano parente dell'autore di "Guerra e pace" e "Anna Karenina", ero completamente ignaro solo fino a pochi mesi fa, quando sbattei il muso sulla presentazione di questa ennesima uscita di Nero Press Edizioni. Ho scritto "completamente ignaro" ma non è del tutto vero, e ne ho preso coscienza quando ho scoperto dell'esistenza di almeno un paio di trasposizioni cinematografiche che, seppur certamente passate davanti ai miei occhi secoli fa, avevo ovviamente dimenticato. Mi riferisco in particolare a "I tre volti della paura" (1963) di Mario Bava, film a episodi per cui l'autore romano millantò di aver tratto ispirazione da altrettanti racconti di Tolstoj (senza specificare quale Tolstoj), Maupassant (falso) e Cechov (falso). Quello che nel '63 Bava non poteva prevedere è che quel suo vecchio film (uscito negli Stati Uniti con il titolo di "Black Sabbath") avrebbe ispirato il nome di una band che avrebbe in seguito scritto un pezzo importante della storia del rock. Non solo: la struttura narrativa di "Black Sabbath", con tre storie intrecciate tra loro ma allo stesso tempo indipendenti, sarebbe stata successivamente fonte di ispirazione per "Pulp Fiction" (1994) di Tarantino, almeno se dobbiamo prestar fede a quanto detto dal regista stesso.

Boris Karloff nell'adattamento "I tre volti della paura" di Mario Bava (1963)
La pellicola di Mario Bava prende spunto proprio dal racconto iniziale, e il suddetto racconto, sebbene non sia quello che presta il nome all'antologia, è probabilmente quello che più riesce a trasmettere al lettore momenti di ineguagliabile terrore, un terrore che né Bava né registi a lui successivi riusciranno a esprimere con le immagini. Mi riferisco a "La famiglia del vurdalak", che trae ispirazione da una figura del folclore slavo, una variante del vampiro classico che predilige il sangue dei propri familiari. Il vurdalak non ha nulla di aristocratico: è sporco, terrigno, espressione di una cultura popolare che ha le sue radici nella terra e della famiglia, valori che la sua stessa esistenza implicitamente riafferma. 
Scritto nel 1839 in lingua francese e pubblicato per la prima volta in russo nel 1884 sulla rivista “Russian Herald”, "La famiglia del vurdalak" narra la vicenda del marchese d'Urfé, un giovane diplomatico francese ospite casuale nella casa di un vecchio contadino serbo di nome Gorcha. Quest'ultimo è assente: ha lasciato la casa dieci giorni prima per dare la caccia a un fuorilegge turco. Al momento di andarsene aveva detto ai suoi figli, Georges e Pierre, che avrebbero dovuto aspettarlo per dieci giorni precisi e che, se fosse arrivato anche solo un minuto dopo, avrebbero dovuto ucciderlo conficcandogli un paletto di pioppo nel cuore, poiché il suo ritardo avrebbe significato che a bussare alla porta non sarebbe più stato un essere umano, ma un vurdalak. 
Della trama non racconterò altro, ma immagino che il passaggio successivo possa essere facilmente previsto da chiunque. Quella che è difficilmente prevedibile è invece la piega orrorifica degli avvenimenti che trova il suo climax in quella strana figura che si aggira all'esterno della casa, osservando nel buio gli abitanti attraverso le finestre. Si tratta di un'immagine che difficilmente potrei trasmettere a parole in questa recensione, ma vi assicuro che la sola idea di spegnere la luce quella notte, in quell'albergo, mi colmava d'ansia. 

Gianni Garko e Agostina Belli nell'adattamento "La notte dei diavoli" di Giorgio Ferroni (1972)
Il secondo racconto, "Appuntamento tra trecento anni", riprende un paio di personaggi già presenti nel pezzo precedente, uno dei quali era stato citato solo en-passant. A differenza di quanto si possa pensare, questo secondo episodio non ha nulla da invidiare al primo, del quale rappresenta virtualmente il sequel (fu pubblicato a Parigi nel 1912 e un anno dopo in Russia) discostandosi però nettamente dalla figura del vampiro. Diciamo piuttosto che, nonostante provi a spingersi (ma è una falsa pista) verso il tema della licantropia, finisce per pescare a piene mani dai topoi dalla tradizione vittoriana, ivi compreso un castello sperduto nella brughiera, dove la protagonista cercherà rifugio in una notte di pioggia, e i suoi singolari abitanti. A mio avviso, si tratta di un racconto davvero ben riuscito ed evocativo, anche se forse meno originale del primo.

Il terzo frammento è quello che dà il titolo all'antologia e, dei quattro, oltre a essere il più lungo è anche il più interessante dal punto di vista narrativo: esso, infatti, altera l'ordine naturale degli eventi, presentando diverse sotto-trame le une dentro le altre come tante simpatiche matrioske. A livello di godibilità, la lettura de "Il vampiro" un po' risente della tutto sommato giustificata inesperienza dell'autore (all'epoca ventenne), ma il risultato è comunque apprezzabile perché, tra le altre cose, riesce bene a miscelare la tradizione russa all'ambientazione italiana; in questo senso, possiamo considerare A. K. Tolstoj uno dei pionieri di un "gotico mediterraneo" che avrà altri eccellenti esponenti (solo per fare un esempio, il britannico Oliver Onions e l'autrice inglese Daphne Du Maurier). 
Durante un ricevimento, il nobile Runevsky nota “un uomo, all'apparenza ancora giovane, ma pallido e quasi completamente incanutito” che lamenta le presenza di diversi "upyr", altro termine che identifica i non-morti della mitologia slava, che "con sorprendente sfrontatezza", fingono di essere vivi per cogliere impreparate le proprie vittime. Lo stesso sconosciuto, il cui nome si rivela essere Rybarenko, racconterà in seguito una storia accadutagli in Italia, tra le vecchie mura di un edificio sito nel centro di Como; una storia presentata in modo tale da stimolare nel lettore la sensazione di trovarsi di fronte solo ai deliri di un pazzo. Ma sarà davvero così? 
L'upyr, come rilevato anche nella prefazione, è ben diverso dal vurdalak, incarnando piuttosto l'espressione di una nobiltà di provincia decadente, compiaciuta e nostalgica (e, diciamolo, anche un po' ridicola), in grado di prosperare con astuzia e caparbietà quasi in contrapposizione ideologica alla modernità che avanza.

Una scena dall'adattamento "Le Vourdalak" di Adrien Beau (2023)
Il breve "Amena", che chiude l'antologia, viene presentato al lettore come un frammento del romanzo "Stebelovskij" (di cui però non si sa altro) e si può riassumere, in estrema sintesi, in una storia di tentazione e abiura nell’antica Roma, in cui l'Italia non è mera espressione geografica ma anche la fonte mitologica di un'ennesima (e perfino più subdola) versione di un succhiasangue. Personalmente, ho colto qui anche delle suggestioni da "Le mille e una notte". 
Penalizzato, ahimè, da un finale piuttosto prevedibile, "Amena", pur essendo una prova ben sopra la sufficienza, non aggiunge granché al volume, e resta un po' di amaro in bocca al pensiero di come sarebbe potuta essere diversa la percezione di questo frammento di storia all'interno dell'opera di più ampio respiro che l'Autore aveva concepito. Ma al di là di della diversa qualità dei quattro racconti, per chi scrive questo volume rappresenta comunque una piacevole sorpresa nel vasto panorama della letteratura dell'orrore che editori lungimiranti come "Nero Press" stanno in questi ultimi anni recuperando e proponendo ai propri lettori. 

Questa agile pubblicazione, che si porta facilmente a termine in poche sere con un impegno pressoché minimo, è impreziosita da un corposo apparato introduttivo a cura di Marco Battaglia (artefice anche dell'ottima traduzione) che, da grande esperto di cultura e letteratura russa, ci regala, oltre che un'attenta analisi dell'opera e del suo autore, una serie di gustosi approfondimenti del contesto in cui Aleksej Kostantinovič Tolstoj si trovò a rielaborare il gotico inglese in chiave russa, aggiungendovi "una propria dose di umorismo e satira di costume". Non mancano, nella prefazione, ampi rimandi alla cultura slava e alla sua interconnessione con il vampirismo più formale che è giunto sino a noi attraverso autori ben più celebrati, ma non per questo più validi.
Il conte Aleksej Konstantinovič Tolstoj (1817-1875) fu scrittore, poeta e drammaturgo. Autore di numerose poesie, liriche e ballate, fu membro corrispondente dell'Accademia imperiale delle scienze di San Pietroburgo. Oggi lo ricordiamo per il romanzo storico "Il principe Serebrjany"  (pubblicato nel 1863) e della trilogia drammatica "La morte di Ivan il Terribile" (1866), "Lo zar Fëdor Ioannovich" (1868) e "Lo zar Boris" (1870). Paragonati ai capolavori del fantastico, i racconti presenti in questa antologia, scritti parte in francese, parte in russo tra il 1839 e il 1846, potrebbero a tratti sembrare ingenui a un lettore superficiale, ma bisogna considerare che rappresentano i primi approcci giovanili dell'autore con la scrittura e come tali andrebbero quindi interpretati.

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